Folklore palestinese: un archivio vivente di resistenza e identità

Il folklore palestinese ‒ un ricco intreccio di tradizioni orali, rituali e pratiche comunitarie ‒ rappresenta uno degli elementi più vitali del patrimonio culturale palestinese. Non si tratta solo di storie, abiti, dabke, ma di un archivio dinamico della memoria collettiva e della resistenza. Per generazioni, queste tradizioni hanno aiutato i palestinesi ad affermare la loro identità e il loro legame con la terra, persino di fronte alla dominazione coloniale, allo sfollamento e alla cancellazione culturale e ciò chiaramente assume un significato ulteriormente importante alla luce del genocidio in corso.

L'immagine mostra un uomo in un ambiente che sembra essere un negozio o un'esposizione. Indossa una camicia bianca e ha i capelli scuri e lunghi. Sullo sfondo, si possono vedere vari oggetti esposti, tra cui quadri e cornici. C'è anche un grande cartello con del testo in arabo e un orologio visibile. L'atmosfera complessiva trasmette un senso di nostalgia.
Musa Sanad nel suo studio a Betlemme.

Nelle prossime righe offrirò una panoramica generale del corpus di testi in arabo palestinese lasciati dall’antropologa scandinava Hilma Granqvist, con una riflessione sul legame tra folklore, attivismo politico e conoscenza accademica. Il lavoro etnografico di Granqvist, compiuto negli anni Venti e Trenta del Novecento nel villaggio palestinese di Artas, ha infatti la potenzialità di trascendere i confini accademici per diventare una risorsa vitale per la resistenza e la sopravvivenza culturale.

Tra il 1931 e il 1965 Granqvist pubblicò cinque monografie sulle tradizioni e le pratiche legate al matrimonio, all’infanzia e alla morte nel villaggio di Artas, da un punto di vista femminile, essendo le partecipanti alla sua ricerca esclusivamente donne. Accanto alle sue opere pubblicate in inglese, Granqvist lasciò un corposo archivio di testi in arabo palestinese, di cui mi sono personalmente occupata dal 2012 al 2020 sia dal punto di vista linguistico che storico-culturale. Sebbene il lavoro di Granqvist sia stato ampiamente riconosciuto per il rigore metodologico e per il valore scientifico, è essenziale come premessa ricordare che il popolo palestinese resta il legittimo proprietario di questo tesoro culturale, che si spera in futuro di divulgare e rendere accessibile.

Il folklore come patrimonio culturale e politico

Per meglio comprendere il significato del lavoro di Granqvist, è necessario situarlo nel contesto storico e intellettuale in cui è nato. Granqvist arrivò in Palestina nel 1925, durante il mandato britannico, un periodo di profonde trasformazioni politiche e culturali. Il crollo dell’impero ottomano, l’instaurazione del dominio coloniale britannico e i crescenti progetti di insediamento sionista ridefinirono il tessuto socio-politico della Palestina. Queste forze, sia interne che esterne, non solo cercavano di rimodellare il panorama demografico, ma anche di imporre nuove narrazioni culturali e politiche che sopprimessero l’identità palestinese. Allo stesso tempo, il clima intellettuale era fortemente influenzato da cornici orientaliste, che spesso dipingevano la Palestina attraverso una lente di romanticismo biblico e studi eurocentrici. In questo contesto, il lavoro di Granqvist si distinse, in quanto ella rifiutò quello che chiamò il “pericolo biblico” del suo tempo, criticando la tendenza a ridurre la società palestinese a rappresentazioni religiose e statiche. Granqvist adottò un approccio più sfumato e partecipativo, cercando di comprendere la vita degli abitanti palestinesi comuni nei loro stessi termini, concentrandosi in particolare sul ruolo delle donne nel preservare le pratiche e le tradizioni culturali.

Quando si tratta di spiegare e comprendere la ragione di una tradizione o abitudine, mi sento obbligata a ottenere le informazioni dalla gente stessa, altrimenti possono verificarsi facilmente degli errori. Per questo motivo, anche quando avevo assistito a una tradizione o cerimonia, la facevo raccontare dalle mie informatrici. Desideravo imparare i loro modi di pensare per non dare agli eventi spiegazioni europee, o visioni e motivi estranei alla gente del villaggio,

scrive Granqvist1 nell’introduzione alla sua prima monografia.

Granqvist, dunque, adoperò il suo privilegio di studiosa europea per documentare le tradizioni orali e le pratiche sociali degli abitanti di Artas, in particolare delle donne, le cui voci sono spesso escluse dalle narrazioni storiche. Oltre al suo lavoro accademico, Granqvist si dedicò alla divulgazione e all’impegno politico al fianco del popolo palestinese quando, durante la Nakba nel 1948, denunciò le atrocità commesse amplificando le voci delle persone sfollate attraverso i contatti che aveva mantenuto con la gente del luogo. Il suo approccio alla ricerca, che enfatizzava la collaborazione e metteva in discussione i paradigmi orientalisti del suo tempo, può essere visto a tutti gli effetti come una forma precoce di studi post-coloniali. Tuttavia, questa posizione critica contribuì probabilmente alla sua esclusione dal riconoscimento accademico che meritava. Granqvist morì in relativa oscurità e in difficoltà economiche, lasciando dietro di sé materiale che da allora è stato reclamato da alcune figure palestinesi come una potente risorsa per la resistenza culturale e la formazione dell’identità.

L'immagine mostra tre donne in abbigliamento tradizionale. Due donne indossano vestiti scuri e scialli, e sono in piedi vicino a una terza donna che sembra più anziana. L'anziana tiene un cucchiaio e sembra servire o distribuire qualcosa. Sullo sfondo, si intravedono elementi naturali, come alberi e un paesaggio rurale. L'atmosfera è caratterizzata da un senso di comunione e tradizione.
Portrait of a Palestinian Village: Photographs of Hilma Granqvist di Karen Seger.

Oggi, la riscoperta e la diffusione di questo corpus assumono un significato ancora maggiore alla luce del genocidio in corso e della minaccia di cancellazione culturale e umana: non solo queste tradizioni orali servono come mezzo vitale per comprendere la cultura palestinese pre-1948 all’interno di una più ampia cornice di resistenza, ma sono anche un fondamentale strumento di memoria collettiva.

Il folklore come forza per l’identità e la resistenza

Come sostenuto da Antonio Gramsci, il folklore è molto più di una pittoresca raccolta di costumi e racconti; è la filosofia del popolo, un sistema dinamico di credenze, valori e pratiche plasmato dalle loro realtà vissute. Nel contesto palestinese, le tradizioni orali ‒ canzoni, proverbi e storie ‒ funzionano sia come registro storico sia come strumento di resistenza. Queste tradizioni articolano una visione del mondo che afferma l’identità palestinese, contrasta le narrazioni coloniali e rafforza i legami comunitari.

In particolare, la cultura contadina e il villaggio hanno assunto un preciso significato dopo la Nakba. Come evidenzia Swedenburg, la figura del fellāḥ (contadino) è diventata il simbolo del ṣumūd (tenacia, resilienza) ‒ il legame duraturo del popolo palestinese con la terra nonostante lo sfollamento e le difficoltà. Intellettuali e attivisti palestinesi, come Musa Sanad e Sharif Kanaana, hanno fatto ricorso proprio a questi simboli anche attraverso l’opera di Granqvist, per rafforzare l’identità nazionale e mettere in discussione le narrazioni coloniali che cercano di cancellare l’esistenza palestinese. Questo rappresenta un modo originale di riconfigurare in un contesto storico diverso la conoscenza prodotta in ambito accademico europeo e di riappropriarsene.

Tornando al concetto gramsciano di folklore, questo ha la potenzialità di mettere in discussione le concezioni elitarie della cultura, dimostrando che le cosiddette “masse” possiedono le proprie forme di conoscenza e creatività. Nel caso della Palestina, il recupero delle tradizioni orali raccolte da Granqvist non solo offre una contro-narrazione ai resoconti coloniali che ignorano o soffocano le voci delle persone palestinesi, ma è anche un corpus di letteratura orale femminile, che fornisce preziose intuizioni sulla vita quotidiana, sulle lotte e sulla resistenza del popolo palestinese.

Brevi cenni di letteratura orale femminile palestinese

Le donne palestinesi all’interno delle società rurali degli anni prima della Nakba, ma in misura diversa ancora oggi, sono le principali custodi delle tradizioni orali e della conoscenza che si tramanda di madre in figlia: pensiamo ad esempio alla fine arte del ricamo (tatreez) o all’arte della cucina. Il loro contributo alla preservazione della memoria è pertanto cruciale. La documentazione di Granqvist, che include canzoni di nozze, ninne nanne e proverbi, mette in luce come le donne utilizzassero il racconto per educare, ispirare e resistere. Queste tradizioni non erano semplici forme di intrattenimento: erano espressioni vitali di identità e autonomia, soprattutto nelle comunità rurali dove le donne svolgevano ruoli centrali nel mantenimento della coesione sociale.

Le ninne nanne, cantate dalle madri per calmare i loro bambini, ad esempio, pur rispecchiando un momento di grande intimità, portano temi universali di cura, protezione e promesse di sicurezza. Granqvist registrò per iscritto diverse ninne nanne nel dialetto fellāḥi ovvero contadino, catturando così le voci delle donne mentre confortavano i loro piccoli. Questi canti spesso utilizzavano immagini vivide della natura, fondendo elementi poetici con la devozione materna.

Un esempio che offre una rassicurazione giocosa al bambino, invocando l’immagine di un uccello:

Oh uccello della valle, porta il sonno ai bambini;
oh uccello delle pianure, porta il sonno rapidamente”.
(Yā aṣfūr il-wādē, hāti n-nōm al-wlāde;
yā caṣfūr-t il-qaca, hāti il-nōm fī saca
)

Questa ninna nanna riflette non solo la preoccupazione immediata della madre per il bambino, ma anche il suo legame con il paesaggio circostante, e può simboleggiare l’intreccio tra identità personale e comunitaria. Altre ninne nanne offrivano preghiere per la sicurezza del bambino, sottolineando il ruolo protettivo della madre:

Che Dio protegga quest’occhio, nero come la notte...
Che Dio protegga questa bocca, come l’anello di mia madre.
(Allāh yisallim hall cēn halli sōda miṯl (zay) lēl...
Allāh yisallim lī haṯṯīm hallim miṯl xātim l-imm
)

Questi versi mettono in risalto come le donne intrecciassero valori spirituali e culturali nella loro vita quotidiana, usando il canto come mezzo per nutrire tenacia e speranza.

Mentre le ninne nanne riflettono l’intimità della cura materna, i canti funebri (nawḥ) fungono da espressioni pubbliche di dolore collettivo. Eseguiti durante i funerali, questi canti articolano la perdita rafforzando al contempo la solidarietà comunitaria. La documentazione di Granqvist include descrizioni vivide dei rituali di lutto delle donne, in cui le loro voci diventavano un canale per esprimere sia il dolore individuale che la resistenza condivisa.

Un commovente canto funebre lamenta l’isolamento di una donna priva di supporto sociale:

Colei che non ha amici muore la morte di uno straniero, morendo assetata senza acqua.
(Illi māmā l-haǧim letḥa bāyeb, bitmūt mōtet il-ġarayeb, bitmūt caṭšāne balāyl-mōye)

Questo lamento evidenzia l’importanza della comunità nella società palestinese, riflettendo una più ampia etica culturale di cura reciproca e interdipendenza.

Granqvist osservò anche i gesti fisici che accompagnavano questi canti, che ne intensificavano la risonanza emotiva:

Ho visto donne sedute per strada a Gerusalemme, piangere per un uomo che era morto...
Tenendo due angoli del loro fazzoletto, lo giravano sempre più velocemente... il lamento continuava incessante.

Questi rituali trasformano il dolore individuale in un atto collettivo rafforzando i legami comunitari, centrali per l’identità palestinese.

Sia le ninne nanne che i canti funebri esemplificano il potere del folklore come mezzo di resistenza culturale. Le tradizioni orali preservano non solo le storie e i valori della comunità, ma anche la sua capacità di resistere e adattarsi. Questi canti sono inoltre testimonianza della creatività e dell’abilità artistica delle donne palestinesi prima della Nakba, offrendo una contro-narrazione ai resoconti coloniali e patriarcali, posizionando le donne come agenti attivi nella trasmissione della memoria culturale e della resistenza.

Musa Sanad e il Centro per il Folklore di Artas: attivare la memoria

Il lavoro di Musa Sanad è un esempio di come nell’ambito dell’attivismo politico e della resistenza palestinese l’eredità di Granqvist sia stata riconfigurata e reinterpretata. Musa Sanad, nato nel 1949 ad Artas, era un insegnante ed era discendente di Hamdiye Sanad, una delle principali collaboratrici di Granqvist. Il suo interesse per il patrimonio palestinese iniziò nel 1972, quando una donna straniera visitò il villaggio e sentendo il suo cognome, fu in grado di ricostruire il suo albero genealogico grazie alla documentazione di Granqvist. Questo episodio segnò l’inizio dell’interesse di Sanad per la storia e il patrimonio locale. Iniziò a visitare persone anziane, in particolare donne, e a intervistarle. Raccoglieva proverbi, storie e ricostruiva alberi genealogici che annotava in un grande quaderno. Nel 1970, durante un raid nella sua scuola, i soldati israeliani distrussero i suoi documenti e, da quel momento in poi, decise di seppellire il suo materiale nel giardino di casa.

L'immagine mostra un uomo seduto accanto a una finestra, mentre guarda verso un paesaggio innevato. Indossa una giacca chiara e ha i capelli scuri. Fuori dalla finestra si possono vedere colline coperte di neve, suggerendo un'atmosfera tranquilla e invernale. La luce sembra calda, creando un contrasto con il freddo esterno. La scena trasmette un senso di riflessione e contemplazione.

Nel 1981 fondò la prima associazione ad Artas, che offriva corsi di alfabetizzazione e sport per i giovani e nel 1985 l’associazione iniziò a proporre corsi speciali per le donne e un asilo nido per i bambini. Ispirato dal lavoro di Granqvist, nel 1993 fondò il Centro per il Folklore di Artas.

Sanad vedeva il folklore come un legame vitale tra le generazioni, descrivendolo come uno strumento per comprendere il passato e immaginare un futuro radicato nell’identità palestinese. Una volta dichiarò: “Ci sono tre donne nella mia vita: mia madre Fatima, mia moglie Muna e Sitt Halima [Granqvist]”, come se Granqvist fosse l’anello di congiunzione tra le radici, la memoria e il presente e la collettività, avendo preservato nei dettagli una parte della memoria del villaggio. Da ricordare che Granqvist prese nota di tutti i nomi e i legami di parentela delle persone che abitavano il villaggio al suo tempo, creando delle tabelle che sono poi state utili a diverse famiglie per ricostruire la propria storia.

L'immagine ritrae un giovane che sembra essere profondamente assorto nella lettura di un libro, seduto su una superficie rocciosa. Indossa abiti tradizionali, con un cappello a strisce che aggiunge un tocco distintivo al suo aspetto. Sullo sfondo, si intravedono altre persone, anch'esse vestite con abiti tradizionali. L'ambiente appare naturale, con elementi che suggeriscono un contesto storico o culturale. La scena trasmette un senso di concentrazione e introspezione.
Portrait of a Palestinian Village: Photographs of Hilma Granqvist di Karen Seger.

Sotto la guida di Sanad, il Centro per il Folklore di Artas divenne un punto di riferimento per la preservazione e l’educazione culturale, con mostre permanenti di fotografie di Granqvist e altri materiali d’archivio che offrirono ai palestinesi connessioni tangibili con il loro patrimonio pre-Nakba. Tuttavia, la chiusura del centro per mancanza di fondi riflette quelle che sono le sfide continue che il popolo palestinese deve affrontare nel sostenere tali iniziative sotto occupazione.

Le dimensioni politiche del folklore palestinese

Il folklore palestinese è sempre stato profondamente intrecciato con la lotta politica per l’autodeterminazione. Come anticipato, dopo la Nakba, l’idealizzazione della vita rurale e la figura del fellāḥ divennero centrali nella narrazione della resistenza. Il fellāḥ, una volta marginalizzato come emblema di arretratezza, fu reimmaginato come simbolo di resilienza e attaccamento alla terra. Soprattutto a partire dalla guerra del 1967, ovvero dalla Naksa, diversi elementi della cultura rurale divennero veri e propri simboli di resistenza: pensiamo alla kuffiya, all’ulivo, alla dabke.

Questa trasformazione non fu solo simbolica. Diversi intellettuali palestinesi hanno sottolineato l’importanza strategica di preservare il folklore come mezzo per affermare l’identità e contrastare le narrazioni coloniali. Ad esempio, nei suoi scritti, lo studioso e autore Sharif Kanaana descrisse il folklore come una “tradizione vivente e minacciata” che deve essere attivamente preservata e trasmessa alle generazioni future. Kanaana nacque nel villaggio di Arrabeh, nella Palestina settentrionale (Galilea), nel 1935. Visse la rivolta palestinese del 1936-1939 e fu testimone della Nakba, che gli causò grande sofferenza. Nel 1954 conseguì il diploma scolastico e lavorò come insegnante fino al 1961. Dopo aver trascorso 15 anni in diaspora nel 1975 tornò in Palestina come direttore del Centro di Ricerca Etnografica dell’università di Birzeit.

Nel suo lavoro di recupero delle storie popolari, mostrò molto interesse anche per l’opera di Granqvist, che conosceva solo attraverso la pubblicazione dei suoi libri, che però contengono per lo più traduzioni e poche citazioni dei testi in arabo palestinese, conservati al Palestine Exploration Fund e ora disponibili anche in digitale, su cui ho avuto il privilegio di lavorare per più di dieci anni.

L’etnografia di Granqvist, dunque, pur essendo inizialmente un progetto accademico, è stata riutilizzata da studiosi e attivisti palestinesi come un archivio di memoria e identità, perché il suo lavoro offre una contro-narrazione ai discorsi dominanti di cancellazione e negazione, affermando la continuità storica e culturale del popolo palestinese e probabilmente anche perché si discosta seppure non in maniera totale, dagli schemi orientalisti del tempo.

Il suo lavoro, riformulato nel quadro della resistenza culturale, è una testimonianza del potere duraturo della narrazione nel combattere l’annientamento. Sfida le narrazioni egemoniche, eleva le voci degli emarginati e sottolinea il potenziale trasformativo della cultura come strumento di identità e giustizia.

Analizzare le dinamiche di ricezione del lavoro di Granqvist da parte di attori palestinesi, sia all’interno dell’ambito accademico sia nelle associazioni culturali composte da non specialisti, solleva un quesito fondamentale: come tracciare i confini tra attivismo politico, conoscenza accademica e ricerca scientifica? L’uso del lavoro di Granqvist, reinterpretato e riadattato nel contesto della lotta culturale palestinese, mette in evidenza il sottile equilibrio tra il ruolo dell’accademia, spesso percepita come neutrale, e l’urgenza politica di preservare e rivendicare il patrimonio culturale.

La sfida consiste nel comprendere se e come questi ambiti possano coesistere e integrarsi, senza compromettere l’integrità del sapere accademico né l’efficacia dell’attivismo politico. Granqvist, pur essendo una ricercatrice esterna alla causa palestinese, ha fornito materiali che oggi vengono rielaborati non solo per fini di studio, ma anche per riaffermare un’identità culturale minacciata. Questo processo solleva interrogativi più ampi sul ruolo della conoscenza accademica nel sostenere, intenzionalmente o meno, istanze di giustizia sociale e politica.

Restano cruciali le parole di Abu-Lughod per chi assume una posizione criticamente riflessiva e impegnata, tenendo presente che:

Il sé estraneo non si trova mai semplicemente all’esterno; esso si colloca sempre in una relazione definita con l’‘altro’ oggetto dello studio […] Ciò che definiamo esterno, o anche parzialmente esterno, è sempre una posizione all’interno di un complesso politico-storico più ampio.

1Traduzione dell’autrice