Il 20 gennaio 2021, a pochi giorni dal quinto anniversario della scomparsa di Giulio Regeni, la Procura di Roma ha ufficialmente presentato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Husam Helmi, e Magdi Ibrahim Sharif, i quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani accusati del rapimento, tortura e morte del giovane ricercatore friulano.
Questo atto formale conferma gli importanti passi compiuti grazie alle indagini svolte dalla Procura di Roma. Ma nel processo che finalmente partirà in primavera fra gli imputati ci sarà un grande assente: l’Egitto di Al-Sisi.
Innanzitutto, i cinque agenti egiziani saranno processati in absentia, poiché la procura del Cairo, ‘coronando’ anni di una collaborazione alquanto selettiva, si è addirittura rifiutata di fornire il domicilio degli imputati. A non andare a processo sarà il regime di Al-Sisi tout court, visto che i giudici egiziani hanno apertamente contestato i risultati delle indagini italiane, negando qualsiasi responsabilità delle istituzioni egiziane, e dichiarando che per l’Egitto il caso Regeni è chiuso.
Nonostante i comunicati solo apparentemente congiunti tra le due procure, dunque, la snervante partita giudiziaria degli ultimi cinque anni si è chiusa con uno strappo, e la partita politica tra l’Egitto e l’Italia — giocata con astuzia da Al-Sisi, tra depistaggi, inerzie, e false promesse contro i quali Roma ha fornito scarsa opposizione — è stata vinta dall’Egitto.
Com’è possibile che un regime così sanguinario possa uscire, ancora una volta, illeso da una vicenda come questa? La totale mancanza di accountability davanti ai suoi crimini efferati dimostra non solo la protervia autoritaria su cui si basa il potere di Al-Sisi, ma anche quanto lontano la comunità internazionale — e l’Italia in particolare — sia da quell’atteggiamento critico con il quale si guardava all’Egitto del neo-eletto generale Al-Sisi dopo il colpo di stato del 2013.
Allora si sanzionò il regime golpista per la sanguinaria repressione delle dimostrazioni di piazza, tra cui quella di Rabaa al-Adawiya nel’agosto 2013, che fece letteralmente scorrere il sangue per le strade, con mille morti in pochi giorni. In quegli anni alcune capitali europee, tra cui proprio Roma, guardavano al nuovo rais quasi come a un pariah.
Nel riflettere sulle responsabilità dell’Egitto in vicende tragiche come quelle di Giulio Regeni, dunque, occorre non perdere di vista le complicità, le connivenze e le colpe dei Paesi europei che questo regime sono giunti a sostenere ciecamente, e con il quale hanno intessuto una sempre più fitta rete di rapporti economici e politici. Da Roma, Parigi, Berlino e Bruxelles si è arrivati a vedere in questo regime un ‘partner ineludibile’.
L’acquiescenza europea, e in particolare italiana, e l’impunità egiziana appaiono allora come facce della stessa medaglia. Le responsabilità egiziane non sono scollegate da quelle italiane ed europee, e di questa complessa aritmetica della colpa il caso Regeni e il caso Zaki offrono un’illustrazione tragica e chiara.
Il doppio gioco europeo
Con le rivoluzioni del 2010-11, l’Unione Europea e le sue principali potenze — in primis Italia e Francia — ebbero l’opportunità di rivalutare il loro appoggio ai dittatori della sponda sud del Mediterraneo. L’UE ammise pubblicamente che dare manforte a tali regimi — che non facevano che impoverire e reprimere le proprie popolazioni — minava la stabilità, la sicurezza, e la prosperità sia di quei Paesi che dell’Europa stessa. Purtroppo, oggi questa lezione sembra dimenticata.
Dal 2014 in poi, l’Egitto ha convinto — e gli stati europei si sono fatti convincere —che il suo regime rappresenti l’ultimo bastione contro il « terrorismo islamico » e contro una paventata ondata di rifugiati e di migranti. Furono le aperture di governi come quello dell’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi a riammettere Al-Sisi nel consesso internazionale.
L’Europa tornò così a sostenere dittature — stavolta ancor più efferate — dicendo di sperare di raggiungere obiettivi già falliti in passato utilizzando gli stessi metodi, nonché tradendo il messaggio delle rivolte arabe, che avevano dimostrato la fragilità e l’instabilità di tali regimi. Prevedibilmente, l’unico risultato è stato che, forte anche di questo sostegno internazionale, il regime egiziano ha soffocato ancor più la società civile, facendo precipitare l’Egitto nella peggiore crisi dei diritti umani della sua storia.
Gli eventi degli ultimi mesi confermano questo dato. Fra il 15 ed il 19 novembre 2020 venivano accusati di « terrorismo » ed arrestati al Cairo l’amministratore Mohamed Basheer, il Direttore generale Gasser Abdel Razek, ed il direttore dell’unità di lavoro sulla giustizia penale Karim Ennarah del Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), una delle più longeve e prestigiose organizzazioni per la difesa dei diritti umani egiziane.
Al danno dell’arresto, delle condizioni atroci nelle carceri, ed alla ridicola motivazione, si aggiungeva una beffa: pochi giorni prima, l’EIPR aveva tenuto dietro richiesta di vari governi europei un seminario sulla situazione dei diritti umani in Egitto. E proprio in quei giorni, a Bruxelles, l’UE approvava il suo Piano d’Azione per la Democrazia ed i Diritti Umani per il 2020-2024. L’arresto dei tre dirigenti dell’EIPR mandava dunque un doppio messaggio: ai dissidenti interni confermava la volontà del regime di perseguitare senza freni, ai governi europei intimava di non impicciarsi degli affari interni egiziani.
In occasione della visita di Al-Sisi a Parigi del 7 dicembre, e in seguito ad una imponente mobilitazione in Europa e negli USA che ha coinvolto attivisti, personalità dello spettacolo, politici e diplomatici, i tre esponenti dell’EIPR sono stati liberati. Ma l’avvertimento in pieno stile « mafioso » era chiaro: Abdel Razek, Ennarah, e Basheer non sono stati scagionati dalle accuse, Patrick Zaki resta in detenzione «preventiva», e nonostante il buon viso a cattivo gioco di Macron, resta tutt’ora in carcere anche Rami Shaath, coordinatore in Egitto della campagna BDS e marito di una cittadina francese, di cui il Presidente aveva chiesto la scarcerazione.
Agli osservatori più attenti, la scarcerazione dei «tre dell’EIPR» è parsa una «foglia di fico» offerta per coprire il fatto che sia i governi francesi ed italiano in quei giorni stavano concludendo altri contratti per forniture militari — fra l’altro pagati tramite i prestiti da governi e istituti finanziari occidentali.
Di sicuro, poco avevano quelle scarcerazioni a che fare con pressioni politiche dei governi europei, tanto che proprio Macron annunciava, in conferenza stampa al fianco di Al-Sisi, che non avrebbe ‘posto condizioni’ legate ai diritti umani nei rapporti politici ed economici col Cairo.
Durante la stessa visita a Parigi, il sanguinario Al-Sisi veniva inoltre nominato Cavaliere di Gran Croce della Legion d’Onore, la massima onorificenza francese — ma di nascosto, fuori dal programma ufficiale, tanto che a rivelarlo sono state foto pubblicate sul sito della presidenza egiziana. L’ennesimo smacco inferto dal «partner ineludibile» ha provocato lo sdegno di varie personalità civili e politiche italiane – a partire dal giornalista Corrado Augias, che per protesta ha restituito la sua Legion d‘Onore all’ambasciata francese a Roma.
A pochi giorni da quella visita, il 17 dicembre, il Parlamento europeo ha inviato un segnale nettamente in contrasto con quello dei governi degli Stati membri. Con la quasi unanimità dei voti, l’assemblea ha adottato una dura risoluzione di condanna nei confronti sia del governo egiziano sia delle troppo morbide capitali europee.
Nella risoluzione, inoltre, si insiste che venga fatta luce sul caso di Giulio Regeni e si chiede la scarcerazione di Patrick Zaki e degli altri prigionieri detenuti per «reati d’opinione» in Egitto. A questa importante presa di posizione è seguita la recente discussione in seno al Consiglio Europeo del 25 gennaio, nel quale i Ministri degli Esteri dell’Unione hanno affrontato il tema della situazione in Egitto. In chiusura, l’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha definito «grave» il caso Regeni e ha esortato il regime egiziano a collaborare per ottenere verità e giustizia.
Roma e il Cairo: così lontane, così vicine
Se per due anni dopo la morte di Giulio Regeni l’Italia aveva percorso il doppio binario della censura ufficiale e della collaborazione ufficiosa con l’Egitto, in linea col doppio gioco europeo illustrato sopra, il rientro dell’ambasciatore nell’agosto del 2017 ha eliminato l’unico strumento di vera pressione politica sul regime egiziano. Di lì a poco, il generale offriva alla stampa internazionale l’unica lettura possibile di questo gesto: l’arrivo dell’ambasciatore Cantini, seguito da visite ufficiali delle massime cariche governative, segnava la definitiva normalizzazione delle relazioni italo-egiziane.
A ciò è seguita non solo la normalizzazione sbandierata da Al-Sisi e taciuta da Roma, ma addirittura un salto di qualità negli scambi tra Egitto e Italia, soprattutto in un settore centrale per il regime egiziano e per la sua repressione sanguinaria: il settore militare.
Già nel 2019 l’Egitto era diventato il primo cliente al mondo di armamenti italiani, in flagrante violazione della Legge 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani: le armi leggere ed il software di sorveglianza venduti dall’Italia, infatti, venivano regolarmente utilizzati per dare la caccia a dissidenti. La gravità politica e strategica di queste vendite di armamenti era già enorme.
Tuttavia, proprio mentre l’Egitto arrestava Patrick Zaki, studente all’Università di Bologna, all’inizio del febbraio 2020, la Fincantieri ed il Ministro degli Esteri concludevano con Al-Sisi la trattativa per una commessa da ben nove miliardi di euro che includeva almeno due modernissime fregate FREMM. Definita volgarmente dalla stampa italiana «commessa del secolo», la vendita è stata conclusa contro il parere esplicito della Marina Militare, a cui quelle fregate erano destinate nell’ambito di un già ritardato processo di ammodernamento delle sue capacità.
Il danno strategico recato all’Italia si è trasformato dunque in vantaggio strategico per l’Egitto, un paese con crescenti ambizioni di potenza regionale ed obiettivi spesso in diretta competizione con l’Italia nel Mediterraneo.
Interrogato dalla Commissione di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, il 18 giugno 2020 il Presidente del Consiglio Conte ha tentato invano di tenere distinti due piani inevitabilmente convergenti: quello della ricerca della verità per Giulio Regeni e della richiesta di libertà per Patrick Zaki, e quello della collaborazione militare con l’Egitto. In quell’occasione la famiglia Regeni ha commentato lapidaria che il ‘fuoco amico’ italiano faceva tanto male quanto quello egiziano e che oramai si trattava di dover«combattere contro lo stato italiano», non più solo contro quello egiziano, per ottenere verità e giustizia. Tanto che il 31 gennaio 2020, riconoscendo la corresponsabilità e collusione tra governo italiano e egiziano, i genitori di Giulio Regeni hanno annunciato di aver presentato un esposto contro il governo italiano proprio per la violazione della Legge 185/90.
Le responsabilità italiane, tuttavia, non si limitano al sostegno prestato al regime di Al-Sisi e all’acquiescenza nei confronti dei suoi crimini, una colpa condivisa da altri Paesi europei. Se le indagini della Procura di Roma hanno fatto qualche luce sulle colpe egiziane nel caso Regeni, scarsissima attenzione è stata finora prestata al ruolo delle autorità italiane nei fatti legati alla sparizione, tortura e morte di Giulio Regeni, un cittadino nei confronti del quale lo stato aveva un obbligo costituzionale di protezione. La recente audizione dell’allora Presidente del Consiglio Renzi in Commissione Regeni, tuttavia, ha offerto vari elementi nuovi, importanti e gravi proprio in merito alle responsabilità del governo.
Non solo è grave, infatti, che il Senatore Renzi abbia utilizzato l’audizione in Commissione per difendere sé stesso e l’Egitto, arrivando a farsi portavoce della propaganda del regime egiziano quando ha accostato, ad esempio, la primavera egiziana all’organizzazione dei Fratelli Musulmani. Inoltre, nel corso dell’intera audizione, Renzi non ha fatto neppure un cenno alla profonda crisi dei diritti umani che l’Egitto sta attraversando, né tantomeno alla vicenda di Patrick Zaki.
Grave è, soprattutto, che la massima autorità politica che presiedeva ai rapporti tra Egitto e Italia al momento dei fatti legati alla morte di Giulio Regeni abbia offerto una ricostruzione della vicenda in netto contrasto con quella ufficiale, dichiarando di non essere stato a conoscenza della sparizione del ricercatore fino al 31 gennaio 2016, e aggiungendo che se i «vertici dello stato» lo avessero saputo prima, si sarebbe potuto «fare altro».
La smentita della Farnesina – altamente inusuale – è arrivata categorica e perentoria. Ma occorre aggiungere che proprio tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016 al Cairo era presente l’allora capo dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (AISE) Alberto Manenti, e che l’AISE avrebbe incontrato i suoi omologhi egiziani almeno due volte prima del 31 gennaio.
In quei giorni, inoltre, erano al Cairo una folta delegazione del Ministero dello sviluppo economico, nonché del mondo industriale italiano. Le goffe ma gravi dichiarazioni di Renzi paventano una reale spaccatura tra i diversi organi dello stato, tra cui l’intelligence e la Farnesina, e impongono un’indagine urgente sull’effettivo operato e sulle responsabilità delle istituzioni italiane nei nove, tragici giorni che separarono la scomparsa di Giulio Regeni dal suo ritrovamento.
L’Europa, l’Egitto e noi
Se l’UE ha responsabilità meno dirette ma non meno pesanti di quelle italiane, dovrebbe essere interesse comune capire come sia stato possibile che un cittadino europeo possa essere stato torturato e poi assassinato impunemente, e che la verità sulla sua morte sia ostacolata ad ogni passo. Tuttavia, senza una ricostruzione delle complicità, corresponsabilità e connivenze tra Italia ed Egitto, quella per Giulio Regeni rischia di rimanere una giustizia vuota, e il processo che sta per cominciare rischia di essere fatto solo a fantasmi.
Bisogna sottolineare che gli strumenti per fare pressione sull’Egitto, l’Europa tutta – e l’Italia in particolare – li ha. Primo fra tutti, l’«internazionalizzazione» della questione dei diritti umani in generale e del caso Regeni in particolare, che l’Egitto teme, se non altro per quelle questioni di immagine tanto care ad Al-Sisi.
Inoltre, si potrebbero convocare gli ambasciatori egiziani nei rispettivi Paesi dell’Unione per segnalare l’importanza dei diritti umani. Si potrebbero richiamare o ritirare gli ambasciatori europei al Cairo – una proposta che peraltro la famiglia Regeni suggerisce da mesi al governo, senza apparente risposta.
Si potrebbe sollevare la questione dei diritti umani in Egitto con forza e regolarità nelle organizzazioni internazionali, così come l’Italia ha fatto in passato. Si potrebbero poi rivedere o sospendere gli accordi di collaborazione «anti-terrorismo» che dal Cairo vengono sfruttati per perseguire dissidenti in Egitto, nonché nell’Europa stessa. Si potrebbero finalmente utilizzare strumenti concreti già presenti negli accordi bilaterali euro-egiziani per penalizzare il regime egiziano per gli abusi commessi – strumenti che esistono da almeno 15 anni.
E l’Unione, infine, potrebbe applicare le cosiddette «sanzioni Magnistky»,1 recentemente approvate proprio nel Piano d’Azione per la Democrazia ed i Diritti Umani tanto inviso al Cairo, sanzionando individui quali ad esempio il ministro degli interni o il direttore del notorio carcere di Tora2, nel quale vengono detenuti e spesso torturati i prigionieri politici.
Una cosa è certa: questa non è solo una battaglia per Giulio Regeni, Patrick Zaki, e le migliaia di prigionieri politici egiziani in carcere. Su questo si gioca anche il futuro dell’Europa – non solo dei suoi governi, ma anche dei suoi cittadini.
1Sanzioni Magnitsky: Insieme di sanzioni che permettono all’Unione europea di congelare i beni e di imporre restrizioni di movimento nei confronti di individui implicati in violazioni di diritti umani.
2Prigione di Tora: complesso penitenziario del Cairo in cui sono detenuti numerosi prigionieri politici, soprattutto membri dei Fratelli musulmani