Con i talebani o con gli americani ? È ora di andare oltre

È necessario andare oltre la visione binaria del “o con gli americani o contro”. L’origine coloniale dei Talebani, così come il loro coordinamento recente con gli Stati Uniti e altre potenze regionali, dipingono un quadro più complesso. Altrettanto fuorviante è la logica del “femminismo securitario”, che invoca interventi armati sotto il pretesto di proteggere le donne.

Combattente talebano con bandiere talebane all’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul l’11 settembre 2021
Karim Sahib/AFP

L’estate scorsa ho iniziato a organizzare un convegno. Tra le proposte di intervento, ne ho ricevuta una di un collega afghano, professore a Kabul e dottorando a Teheran. Tra l’Iran e l’Afghanistan ci sono rapporti e scambi culturali intensi e le università iraniane sono considerate più all’avanguardia di quelle afghane, il che porta molti afghani a formarsi in Iran. Nella sua biografia, il collega aveva menzionato di appartenere alla minoranza hazara, di fede sciita e quindi particolarmente legata all’Iran (paese a maggioranza sciita) e invisa ai Talebani (che considerano gli hazara degli apostati da perseguitare).

Questo scambio avveniva a inizio luglio. Oggi, è completamente diverso. Reza (nome di fantasia) è uno dei tanti afghani lasciati indietro dai ponti aerei e dai canali di evacuazione verso Europa e Nord America che si sono chiusi definitivamente con la fine di agosto. Eppure, è in pericolo: i Talebani sono andati a cercare lui e la sua famiglia a casa, che avevano già lasciato preventivamente per trasferirsi altrove.

Nella frenetica ricerca di notizie che ha caratterizzato il periodo ferragostano del 2021, mi sono imbattuta in un’intervista video fatta a Sudaba Kabiri,1 una delle organizzatrici della prima protesta anti-talebana seguita alla conquista di Kabul. Kabiri racconta di come parte della loro protesta sia consistita nel togliere i cartelli messi dai Talebani per strada che ordinavano alla popolazione di rimanere in casa, nella speranza di diffondere la convinzione di poter sfidare l’autorità talebana.

Come conciliare la storia di Reza, o di Kabiri con quelle analisi che suggeriscono che i Talebani rappresenterebbero una forza politica amata e sostenuta dalla popolazione, e che esprimerebbero il protagonismo degli oppressi in forma di azione collettiva ed emancipatrice?2 La caduta di Kabul per mano talebana è davvero come la caduta di Saigon per mano comunista nel 1975?3 Difendere l’idea che i Talebani non rappresentano gli afghani equivale a invocare o sostenere l’intervento di quello che viene chiamato il complesso militare-umanitario,4 ovvero l’industria degli aiuti internazionali che – ormai è sotto gli occhi di tutti – è legata a quella militare e delle armi? Lo spazio discorsivo e l’immaginazione politica di chi commenta le notizie dall’Afghanistan sembrano essere talmente ristrette che, in effetti, pare di essere davanti a una scelta drastica: o con i Talebani o con gli americani. Come uscire da questo angolo?

Interventismo e femminismi

In realtà, in questo angolo, ci siamo ritrovati molte altre volte. Come femministe, sappiamo che la sofferenza delle donne è regolarmente usata per mobilitare e giustificare guerre e interventi umanitari, ma non solo. Ricordiamo come Salvini, o ancora prima l’ex Ministro della Giustizia leghista Castelli, abbiano invocato la “protezione delle donne italiane” dallo straniero e dal “migrante stupratore” come topos legittimante la militarizzazione dello spazio pubblico e politiche migratorie più restrittive. E ricordiamo anche che Debora Serracchiani, del Partito Democratico, quattro anni fa dichiarava che uno stupro commesso da qualcuno che richiede asilo è più grave di quello commesso da un padre di famiglia italiano verso la propria figlia o nipote, o da un uomo italiano verso la propria fidanzata, un’amica o una sconosciuta.

La “guerra globale al terrorismo” (Global War on Terror o GWOT) inaugurata in Afghanistan nel 2001 è, in un certo senso, l’apoteosi del “femminismo securitario”, per dirla con Lila Abu-Lughod e Rafia Zakaria. Ovvero un femminismo che invoca più armi, più polizia, più eserciti per proteggere o promuovere la causa dell’emancipazione femminile. Proprio Zakaria ha definito la GWOT “la prima guerra femminista” americana.5 Il femminismo securitario non solo è connesso al femminismo bianco,6 ma lo supera. In Europa e Nord America – ma anche in parte del Medio Oriente coloniale e post-coloniale – il femminismo bianco è stato fondamentale per lo stato nazione, perché ne ha “sanificato” e purificato l’identità che passa attraverso le gerarchie di genere e l’indiscutibile bontà dell’emancipazione femminile. In suo nome, si sono cancellate le esperienze di protagonismo ed emancipazione delle comunità non-binarie e non-bianche, ridotte al silenzio perché non utili alla “depurata” (leggi: bianca) identità nazionale. Il femminismo securitario fa qualcosa di simile per lo stato neoliberale e la sua espansione neo-imperialista. Attraverso gli interventi militari e quelli successivi umanitari, di peace keeping e ricostruzione, il femminismo securitario è complice dell’esportazione della democrazia con droni e bombe, forte dell’illusione di esportare anche l’emancipazione femminile a immagine e somiglianza dello stato neoliberale, statunitense in questo caso.

Ma non è un “problema americano”, è un problema di tutti. Nelle scorse settimane, sono apparsi su testate giornalistiche e riviste nostrane diversi articoli che si chiedevano dove fossero le femministe. Alcuni hanno chiesto come sia possibile che le femministe italiane non difendano i frutti di “una guerra giusta” che “ha liberato”

7 le donne afghane, mentre altri articoli hanno denunciato che, ora che le potenze occidentali hanno “perso interesse” per l’Afghanistan, le donne afghane resteranno senza salvatori e senza possibilità di un futuro degno.8 La linea argomentativa è chiara (e ipocrita):9 non c’è salvezza e non c’è possibilità di vita per le donne afghane senza gli eserciti occidentali.

Ma “salvare” o “proteggere” le donne afghane è l’obiettivo sbagliato. Quello giusto è smantellare il patriarcato che, nella sua versione armata e militare o in qualsiasi altra sua versione più casalinga e tradizionalista, non solo è il mandante di omicidi e stragi in Afghanistan (si, perché le stesse donne afghane che in tanti vorrebbero salvare sono anche le madri, le mogli, le sorelle, le amiche delle vittime degli attacchi militari che dovrebbero liberarle), ma è anche il nostro nemico comune – in Italia, in Afghanistan, negli Stati Uniti, nei campi correttivi per donne uigure in Cina, nelle carceri femminili russe, siriane o israeliane.

Le femministe si sono trovate spesso strette in falsi binarismi presentati loro come una scelta necessaria – ma alla fine stai con i Talebani o con gli americani? – e hanno elaborato ragionamenti e posizionamenti che servono ad andare oltre. La precarietà e la vulnerabilità generate da una situazione di conflitto, come quella che ha vissuto l’Afghanistan negli ultimi due decenni, sono condizioni di partenza inaccettabili per chi lavora per una liberazione dal basso e non attraverso gli eserciti.

We love the Talibans

In queste settimane, giornali mainstream come La Repubblica o CorSera, e siti di informazione come ilpost.it, hanno diffuso immagini di archivio della liberazione di Saigon nel 1975 accompagnate da titoli quali “Kabul come Saigon”. Questo paragone è incorretto e va smontato: i Talebani non sono un esercito “di popolo” e “anti-coloniale” che si contrappone a quello statunitense.

Come è risaputo, i Talebani affondano le proprie origini nella Guerra Fredda e nella storia della tentata invasione sovietica dell’Afghanistan. Finanziati dagli Stati Uniti, i campi di formazione e di addestramento dei Talebani si trovavano in Pakistan, paese alleato USA e da sempre ingerente nella politica interna afghana. Nel 1989 i sovietici si ritirarono e nel giro di pochi anni, i Talebani riuscirono a conquistare tutto il territorio nazionale, instaurando il proprio governo. La Guerra Fredda era così: nonostante solo i sovietici avessero truppe sul territorio afghano, in Afghanistan erano in tanti ad essere presenti, dagli Stati Uniti al Pakistan e all’Arabia Saudita, altro alleato USA. Gli afghani ricordano bene quegli anni: tra la violenza che questi paesi portarono in Afghanistan e la prima conquista talebana di Kabul nel 1996, in questo periodo si registrò il più alto numero di civili che andarono a ingrossare le fila della diaspora.10

L’origine chiaramente coloniale dei Talebani non pregiudica la loro intera storia futura, si potrebbe controbattere. Tuttavia, abbiamo moltissime informazioni che suggeriscono che, se vogliamo lavorare per costruire un internazionalismo decoloniale dal basso, la scelta per noi non è tra Talebani o americani. Innanzitutto, occorre sfatare il mito che i Talebani abbiano vinto e gli americani perso:11 infatti, è dal 2013 che le amministrazioni statunitensi negoziano con i Talebani la “messa in sicurezza” dell’Afghanistan, contemplando un ruolo importante per i Talebani appunto. Ai Talebani è stata offerta una base operativa e di rappresentanza a Doha, in Qatar, e le negoziazioni sono state svolte in modo da non far sentire esclusa nessuna potenza regionale o mondiale. L’Iran – vecchio arci-nemico dei Talebani – ha infatti ospitato alcuni incontri negoziali tra Talebani e autorità del Qatar, mentre la Russia ha offerto la propria collaborazione agli Stati Uniti, portando sul tavolo quasi come un omaggio l’utilizzo dei territori del Tajikistan e del Kyrgyzstan, a luglio, per coordinare le politiche russe e statunitensi sull’Afghanistan vista l’avanzata talebana. Questo per dare un’idea del clima di grande collaborazione e reciproca comprensione che ha caratterizzato l’ascesa militare e politica dei Talebani, i castigatori di imperi.

Lontano dall’essere un esercito di popolo o di resistenza contro l’imperialismo, il paragone con le forze comuniste vietnamite è quindi incorretto in termini scientifici, indipendentemente da cosa si pensi di Ho Chi Minh e del suo progetto politico. I Talebani nemmeno godono del sostegno popolare che, a torto o ragione, i vietnamiti diedero all’esercito di liberazione e al regime post-liberazione nel corso degli anni. La conquista talebana, iniziata mesi fa e per questo prevedibile, è stata accompagnata da tentativi di resistenza popolare, non sostenuti adeguatamente dalle forze militari regolari afghane che erano allo sbando, come del resto lo stesso governo centrale. Oggi gli afghani cercano di scappare, affollano i confini con Iran, Tajikistan, Pakistan per mettersi in salvo, e nonostante questo la posizione della comunità internazionale rimane quella di un inefficace “dialogo senza riconoscimento”,12 che prevede il trasferimento di fondi per la “gestione” dei flussi umani. Del resto, per l’Europa, la sola preoccupazione è quella di evitare che gli afghani arrivino in Turchia o in Grecia.

La casa del padrone che resta da smantellare13

Mentre il nuovo governo dei Talebani reprime il dissenso interno e cerca di rendersi appetibile sul piano internazionale, con la comunità internazionale che gioca a nascondino con le proprie responsabilità passate e presenti, nella provinciale Europa occidentale si riesumano le categorie di analisi in voga durante la Guerra Fredda. L’imperativo politico è stare con chiunque, a meno che questo dica di stare con gli americani. Poco importa, poi, se la realtà oltre la retorica ci racconta di accordi presi, collaborazioni offerte, negoziazioni e interessi in comune. Si tratta di un ragionamento che abbiamo già visto nel caso della guerra in Siria, quando intellettuali e giornalisti di sinistra si sono schierati con Bashar al Asad perché “anti-imperialista”. Gli stessi applicano il medesimo ragionamento quando si tratta di sostenere il regime iraniano o quello di Putin che, per qualche magia, diventano anti-imperialisti se non addirittura anti-capitalisti.

Le visioni binarie ci raccontano di una politica internazionale che ha due parti contrapposte che sono l’una la negazione dell’altra: o vincono gli imperialisti o gli anti-imperialisti. Questi aut-aut rassicurano e semplificano, ma non servono a capire il mondo. Soprattutto, propongono un’equazione che mai accetteremmo se si parlasse della società e della politica italiane: si tratta dell’equazione tra forze egemoniche e dominanti da un lato, e forze popolari – o banalmente, la società – dall’altro. Pensare che i Talebani rappresentino la popolazione afghana non solo è una mistificazione della realtà, ma anche un appiattimento che suggerisce che fattori come la classe o le identità etniche e sub-nazionali non contino nulla. Del resto, la società afghana è spesso ipersemplificata perché vista come “arcaica” o “pre-moderna” o qualche altro attributo razzista e orientalista. Questa visione non solo ci conduce ad analisi fallaci, ma impedisce anche di costruire alleanze e corrispondenze ideologiche e di azione tra classi lavoratrici, tra femministe, tra movimenti ecologisti e tra chi lavora per la giustizia sociale. Come ha scritto Frieda Afary,14 il compito di chi ha vero interesse a creare un futuro agibile di emancipazione è quello di creare connessioni che smantellino le strutture di oppressione e gli stessi aut-aut che le rendono possibili.

3Gilbert Achcar, «Who’s Buried in the Graveyard of Empires?», New Politics, 22 agosto 2021.

4James Eric, and Tim Jacoby, The military-humanitarian complex in Afghanistan, Manchester University Press, 2016

5Rafia Zakaria, «How the War On Terror Became America’s First ’Feminist’ War», Literary Hub, 19 agosto 2021.

8Daniela Missaglia, «Il femminismo si è fermato a Kabul», Panorama, 18 agosto 2021.

10In realtà, non sappiamo quante persone stiano lasciando oggi l’Afghanistan. Questo è dovuto al fatto che, negli anni 1980-1990, era possibile lasciare l’Afghanistan in maniera legale e sicura, mentre oggi i confini chiusi e l’ostinazione europea a non rilasciare visti rendono necessario un viaggio non solo “da clandestini” ma anche estremamente pericoloso e lungo che si svolge, come è noto, principalmente a piedi e in camion attraverso Iran o Asia centrale, Turchia e Balcani

11Giuliano Battiston,«Le fragilità del regime talebano», Sbilanciamoci, 15 settembre 2021. ; Lorenzo Forlani,«Davvero in Afghanistan gli USA hanno «fallito»?», Esquire, 17 agosto 2021.

12Giuliano Battiston, "Un mese da padroni a Kabul. I Talebani fanno di testa loro, Il Manifesto, 15 settembre 2021.

13Faccio riferimento qui al celebre saggio di Audre Lorde intitolato The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House del 1984, incluso nella raccolta Sister Outsider (edizione italiana: Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Il dito e la luna, 2014)

14Frieda Afary, «Solidarity with Afghan People Begins with Not Legitimizing Taliban», Iranian Progressives in Translation, 21 agosto 2021