Editoriale

Afghanistan, una sconfitta dietro l’altra

Kabul è caduta e sono bastate solo poche settimane ai talebani per annientare l’esercito afghano, finanziato e addestrato dagli Stati Uniti per vent’anni. Per la cronaca, il regime comunista era sopravvissuto tre anni al ritiro dell’Armata Rossa. Ma, al di là della rapida sconfitta, il disastro afghano segna il fallimento della “guerra contro il terrorismo”.

Ragazzo afghano sul relitto di un carro armato di epoca sovietica a Herat, vicino a kabul il 28 novembre 2019
Noorullah Shirzada/AFP

È la primavera del 1988, siamo a Kabul. L’Unione Sovietica, per voce del Segretario Generale del Partito Comunista Mikhail Gorbaciov, ha appena annunciato il ritiro unilaterale delle sue truppe, entrate in Afghanistan nel dicembre del 1979. Per la prima volta, il regime sta per aprire le porte ad un gruppo di 150 giornalisti stranieri arrivati per lo più dal mondo occidentale e che, in gran parte, ha un livello di conoscenza della storia e della cultura dell’Afghanistan prossimo allo zero. Le loro nozioni si riducono ad un assioma rudimentale: la guerra vede contrapposti dei gloriosi mujaheddin ad un partito comunista ridotto al ruolo di burattino nelle mani dei sovietici: il Partito Democratico Popolare, che ha preso il potere il 27 aprile del 1978.

La sera, giunti in albergo, un’ora prima del coprifuoco, siamo invitati dall’incaricato d’affari americano che ci fornisce informazioni, con carte militari alla mano e l’aplomb di un generale alla vigilia di una grande vittoria, su come i ribelli arriveranno a conquistare Kabul non appena gli ultimi soldati sovietici saranno andati via. Armati di certezze e folgorati dalle “informazioni”, i giornalisti cominciano a vagare per le strade della capitale alla ricerca di un’immagine che simboleggi quest’inevitabile sconfitta dell’URSS, come ad esempio quella di un carro armato che si è rovesciato in un fiume della città, prova inconfutabile della disgregazione del regime.

All’epoca, a nessuno importava del futuro delle donne afghane. Eppure, nella capitale, solo la metà di loro indossava il burqa, il velo che le ricopre dalla testa ai piedi, lasciando solo una stretta feritoia a forma di retina all’altezza del viso, e si vedevano nei corridoi dei ministeri e degli uffici amministrativi. Allora avevano accesso all’istruzione, almeno nelle grandi città.

Ridotto a scontro tra Est ed Ovest, tra il Male e il Bene, al conflitto hanno partecipato anche altri oltre alle due potenze. Il Partito Comunista Afgano, attraversato da una serie di correnti, molto diviso al suo interno, che aveva un’influenza limitata, ma concreta tra gli strati più “moderni” – in particolare tra gli ufficiali e i soldati – e tra le minoranze, che lo avevano spinto a conquistare il potere senza l’appoggio dei sovietici, che intrattenevano ottimi rapporti con il presidente destituito Mohammad Daoud Khan. All’epoca, avevo incontrato alcuni leader del movimento, capendo fin dove arrivava la loro determinazione a non cedere il potere senza combattere.

«Far sanguinare i russi»

La resistenza afghana era frammentata in una moltitudine di gruppi, e le posizioni radicali (non ancora chiamate jihadiste) sono diventate più forti con il prolungarsi della guerra e dei crimini dell’Armata Rossa. Ma, per il presidente americano Ronald Reagan e per l’Occidente, erano solo dei “combattenti per la libertà” di fronte all’“impero del Male”, con tutte le virtù dei valorosi cavalieri, così emozionanti nei loro costumi tradizionali.

In un libro pubblicato nel 1995,1 il giornalista americano Selig S. Harrison e il mediatore Onu in Afghanistan, l’ex ministro degli Affari Esteri dell’Ecuador Diego Cordovez, avevano scritto: “Se Mosca era il cattivo, non ci sono stati i buoni” in questa storia. Nonostante ciò, per Washington, era necessario “combattere fino all’ultimo afghano” per “far sanguinare i russi”. Una strategia delineata già a partire dal 1980 da un giovane ricercatore, che sarebbe entrato a far parte dell’amministrazione del presidente Ronald Reagan, quel Francis Fukuyama non ancora reso celebre dal suo libro La fine della storia e l’ultimo uomo ( The End of History and the Last Man,1992). In nome di una visione manichea, gli Stati Uniti, nel corso degli anni, avrebbero sabotato gli sforzi delle Nazioni Unite per garantire una transizione pacifica basata sul ritiro dell’Armata Rossa.

È vero che gli strateghi americani, e non solo loro, hanno interpretato l’intervento sovietico in Afghanistan come prova di un irresistibile espansionismo: la ricerca di un accesso ai mari caldi e un ulteriore passo verso la conquista del mondo. Il filosofo Jean-François Revel, lungimirante come sempre, proclamava la fine delle democrazie, incapaci di lottare contro “il più temibile dei nemici esterni, il comunismo, variante attuale e modello compiuto del totalitarismo”.

La fabbrica dei jihadisti

Questo “modello compiuto” aveva però solo pochi anni di vita e i carri armati dell’Armata Rossa non stavano per irrompere sugli Champs-Elysées.2 La guerra finanziata da Washington non ha fatto granché per indebolire un sistema già moribondo, ma ha dato una spinta imprevista ai gruppi più estremisti di ribelli che gli Stati Uniti e il Pakistan, in primo luogo, stavano finanziando: non erano forse i combattenti migliori? È nel corso di questo lungo e sanguinoso conflitto che si stava formando una generazione di jihadisti, afghani e arabi, che si sarebbe rivoltata contro gli Stati Uniti, come si vedrà con gli attentati dell’11 settembre 2001. Se Washington non ha creato Al-Qaeda, come alcuni vorrebbero farci credere, ha contribuito a farlo con la sua cecità.3

Torniamo a quella primavera di Kabul del 1988. Contrariamente alle illusioni del diplomatico americano, il regime è sopravvissuto per tre anni al ritiro dell’Armata Rossa e ha resistito molto meglio del governo afghano voluto da Washington. C’è voluta la decisione della Russia, che aveva preso il posto dell’Unione Sovietica, di non fornire più armi al suo vecchio alleato e la defezione del generale Abdul Rashid Dostum, di origine uzbeka – sopravvissuto a tutti gli eventi della guerra fino ad oggi – per abbattere il regime. Risultato: diversi anni di guerra civile e l’ascesa al potere dei talebani, “studenti di religione” finanziati e sostenuti in gran parte dal Pakistan, alleato degli Stati Uniti. Hanno messo fine alla guerra civile tra i vari gruppi di mujaheddin, conquistato Kabul nel 1996, instaurato un regime oscurantista e fornito a Osama bin Laden un rifugio sicuro. Ma, con la fine della Guerra Fredda, per Washington l’Afghanistan non ha rappresentato più una priorità. E il destino delle donne afgane, a volte invocato per giustificare l’invasione americana, è stato presto dimenticato.4

LAGUERRA AL TERRORE”, UNA SPIRALE SENZA FINE

Tuttavia, dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova crociata, la “Guerra al terrore”, invadendo il paese. Ma, come i sovietici, si sono impantanati in un conflitto senza fine e con nessuna speranza di vittoria. Gli “attacchi chirurgici” hanno ucciso, insieme ai talebani, molte vittime innocenti; gli attacchi hanno provocato rappresaglie che non hanno risparmiato i civili; e la “pacificazione” ha spinto sempre più afgani all’esilio o verso le grandi città. Quanto alla loro promessa di instaurare la democrazia, è rimasta lettera morta. Come ha scritto Human Rights Watch nel 2002, “quando gli Stati Uniti hanno dato la caccia ai talebani nel novembre del 2001, agli afghani era stata promessa una nuova era democratica nel rispetto dei diritti umani... ma le loro aspettative non si sono realizzate”.5 Imposti dagli stranieri, divisi e corrotti, dipendenti da milizie i cui abusi sono stati ampiamente documentati,6 i nuovi leader sono apparsi ben presto come dei tirapiedi degli Stati Uniti, provocando le prime forme di resistenza e, in seguito, le prime repressioni. Una spirale senza fine, simile all’incubo vissuto dall’Armata Rossa.

LA FINE DEGLI IMPERI E LE GUERRE IMPOSSIBILI DA VINCERE

Nel 1969, molto prima degli interventi sovietici e americani, uno studioso afghano aveva scritto in un piccolo opuscolo che presentava il suo Paese: “Una delle caratteristiche più importanti degli afghani è il loro indomito amore per l’indipendenza. Gli afghani accetteranno con pazienza la cattiva sorte o la povertà, ma non possiamo convincerli a riconciliarsi con una potenza straniera, per quanto illuminata e progressista possa essere”. Per tre volte nella storia recente, nel 1842, nel 1881 e nel 1919, l’Impero britannico ne farà un’esperienza disastrosa. Le prime due volte quando si trattava di “impedire” l’avanzata zarista in Asia, che minacciava l’India, il gioiello della Corona; la terza per affrontare l’espansione del movimento nazionalista anticoloniale nel paese. Poco tempo dopo, anche l’“URSS avrà la sua occasione, per ‘prevenire’ le “condotte imperialiste”. Oggi sono gli Stati Uniti che si ritirano alla fine della guerra più lunga della loro storia, condotta in nome della necessaria repressione del terrorismo.

Se gli insuccessi degli imperi del XIX e dell’inizio del XX secolo avevano qualcosa di straordinario al tempo in cui le potenze coloniali dominavano ancora il pianeta, le sconfitte successive hanno confermato soprattutto la morte dell’idea stessa di impero e la vittoria dell’indipendenza nazionale di questi popoli che un tempo venivano considerati “minori”.

In una recente analisi condotta dal prestigioso Center for Strategic & International Studies di Washington, uno dei suoi analisti più importanti, Antony Cordesman, ha osservato: “Se si esamina il costo della guerra e l’assenza di qualsiasi giustificazione strategica chiara e coerente per portarla avanti, è tutt’altro che ovvio il motivo per cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto impegnare le risorse che hanno impegnato in un conflitto che non rientrava in nessuna priorità strategica per giustificare due decenni di conflitto”.7

Eppure, una “priorità strategica” aveva mascherato bene l’intervento in Afghanistan: “la guerra contro il terrorismo”, a cui si erano uniti molti governi, compreso quello francese (dopo le perplessità iniziali). Questa “guerra dei vent’anni”8 inscrive ogni conflitto, ogni rivolta, ogni protesta del pianeta in una lotta escatologica contro il Male, contro una chimera sfuggente e indistruttibile: il terrorismo. Ebbene quest’ultimo non è “un nemico”, ma una forma di azione che ha attraversato la storia ed è stata utilizzata da movimenti molti diversi come l’anarchismo, il sionismo, l’esercito repubblicano irlandese (IRA), l’ETA basco o Al-Qaeda, ma anche – se ne parla molto meno – dagli Stati (la Francia in Algeria o Israele in Medio Oriente). E non è affatto certo che sia destinato a scomparire.

La sconfitta americana in Afghanistan significa dunque prima di tutto il fallimento di una di queste guerre impossibili da vincere e delle loro diverse declinazioni dal Sahel al Kurdistan, dalla Palestina allo Yemen, che alimentano ciò che pretendono di combattere. Quanto tempo ci vorrà per trarne insegnamento?

1Out of Afghanistan. The Inside Story of the Soviet Withdrawal, Oxford University Press, 1995.

2Si può rileggere il libro di Pierre Antilogus e Philippe Treticak, Bienvenue à l’Armée rouge, Lattès, 1984 che, in tono dichiaratamente umoristico, preparava la Francia all’inevitabile avanzata di carri armati sovietici e ovviamente alla “collaborazione”.

3Alain Gresh, “La guerra dei mille anni” in Le Monde diplomatique, settembre 2004.

4Si veda Christine Delphy, “Una guerra per le donne afghane?” in Nouvelles Questions féministes, 2002/1 (vol. 21), pp- 98-109.

5«All Our Hopes Are Crushed», rapporto di Human Rights Watch (HRW), Washington, novembre 2002.

6Si veda Laurence Jourdan, “Crimini impuniti in Afghanistan” in Le Monde diplomatique, dicembre 2002.

7Learning from the War: “Who Lost Afghanistan?” versus Learning “Why We Lost”, Washington, 9 agosto 2021.

8Si legga attentamente l’opera di Marc Hecker ed Élie Tenenbaum, La Guerre de vingt ans. Djihadisme et contre-terrorisme au XXIe siècle, Robert Laffont, 2021. Un promemoria dettagliato e chiaro delle strategie messe in atto nel corso di questi due decenni, abbastanza equilibrato e articolato, anche se non si condividono tutte le analisi degli autori.