Egitto. Dell’uso della violenza durante la Rivoluzione

La rivoluzione egiziana è stata così violenta da mettere fine alla struttura del sistema di potere e rovesciare l’intero sistema sociale? È stato un evento del tutto spontaneo? Sono queste le domande a cui cerca di rispondere il ricercatore egiziano Aly El-Raggal, il cui contributo pubblichiamo in occasione dell’undicesimo anniversario dell’inizio della rivoluzione.

L'immagine mostra una scena di protesta in bianco e nero. Un giovane si trova in cima a un veicolo, apparentemente utilizzando un megafono o uno strumento, mentre sembra incoraggiare la folla sottostante. La gente intorno a lui è visibilmente coinvolta, alcuni alzano le mani o applaudono. Sul veicolo ci sono delle scritte, e l'architettura sullo sfondo suggerisce un contesto urbano. L'atmosfera è carica di energia e di determinazione.
Il Cairo, 29 gennaio 2011. Manifestanti in piazza Lazoughly, di fronte al ministero dell’Interno, durante un violento scontro con la polizia che spara proiettili veri. I carri armati dell’esercito, impiegati per intervenire, vengono usati come scudi.
Hossam el-Hamalawy/Flickr

La rivoluzione egiziana è stata abbastanza violenta da mettere fine alla struttura del sistema di potere e rovesciare l’intero sistema sociale? È un interrogativo a cui si può provare a rispondere considerando due aspetti. Il primo attiene alla realtà dei fatti: cos’è successo? Perché? Cosa ci si aspettava dall’uso della violenza? Il secondo riguarda, in generale, l’orizzonte politico e sociale del conflitto in Egitto.

Il 28 gennaio del 2011 è stata una giornata segnata fino ad un certo punto dalla violenza, ma, su un piano diverso, è stata anche una dimostrazione non-violenta. Nella maggior parte delle grandi città del paese, sono state incendiate diverse stazioni di polizia, oltre agli edifici del Partito Nazionale Democratico (PND)1 e alle sedi di alcuni governatorati. Sconfitte le Forze centrali di sicurezza, sono stati uccisi agenti e membri delle forze dell’ordine, mentre ad altri è stata data la caccia. Anche tra i rivoluzionari il bilancio delle vittime è stato elevato, ma non così alto se lo si considera in rapporto alla popolazione, alle dimensioni e all’entità degli scontri avvenuti quel giorno. Le città di Suez e di Sheikh Zuweid nel Sinai restano casi isolati, a causa dei pesanti attacchi subiti a partire dalla sera del 25 gennaio 2011, proseguiti fino a metà giornata del 28.

UNA COMPLESSA GEOGRAFIA URBANA

Sono molteplici i fattori che hanno contribuito allo scoppio di una simile violenza: la brutalità delle forze dell’ordine, i vecchi conti in sospeso degli abitanti di alcuni quartieri contro particolari commissariati, la durezza degli agenti di polizia in diverse zone o ancora la possibilità di avere facile accesso a qualche stazione o dipartimento di polizia, che li ha esposti alla rabbia popolare. Un ruolo l’hanno avuto anche le intenzioni della gente del posto. La stazione di polizia di Abidin al Cairo, ad esempio, non è stata bruciata perché il 28 gennaio 2011 i poliziotti hanno evitato un uso eccessivo della violenza dal momento che non c’era alcun precedente con la gente del quartiere, al contrario di quanto è successo in un’altra stazione di polizia lì vicino, nel quartiere di Sayyida Zaynab. E per giunta, la stazione di polizia di Abidin si trova proprio accanto al palazzo omonimo e agli edifici delle istituzioni militari.

Anche il ministero dell’Interno è stato oggetto di numerosi attacchi tra il 28 e il 29 gennaio. Ma non sono stati così forti e provenivano da un solo lato solo, sulla linea «El-Sheykh Rihan» dalla parte di piazza Tahrir, risparmiando così gli altri lati dell’edificio collegati alla zona residenziale di Abidin. La stessa cosa è successa davanti alla nuova direzione per la Sicurezza a Smouha, ad Alessandria, ma la sua posizione e il tessuto urbano hanno reso molto più facile la difesa contro gli aggressori che arrivavano solo dal lato della piazza Vittorio Emanuele III. Anche in questo caso, il retro dell’edificio, che si affaccia su ampie zone residenziali, non ha subito alcun attacco perché molti residenti fanno parte della magistratura e della polizia.

Al contrario, l’ex Direzione della Sicurezza metropolitana è caduta il 29 gennaio, dopo due giorni di violenti scontri, nonostante il massiccio ricorso alla violenza e gli sforzi dei suoi agenti nel difenderla. Tuttavia, non è strano perché l’edificio si trova in un contesto ostile, e inoltre la sua struttura e la posizione non ne favorivano la difesa. Bisogna anche tener conto del ritiro di molti baltagiya2, che davano man forte alla polizia e che hanno cambiato schieramento dopo l’intensificarsi degli scontri, anche a causa di una questione sociale molto ingarbugliata: i teppisti erano al soldo del regime, ma appartenevano allo stesso ceto sociale di chi era stato attaccato dalle forze dell’ordine. Il loro voltafaccia ha sbilanciato le forze nella difesa delle stazioni di polizia. I baltagiya avevano preso parte alla “battaglia dei cammelli”.3 Un attacco che ha avuto come conseguenza l’emarginazione degli abitanti di Nazlet El-Samman nei pressi delle Piramidi,4 quando il caso è finito nelle aule di tribunale. Ovviamente non c’è stata alcuna condanna, né per questo attacco né per l’uccisione dei rivoluzionari.

UNA CULTURA POLITICA DI PACIFISMO

All’origine del “pacifismo” che ha caratterizzato questa rivoluzione sia negli slogan che nella pratica ci sono diversi fattori. In primo luogo, diversi politici e movimenti di giovani rivoluzionari si erano fermamente opposti all’uso della violenza, per le conseguenze della «guerra contro il terrorismo» condotta negli anni ‘80 e ’90, che aveva compromesso ogni possibilità di cambiamento politico e sociale. Si era formata la convinzione che la violenza armata fosse inefficace e che non avrebbe fatto altro che legittimare la repressione del regime, dando a quest’ultimo un vantaggio morale e sul campo. Gli anni della crescente opposizione a Hosni Mubarak intorno alla sua successione, dal 2005 e in particolare nel 2009 e nel 2010, sono stati segnati dalla riflessione su una transizione non-violenta, democratica, nonché dalla necessità di ottenere la fiducia delle forze dell’ordine. Di fatto, nessuno aveva ancora preso in considerazione il legame inevitabile tra cambiamento ed atti di violenza di vasta portata.

Nel 2011, la sconfitta sul campo del ministero dell’Interno e l’incapacità – o la rinuncia – dell’esercito ad usare la forza contro i rivoluzionari non giustificavano più l’uso della violenza. Né i rivoluzionari avevano colpito le famiglie degli agenti di polizia o le loro case. Il conflitto non aveva visto alcun inasprimento della tensione sociale, anche per il legame umano e comunitario a vivere tutti insieme all’interno dei governatorati, alle parentele, alle alleanze, alle relazioni commerciali, ecc. Non c’erano neppure interessi materiali che avrebbero potuto incoraggiare all’uso della violenza, come succede per le controversie legate alle proprietà o alla terra.

UNA DEPOLITICIZZAZIONE DELLA LOTTA

Si può tuttavia considerare che durante il primo periodo della rivoluzione, la violenza aveva raggiunto gli obiettivi prefissati, perché aveva portato il sistema Mubarak a fare a meno del suo braccio destro, sopprimendo buona parte dell’impianto repressivo. In questo sistema, la violenza era legata all’insieme delle relazioni socio-economiche basate sull’umiliazione, come le avversità e il servilismo messo in pratica ogni giorno nell’economia sommersa, l’arroganza dei funzionari del ministero degli Interni, la tortura quotidiana nelle stazioni di polizia, le campagne securitarie allo scopo d’imporre un’immagine del potere e una cultura della disciplina, la repressione degli scioperi operai, l’uso degli agenti di polizia per allontanare i residenti dal loro domicilio o ancora la chiusura dello spazio pubblico. Il regime di Mubarak faceva un grande affidamento sulle forze del ministero degli Interni ed era basato su una cultura del divieto. La rivoluzione ha distrutto tutto questo.

Solo che, dopo averlo fatto, non è stata attuata alcuna strategia su come abbattere e smantellare lo stato poliziesco come macchina di governo. Da qui la svolta giuridica e verso i «diritti umani» che ha preso più tardi la lotta. All’epoca, la gran parte dei progetti per riformare il ministero degli Interni erano declinati su due piani: obbligare l’istituzione a rispettare i diritti umani e sottoporla alla sorveglianza legale, impegnandosi allo stesso tempo ad applicare la legge in modo permanente. Tuttavia, questo programma non ha influito sui meccanismi di potere, né sulle procedure sociali, securitarie e geografiche ad essi correlati. La reazione del ministero è stata quella di avere come sola alternativa quella di scegliere se interrompere le attività o tornare ai meccanismi del vecchio regime. Le origini di questa retorica legalitaria risalgono a prima della rivoluzione. A partire dagli anni ‘70, l’Egitto ha visto crescere il ruolo degli avvocati di sinistra nelle file dell’attivismo politico-giuridico. Una tendenza che si è consolidata all’inizio degli anni 2000 e che ha favorito la creazione di strutture in difesa dei diritti umani e per il mantenimento di solide relazioni internazionali. Chi lavora in queste istituzioni acquisisce una notevole esperienza, un’apprezzata conoscenza del diritto internazionale e delle tecniche di networking per lanciare campagne sia sul piano nazionale sia internazionale. Di fatto, queste organizzazioni hanno imposto però un limite agli orizzonti della lotta rivoluzionaria. Questa cultura ha fortemente influenzato il campo politico. Nelle élite che hanno partecipato al movimento rivoluzionario si è affermata la necessità di rispettare i diritti umani, imponendone il rispetto anche al ministero dell’Interno, d’applicare la legge e la Costituzione, oltre alla destituzione di Habib al-ʿAdli, ultimo ministro dell’Interno sotto il regime di Mubarak.

LE CREPE DEL REGIME

Sul piano sociale, la rivoluzione ha colto di sorpresa le forze del regime. L’evento è stato inaspettato, rapido e destabilizzante. Con la sconfitta del ministero degli Interni, è stato difficile per le forze del regime impegnarsi in una guerra civile – circoscritta o allargata – e di restaurare il ruolo repressivo del ministero. Tanto più che le alleanze del regime politico e delle sue forze sociali ed istituzionali sono state messe in secondo piano durante gli anni prima della rivoluzione. L’entrata in gioco di Gamal Mubarak, il figlio del presidente, e del suo entourage hanno suscitato aspre polemiche all’interno delle alleanze strette dal PND. Alla fine, sono nati dissensi e, fatto senza precedenti, ci sono stati violenti scontri tra i suoi membri nel corso delle elezioni dell’Assemblea del Popolo nel 2010. Ebbene la composizione di questo partito, il sostegno assoluto che rappresentava per Mubarak e la sua profonda penetrazione nei gangli del potere attraverso le reti clientelari lo ha privato delle capacità istituzionali che consentivano alle organizzazioni sociali ed ideologiche d’impegnarsi in una tale battaglia. Il partito non aveva più motivazioni interne per gestire un rilevante e violento scontro con le altre forze della società.

Da parte sua, l’esercito era impegnato in una lotta senza quartiere contro la cerchia di Gamal Mubarak, perché si sentiva emarginato dietro le quinte del regime, soprattutto durante l’ultimo decennio di Mubarak, in cui la polizia aveva acquisito numerosi vantaggi sociali. Rimpiazzato dall’ Ministero degli Interni, l’esercito temeva lo smantellamento delle sue forze se si fosse impegnato nella repressione di una vasta rivoluzione popolare. Inoltre, gran parte dei militari simpatizzava per la rivolta, almeno nella fase iniziale, tanto più che le reclute provenivano più che altro dalla classe media o dalle fasce povere, ma istruite. Sono state proprio queste classi a portare avanti il movimento rivoluzionario. L’effetto sorpresa e la durata dell’evento non hanno permesso all’esercito di mobilitare le sue risorse psicologiche e ideologiche, né di sbandierare ragioni morali in grado di convincere i suoi soldati a spezzare una rivolta popolare. Va ricordato infine che, durante questo periodo, nessuno ha messo in pericolo l’esercito, al cui interno non ci sono state né scissioni né diserzioni. L’esercito non ha nemmeno preso le armi, né a favore né contro Mubarak.

L’insieme di tutti questi fattori ha dato ai rivoluzionari un margine di manovra sul campo. In questo modo si sono convinti che non sarebbero stati esposti al pericolo di essere schiacciati militarmente nelle strade o nelle piazze. Inoltre, erano convinti che non sarebbero stati attaccati una volta tornati a casa di sera. La retorica sulla «sicurezza», «la stabilità», «il rispetto dell’autorità paterna», «l’essere pazienti con il potere» non è andata al di là delle parole. Espressioni come «il prestigio dello Stato» e «per non diventare come la Siria e l’Iraq» sono arrivate troppo tardi.

La solidità dell’apparato militare ha permesso di scoraggiare ogni velleità straniera di intervenire direttamente, come sarebbe poi avvenuto in Libia o in Siria. La rapida caduta di Mubarak ha evitato che si inasprissero i conflitti tra le diverse componenti che avevano opinioni divergenti sulla situazione politica. Le organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, l’Unione Europea o anche le potenze come gli Stati Uniti hanno preso contatti con i protagonisti della rivoluzione per avere informazioni. Dal canto loro, le reti ufficiali di contatto con l’esercito sono rimaste intatte, visto che quest’ultimo ha potuto esercitare la propria sovranità, controllando gli apparati dello Stato. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti non erano disposti ad avventurarsi nella difesa di Mubarak sul suolo egiziano come ha fatto Riyad con il Bahrein.

COMPROMESSO E NEUTRALIZZAZIONE

Alla rivoluzione hanno preso parte un gran numero di categorie sociali, dalla classe media alle fasce più povere. La classe operaia si è alleata poco prima della caduta di Mubarak, organizzando diversi scioperi. Allo stesso modo, alcune fasce delle classi privilegiate hanno finito per aderire al movimento, come dimostra la partecipazione – limitata o solo come simpatizzanti – di alcuni giudici, procuratori e alti funzionari del Ministero degli Affari Esteri.

A livello politico, s’è formata un’ampia rete di movimenti giovanili che riunivano élite eterogenee: nasseriti, islamisti moderati e anche attivisti di sinistra, riuniti intorno al movimento Kifaya (“Basta!”, fondato nel 2004), del movimento egiziano per il cambiamento e infine la campagna per sostenere la candidatura di Muhammad El-Baradei alle elezioni presidenziali del 2010.

L’aver puntato sull’esercito invece risale agli anni prima della rivoluzione, quando diversi esponenti politici dell’opposizione pensavano già che l’esercito potesse fare un passo avanti per liberare il paese dall’egemonia del clan Mubarak e della sua banda e ricongiungersi con lo Stato di liberazione nazionale che aveva un ruolo trainante per lo sviluppo della società dopo gli anni ’50. È per questo che sono apparsi rapidamente slogan come «l’esercito è il protettore della rivoluzione», lontani da ogni idea rivoluzionaria.

A tutt’oggi, nelle varie forze rivoluzionarie resta una posizione ambivalente sul tema della violenza. Alcuni negano gli atti di violenza perpetrati contro le stazioni di polizia, sostenendo che si sia trattato, in base alla legge, di atti barbari e criminali. Al contrario, altri sostengono che il vizio della rivoluzione sia stato il suo lato non-violento, oltre all’assenza di una violenza in grado di abbattere i pilastri del regime e sconfiggere i nemici. Vi è ancora chi sostiene l’idea che fosse necessaria una rivoluzione operaia armata! Però nessuno affronta i nodi cruciali: chi avrebbe finanziato questa violenta guerra rivoluzionaria? Chi avrebbe fornito le armi per portarla avanti? Con quali potenze internazionali e nazionali avrebbe stretto alleanze questa rivoluzione operaia armata?

Chi rifiuta ogni forma di violenza non si è posto infatti la questione di sapere qual è stato il prezzo di una simile rinuncia, o quali erano i rischi nel demonizzare i più poveri e la classe media. Non si sono resi conto che l’indipendenza del movimento e la sua capacità di affrontare il regime dipendevano in larga parte della possibilità di neutralizzare, anche per un tempo limitato, l’enorme apparato repressivo ed ogni sua infrastruttura.

In sintesi, non è stato né l’uso della violenza criticato da alcuni, né il suo uso moderato rimpianto da altri che hanno portato al fallimento del movimento. Non ci aspettavamo dall’uso della violenza più di quanto abbia prodotto.

1Il partito dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, fondato dal suo predecessore Sadat nel 1978 e soppresso nel 2011

2Teppisti al soldo del regime

3È il nome con cui viene chiamato l’attacco sferrato ai manifestanti di piazza Tahrir il 2 febbraio del 2011. Il loro accampamento fu preso d’assalto dai miliziani al soldo del regime a dorso di cammelli.

4Erano di loro proprietà i cammelli adoperati per l’attacco.