Geopolitica

L’Arabia Saudita e il Qatar si avvicinano. Gli Emirati fanno buon viso a cattivo gioco

L’incontro dei capi di Stato del Consiglio di Cooperazione del Golfo in Arabia Saudita che si è svolto all’inizio di gennaio 2021 ha messo fine alle ostilità con il Qatar. Ma se il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman riallaccia i rapporti diplomatici con il Qatar, l’uomo forte degli Emirati Arabi Uniti Mohamed bin Zayed guarda all’operazione con diffidenza. I due leader hanno gli occhi puntati su Washington e sul nuovo presidente Joe Biden, che ha deciso di sospendere temporaneamente la vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati.

I dirigenti degli sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo con Nayef Al-Hajraf, suo segretario generale, prima dell’apertura del 41esimo vertice dell’organizazzione in Al-Ula (Arabia Saudita)
Bandar Al-Jaloud/AFP

L’insediamento a Washington di una nuova amministrazione Biden, critica nei confronti della leadership saudita, e la partenza del presidente Trump, convinto sostenitore del principe ereditario saudita Mohamed bin Salman (MbS), hanno spinto Riyad ad annunciare la fine delle ostilità contro il Qatar in occasione del 41° vertice dei capi di Stato del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) che si è tenuto il 5 gennaio 2021. Alla vigilia del summit, Riyad ha deciso di riaprire il suo spazio aereo e le sue frontiere terrestri, mettendo di fronte al fatto compiuto gli altri stati del Quartetto1 che avevano interrotto i rapporti diplomatici contro il Qatar il 5 giugno del 2017 e imposto l’embargo il giorno successivo. Così facendo, l’Arabia Saudita ha portato i suoi tre alleati del Quartetto ad accettare la propria decisione. Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrein ed Egitto hanno infatti firmato, in assenza di dettagli sull’accordo, la “dichiarazione di Al-Ula” che prende atto della fine della crisi. Gli altri paesi stanno aderendo all’iniziativa saudita-qatariota, anche se Abu Dhabi e il suo uomo forte Mohamed bin Zayed (MbZ) sembrano in realtà riluttanti ad un accordo, più per la forte rivalità ideologica ed economica verso il Qatar che per le manovre di MbS.

TRE ANNI E MEZZO DI CRISI

Simbolo della “Nuova Arabia”, il sito archeologico nabateo di Al-Ula, promosso dalla “Saudi Vision 2030”,2 cara a MbS, è stato scelto di proposito per suggellare la riconciliazione con il Qatar e farne uno strumento di diplomazia pubblica al fine di valorizzare le opere realizzate all’interno del regno. Fare di questo sito, fino a quel momento considerato proibito dall’establishment wahabita, il gioiello d’una Arabia secolarizzata mira a mettere in luce un aspetto più accattivante del principe saudita che cerca così di mettersi alle spalle la cattiva fama acquisita nel mondo, soprattutto agli occhi del presidente Joe Biden, dopo lo scandalo provocato dall’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nell’ottobre del 2018. Subito dopo aver assunto le sue funzioni, Biden ha deciso come previsto di sospendere in via temporanea la vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, nonché di procedere al riesame delle vendite che hanno causato ingenti danni nel conflitto in Yemen, utilizzate anche per trasferimenti (via Emirati) alle milizie impegnate in altri conflitti.

Questi segnali di distensione, di certo non una piena riconciliazione almeno fino a quando i protagonisti di questa crisi resteranno alla guida dei loro paesi, dovrebbero tuttavia rappresentare una sorta di pace fredda, senza per questo sfociare necessariamente in una terza crisi. Quella che è durata tre anni e mezzo sotto forma di guerra dell’informazione attraverso un esercito di finti account Twitter, di attacchi informatici e tentativi di destabilizzazione che hanno perfino fatto temere al Qatar eventuali manovre sul proprio territorio, rende improbabile un ritorno a rapporti di piena fiducia. Qatar ed Arabia Saudita sono i primi a beneficiare dell’accordo ed è per questo che insistono nel mostrare una riconciliazione dal carattere bilaterale, di certo molto teatralizzata durante il vertice di Al-Ula, tra il principe ereditario saudita e l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani del Qatar, comunque in grado di rimescolare le carte all’interno del CCG. Da parte sua, il Qatar si è detto aperto al dialogo con l’Iran per la sicurezza regionale. Un’iniziativa questa che ha trovato eco in un articolo scritto da Abdulaziz Sager,3 uomo vicino alla famiglia reale e fondatore del think tank Gulf Research Center, in collaborazione con Hossein Mousavian, ex diplomatico iraniano ed esperto della questione nucleare all’università di Princeton, per definire le misure volte ad instaurare un clima di fiducia tra l’Iran e l’Arabia Saudita. La riconciliazione con il Qatar potrebbe favorire inoltre la ripresa degli scambi, mai del tutto interrotti, con la Turchia. Pertanto, la presidenza del vertice del G20 di Riyad dal 20 al 22 novembre 2020 rappresentava l’occasione giusta per il re Salman di riallacciare piene relazioni con Recep Tayyip Erdoğan, con cui il dialogo e l’intesa sono buoni, al contrario di quelli con il principe ereditario, accusato dal presidente turco di essere il mandante dell’omicidio avvenuto il 2 ottobre 2018 di Jamal Khashoggi nel consolato saudita ad Istanbul. In più, se da un lato Doha ha deciso di abbandonare le cause intentate contro Riyad presso l’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) per l’operazione di hackeraggio durante la crisi del network qatariota beIN Sports ad opera del broadcaster saudita beoutQ, dall’altra parte l’emirato non è riuscito però a risolvere altre controversie, tra cui le continue tensioni con il Bahrein. C’è da aggiungere che Doha, nonostante abbia firmato la dichiarazione “di solidarietà e di stabilità” ad Al-Ula, non ha mai rinunciato a contestare la legittimità della lista di tredici durissime richieste, poi portate a sei, imposte dal Quartetto per far sì che l’emirato si adegui alla linea diplomatica fissata dai quattro paesi, in primo luogo da Abu Dhabi.

LA LOTTA CONTRO I FRATELLI MUSULMANI

La riluttanza di Abu Dhabi nasconde la malcelata preoccupazione di dover assistere ai continui ripensamenti del principe ereditario saudita sugli equilibri della regione, oltre a non voler lasciare che il testimone di alcune situazioni locali, dallo Yemen alla Turchia, dalla Palestina alla questione iraniana, passi nelle mani di suo padre creando così un vasto consenso all’esecutivo saudita. Fino ad ora, MbS ha sostenuto passo dopo passo la linea strategica del suo mentore MbZ, specialmente in Yemen, correndo il rischio di entrare in conflitto con suo padre che ritiene all’opposto che sia necessario mediare con il partito politico yemenita Al-Islah che s’ispira ai Fratelli Musulmani, anche alla luce degli evidenti conflitti d’interesse tra il regno e la federazione. Ma se da una parte Abu Dhabi, sia per ragioni di pragmatismo sia per paura di ritorsioni da parte di Teheran, ha rinunciato dall’estate 2019 ad ogni discorso anti-iraniano e ha avviato le consultazioni sulla sicurezza regionale, dall’altra il principe ereditario MbZ segue con occhio vigile i negoziati dell’accordo sul nucleare, e – cosa più importante – non vuol cedere di fronte al Qatar e alla Turchia sulla questione della sua opposizione contro i Fratelli Musulmani. Al termine del vertice d’Al-Ula, la posizione qatariota ne è uscita rafforzata, perché Doha, al di là della crisi, è vista di buon occhio dall’amministrazione Biden e dalla maggior parte dei congressisti, al contrario di MbS e MbZ che sono visti come lo zoccolo duro del Golfo. D’altro canto è il Qatar che si sta riposizionando al centro del gioco del CCG per garantire le mediazioni tra Iran e Arabia e tra Turchia e Arabia, facendo sì che la riconciliazione saudita-qatariota sia l’inizio di una nuova linea politica orientata al dialogo. Nonostante la diffidenza che esiste tra la dinastia Al-Thani e quella degli Āl Saʿūd, l’emiro del Qatar Tamim non è mai stato il vero problema della crisi del Golfo, come mi hanno spiegato i consiglieri della famiglia reale, al contrario degli Emirati Arabi Uniti che incolpano proprio Tamim. A rappresentare degli ostacoli sono stati piuttosto l’emiro padre, lo sceicco Hamad e il suo ex premier e ministro degli Affari Esteri Hamad Ben Jassem, veri ideatori della diplomazia qatariota a partire dalla metà degli anni Novanta. Si vocifera anche che siano stati loro due ad esprimere riserve sulla possibilità di una riconciliazione.

ATTRARRE GLI INVESTITORI ESTERI

Nonostante la tensione sia ancora alta, tutti hanno preso atto che la crisi – la più grave nella storia di questa regione – sia costata molto cara e soprattutto che sia insostenibile dopo la caduta dei prezzi del petrolio, ancor di più da quando la pandemia da Covid-19 ha paralizzato l’economia mondiale. Ciò che conta per la nuova generazione di leader del CCG però è di riuscire ad attrarre investimenti diretti esteri (IDE). Più di tutti, spetta a MbS e alla sua «Saudi Vision 2030» raccogliere la sfida di attrarre nuovi investitori. Anche gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che di certo nutrono grandi aspettative dalla normalizzazione dei rapporti con Israele, hanno molto di più da guadagnare aderendo. Per quanto riguarda il Qatar invece la preparazione e l’organizzazione della prossima Coppa del Mondo di calcio 2022 sono un evento da non perdere. Quanto al nuovo sultano dell’Oman Haïtham Ben Tarek Ben Taïmour Al-Saïd, anche lui condivide la stessa visione «imprenditoriale» del mondo della sua generazione. La tutela delle loro economie, gravemente colpite dalla pandemia, e la consapevolezza che la mancanza d’unione sarebbe controproducente dopo l’elezione di Joe Biden, hanno imposto all’Arabia Saudita di cambiare strategia, decidendo per una via diplomatica privilegiata all’interno del CCG con Kuwait, Oman e Qatar, in netta contrapposizione con la politica interventista e militarista portata avanti dagli Emirati Arabi Uniti, da quando nel gennaio 2014 MbS è diventato capo della federazione. Il presidente americano ha manifestato l’intenzione di riesaminare i rapporti con Riyad e Abu Dhabi secondo un processo istituzionale concertato con il Congresso, a differenza della gestione interpersonale che è prevalsa sotto la presidenza Trump. I leader sauditi, come la maggior parte dei leader del Golfo, hanno un brutto ricordo dell’epoca Obama. Il governo Biden composto da un gran numero di personalità implicate nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPoA) del 14 luglio 2015, appare dunque ai loro occhi come una sorta di terza amministrazione Obama. Malgrado ciò, il regno si è preparato al cambio di potere a Washington, portando avanti una campagna di lobbying con numerose imprese, banche, istituzioni private per attirare l’attenzione degli investitori sulle opportunità offerte dall’eldorado che costituisce l’Arabia della «Saudi Vision 2030». La presenza significativa delle società quotate a Wall Street e dei fondi d’investimento nel convegno del Future Investment Initiative che si è tenuto a Riyad il 27 gennaio 2021 sembra essere già fin da ora la giusta controparte alle pressioni da parte dell’amministrazione democratica americana.

1Fatiha Dazi-Héni, «Quella strana guerra nel Golfo», Le Monde diplomatique, luglio 2017

2Saudi Vision 2030, promossa dal principe ereditario Mohammed bin Salman, è un quadro strategico per ridurre la dipendenza dell’Arabia Saudita dal petrolio, diversificare la sua economia e sviluppare settori di servizio pubblico come sanità, istruzione, infrastrutture, attività ricreative e turismo. [N.d.T.]

3«We can escape a zero-sum struggle between Iran and Saudi Arabia – if we act now», The Guardian, 31 gennaio 2021