Iraq

Iraq: lo spirito della rivolta d’ottobre non evapora

Il movimento Tishreen (“Ottobre”), emerso in Iraq nel 2019 e guidato dai giovani, è stato il più grande e duraturo movimento sociale nel paese dal 2003. La violenta repressione delle forze di sicurezza e dei gruppi armati, seguita dalla pandemia, non hanno fermato il movimento che rimane ancora attivo. Cosa è cambiato in questi tre anni? C’è chi ha sostenuto le elezioni e i partiti nati dalle piazze, e chi invece le ha boicottate. In entrambi i casi, la società civile irachena e i giovani conservano lo spirito della lotta più forte che mai e si preparano per nuove mobilitazioni.

foto di Arianna Pagani

Se c’è una parola che più ricorre tra le risposte dei giovani iracheni, attivisti e difensori dei diritti umani alla domanda “Cosa è cambiato con il movimento Tishreen in Iraq?”, quella è senz’altro “consapevolezza”. Una consapevolezza che, come spesso è accaduto in altre piazze, segna inevitabilmente un prima e un dopo, non tanto in termini di cambio imminente di sistema quanto più nella contezza e nella coscienza di esistere e di poter avere un impatto. “La rivoluzione d’ottobre ha cambiato la consapevolezza delle persone perché da quel momento tutti hanno capito chi stava uccidendo i giovani iracheni e chi si stava battendo per la libertà”, spiega a Orient XXI Italia, Rand Firas, 24 anni, attivista e assistente al coordinamento dell’Iraqi Social Forum, una rete di associazioni della società civile irachena: “Anche le persone che non hanno partecipato direttamente sono diventate parte della rivoluzione. Questo non è mai successo. Nel 2011, nel 2015, nel 2018 ci sono state altre proteste ma non così massicce. Queste hanno cambiato anche la nostra consapevolezza perché ora sappiamo cosa siamo in grado di fare e quanto possiamo influire sulla situazione del nostro paese”.

Per comprendere perché dalle piazze irachene è passata la storia, bisogna fare un passo indietro e riavvolgere il nastro prima al 25 settembre 2019, poi al 25 ottobre, quando migliaia di persone - soprattutto giovani - sono scese nelle strade di numerose città dell’Iraq centro-meridionale contro la corruzione, la disoccupazione, l’assenza di servizi pubblici e contro il sistema politico iracheno, anche detto muhasasa ta’ifia - in arabo la divisione su base etno settaria - introdotto dopo l’invasione statunitense del 2003. Un sistema ritenuto da molti iracheni come la causa delle divisioni settarie e di una cultura della corruzione e del mecenatismo politico che affliggono il paese.

Per oltre cinque mesi, le piazze centrali di Baghdad, Basra, Najaf, Babel, Nasiriyah, Amara, Muthana si sono riempite e sono state occupate con tende e sacchi a pelo da una nuova generazione di giovani iracheni con il cellulare in una mano e nell’altra la bandiera nazionale, rossa, bianca e nera. Laureati e disoccupati, delle classi popolari e della medio borghesia. Sunniti, sciiti e cristiani. Uniti, senza riferimenti politici e religiosi, solo dagli slogan “Vogliamo una patria”, “La gente vuole abbattere il regime” e “Né Iran, né Stati Uniti”. Un movimento pacifico e maturo che ha visto migliaia di persone riappropriarsi fisicamente e spiritualmente dello spazio pubblico, attraverso la pulizia delle strade, la piantumazione di alberi, la manutenzione dei servizi trascurati dal governo come luci, marciapiedi, cassonetti della spazzatura ma anche attraverso la cultura, adibendo tende dedicate al cinema, al teatro, ai libri o al dialogo dove discutere liberamente di politica e del futuro. Fin dai primi giorni di protesta, le autorità hanno risposto con la repressione; hanno dapprima limitato l’accesso ai social network, poi ordinato un coprifuoco generale, infine le forze di sicurezza hanno reagito violentemente, arrivando a sparare sui manifestanti con proiettili vivi e gas lacrimogeni. Con più di 600 persone uccise e oltre 20 mila feriti, il movimento sociale del 2019 rappresenta il più massiccio, il più duraturo e anche quello più represso dal 2003. Ai morti delle manifestazioni, infatti, vanno aggiunte e persone fatte sparire forzatamente e gli omicidi mirati nei confronti di attivisti, intellettuali e manifestanti. Il 17 agosto 2020, uomini armati non identificati hanno aperto il fuoco su un’auto che trasportava Lodya Remon Albarti, coordinatrice dell’Iraqi Social Forum di Basra, ambientalista e volto note delle proteste. È sopravvissuta alla sparatoria, riportando ferite alle gambe, ma dopo il tentato omicidio, la difensora dei diritti umani è stata oggetto di minacce e calunnie online e costretta alla fuga. Due giorni dopo, il 19 agosto, è stata uccisa, mentre era alla guida della sua auto, Reham Yacoub, 29 anni, nutrizionista, pacifista e attivista per l’acqua e per la difesa dei diritti delle donne. Una settimana prima, il 14 agosto, veniva ucciso Tahseen Osama al-Shahmani, esponente della società civile, impegnato contro la corruzione. Il 20 novembre 2020, Ashad Heibat Fakhry, giovane produttore iracheno, fixer, interprete per giornalisti stranieri e organizzatore di feste per i giovani iracheni a Baghdad è stato rapito e di lui si sono perse le tracce. L’8 maggio 2021 un altro attivista di rilievo Eham al-Wazni è stato ucciso a Karbala dalle milizie filo-iraniane. E poi Hisham al-Hashimi, intellettuale, esperto di terrorismo e ricercatore per gli istituti internazionali come il Center for global policy di Washington e la Chatham House di Londra, freddato a colpi di pistola davanti alla sua casa a Baghdad il 6 luglio 2020. Negli ultimi anni, Al-Hashimi aveva lavorato come massimo esperto e consigliere politico in materia di sicurezza e affari strategici, nonché come specialista in materia di Stato islamico, sia per il governo iracheno, che per la Coalizione internazionale, il gruppo di Paesi uniti nell’offensiva militare contro l’Isis. Al-Hashimi non era solo un esperto dello Stato islamico; da anni aveva approfondito e studiato la costellazione di milizie sciite filo-iraniane e il 1 luglio 2020, una settimana prima dell’uccisione, aveva pubblicato il report “La disputa interna delle Forze di mobilitazione popolare”,1 un approfondimento sulle rivalità interne tra le milizie Hashd al-Shaabi, create nel 2014 per combattere l’Isis. L’omicidio di queste persone e di una figura prominente come Hisham al-Hashimi sono dei chiari avvertimenti: chiunque critichi lo status quo o tenti di minare le milizie sciite filo-iraniane in Iraq rischia la morte.

Il rifiuto del sistema settario

Un altro aspetto caratteristico della rivolta, infatti, è stato il rifiuto della frattura confessionale. Le proteste del 2019, a differenza delle precedenti, hanno avuto il merito di creare un senso di appartenenza unitaria con una visione più ampia. Piazza Tahrir a Baghdad è diventata la roccaforte e il cuore simbolico delle proteste per gli attivisti e i giovani provenienti da tutto il paese. Anche se i comunisti, i sadristi e in un secondo momento anche altri partiti sciiti e sunniti si sono uniti alle proteste, finanziando alcune delle tende nella piazza, il movimento Tishreen è rimasto distinto, con manifestanti che condividevano lo spazio pubblico piuttosto che un’agenda politica. La strada è diventata una forza politica a parte e il movimento ha stimolato un nuovo discorso tra la popolazione. Simboliche e potentissime sono state le immagini dei giovani che abbattevano i T-wall, mura di cemento armato, i lasciti più visibili dell’invasione a guida statunitense del paese e della trasformazione urbanistica della capitale irachena. Sono stati uno dei capisaldi della strategia della Coalizione internazionale e di David Petraeus, ex comandante delle truppe americane in Iraq e in Afghanistan, dal 2008 al 2010, per spezzare, secondo quella visione strategica, il ciclo della violenza settaria che vedeva contrapposte le milizie del politico sciita Muqtada al-Sadr e la guerriglia sunnita a partire dal 2006. Interi rioni erano stati così recintati e separati per origine etnica, con il risultato di aver intensificato le divisioni confessionali all’interno del tessuto cittadino. “Abbattere quei muri”, ricorda Ali Al-Kharki, attivista iracheno di Baghdad e fondatore dell’ong Humat Djilah, oggi esiliato nel Kurdistan iracheno per ragioni di sicurezza, “era un modo per dire al governo che con quei soldi si potevano migliorare i servizi, gli ospedali e le scuole”.

Le ragioni delle proteste e i problemi cronici che restano

Proprio la tragica carenza di servizi pubblici è stata una delle ragioni alle radici delle mobilitazioni. Nel paese che detiene la quinta più grande riserva di greggio al mondo con 145 miliardi di barili, la maggior parte degli iracheni ha dalle 5 alle 10 ore di elettricità pubblica al giorno e in molti casi nessuna fonte di acqua potabile. Se è vero che l’Iraq è uno dei paesi più ricchi al mondo di petrolio, è altrettanto vero che la popolazione in questi ultimi diciannove anni non ha mai beneficiato di questa ricchezza. Nell’estate del 2018, le temperature a Basra, nel sud dell’Iraq, hanno raggiunto i 52 gradi e dai rubinetti usciva acqua salata e contaminata. Benché il governatorato di Basra ospiti i giacimenti petroliferi che producono la maggior parte di barili di petrolio esportati ogni giorno dall’Iraq, la regione – come la maggior parte del paese - resta sottosviluppata, priva di servizi, di acqua, di elettricità e fortemente inquinata. A ciò si aggiunge la corruzione cronica e l’alto tasso di disoccupazione. Secondo i dati della Banca Mondiale, quella giovanile è oltre il 25% (nel 2020 ha superato il 27%) e l’Iraq è considerato uno dei paesi al mondo con la popolazione più giovane, senza alcuna prospettiva per il futuro. Quasi il 50% degli iracheni ha meno di 19 anni e il 60% ha meno di 25 anni.

Ancora una volta i fattori socio-economici sono stati cruciali come elementi scatenanti di proteste e rivolte. In Iraq come altrove. Se è vero che le proteste popolari hanno innescato un meccanismo di cambiamento e di spinta generazionale senza precedenti con l’entrata in scena di giovani iracheni provvisti di un’esperienza politica diversa rispetto alle generazioni precedenti, è anche vero che i problemi strutturali e cronici accumulati dall’Iraq e legati al sistema politico dell’era post- Saddam, fanno sì che la classe politica non abbia alcun interesse a compiere passi avanti verso le riforme. Il movimento di protesta Tishreen ha sfidato le fondamenta dell’ordine iracheno post-2003, ha costretto il primo ministro Adil Abdul Mahdi a dimettersi e ha portato a una riforma, seppur incompiuta, della legge elettorale. Dopo mesi di stallo e vuoto politico, l’ex capo dell’intelligence Mustafa al Kadhimi ha preso il posto dell’ex primo ministro traghettando il paese fino alle elezioni dello scorso ottobre 2021.

Cosa è cambiato?

Ma cosa è cambiato con le elezioni? E cosa è successo al movimento? Dalla piazza, infatti, sono emersi nuovi partiti tra cui Imtidad, al-Bayt al Watani e al-Bayt al-Iraqi, che sono riusciti a partecipare alle elezioni. Ma i manifestanti si sono divisi. C’è chi ha sostenuto le elezioni e i partiti nati dalle piazze e chi invece li ha boicottati. Come racconta a Orient XXI Italia Ahmed Alaa dell’associazione Al Mesalla, “le proteste del 2019 non hanno cambiato il sistema. Sono nati nuovi partiti e questo è già un grande passo in avanti. Il movimento si è diviso perché alcuni chiedevano il boicottaggio delle elezioni, altri invece spingevano per il voto. Io penso che il cambiamento si faccia da dentro e da fuori e solo collaborando insieme possiamo ottenere dei risultati concreti nel futuro”.

Di un altro avviso è Batool Kareem Hamdi, 23 anni, attivista femminista, membro dell’associazione Sport Against Violence. “Ho scelto di boicottare le elezioni perché l’attuale sistema politico non permette un cambiamento concreto, quindi i nuovi partiti e i politici usciti dalle piazze dovranno comunque compromettersi con il vecchio sistema. La legge elettorale è stata fatta per i sadristi e il boicottaggio era l’unico strumento a nostra disposizione per mostrare la nostra insoddisfazione”.

A distanza di sei mesi dalle elezioni, nessun governo è stato ancora formato, i problemi socio-economici persistono e per i manifestanti uccisi ancora non è stata fatta giustizia. Tutti gli attivisti intervistati concordano sul fatto che nuove proteste potrebbero emergere con l’arrivo dell’estate. “Ci aspettiamo nuove mobilitazioni, soprattutto nel sud del paese dove si soffre di più per la mancanza di servizi, di acqua e di elettricità”, spiega Batool Kareem. “La cosa più importante”, aggiunge Ahmed Alaa, è “evitare che gli spazi per gli attivisti della società civile si restringano. Stiamo osservando sia nel Kurdistan iracheno, sia in diversi governatorati iracheni, una limitazione dello spazio di agibilità politica, perché i politici e le forze di sicurezza sanno che la società civile ha avuto un ruolo importante durante le proteste del 2019. Per questo è fondamentale riuscire a coordinare il movimento sempre di più, organizzandosi tra le città e portando proposte concrete della società civile all’interno del Parlamento”. È difficile prevedere cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Ciò che resta è sicuramente lo spirito della rivolta e la consapevolezza di aver scritto un pezzo di storia.