Recensione

L’islamismo in Gran Bretagna tra neo-razzismo e attivismo politico

Il saggio di Danila Genovese sugli islamisti britannici restituisce un’immagine scevra da pregiudizi e stereotipi sul fenomeno dell’Islam politico in Europa.

Londra, 19 marzo 2022. Attivisti antirazzisti riuniti a Portland Place all’inizio della Marcia contro il razzismo
Alisdare Hickson, Wikimedia Commons 2022.

La parola “islamisti” evoca nella pubblica opinione sentimenti di paura ed insicurezza, e la mente va agli attentati terroristici compiuti in Europa tra il 2015 e il 2017 da cellule jihadiste. Per spiegare questo fenomeno, diversi esperti hanno asserito che ci sia un legame tra l’Islam e una sua intrinseca radice violenta che sarebbe alla base delle scelte di coloro che compiono queste azioni stragiste. L’antropologa Danila Genovese, nel suo saggio sugli islamisti britannici, ci restituisce invece un’immagine più aderente alla realtà, scevra da giudizi morali o stereotipi, ma che, attraverso un lavoro sul campo durato 5 anni, mette a fuoco le dinamiche dietro le quali alcuni giovani musulmani ad un certo punto della loro vita hanno deciso di entrare a far parte di movimenti islamisti che operano nel contesto britannico.

Il contesto storico e il campo di ricerca

Questo testo nasce dal desiderio da parte dell’autrice di riformulare molte domande relative agli attentati terroristici in Gran Bretagna, a partire da quello del 7 luglio 2005, quando una serie di esplosioni causate da attentatori suicidi colpirono il sistema di trasporti pubblici della capitale britannica provocando 56 morti.

A tal fine, l’autrice ha svolto un’impressionante lavoro etnografico dal 2005 al 2010, periodo durante il quale ha incontrato e intervistato centinaia di attivisti islamisti che risiedono in Gran Bretagna, allo scopo di ascoltare i loro discorsi e comprendere le rispettive pratiche politiche, senza i filtri delle rappresentazioni che l’opinione pubblica, i think tank occidentali e gli esperti di sicurezza ne offrivano, ossia attraverso le lenti “classiche” della radicalizzazione, del fondamentalismo e del terrorismo.

Scopo principiale di tale ricerca è stato quindi capire le dinamiche e i fattori che hanno caratterizzato le relazioni dei partiti e dei movimenti islamisti con lo Stato e le istituzioni britanniche. Prima di procedere all’esposizione dei risultati raggiunti, l’autrice ha ritenuto necessario spiegare come la Gran Bretagna, nei decenni precedenti, si è posta nei confronti delle minoranze etniche sul proprio territorio.

Se infatti il razzismo coloniale era andato sepolto con la caduta dell’impero britannico e la perdita dei possedimenti coloniali, Genovese sottolinea come in concomitanza con l’arrivo in Inghilterra degli immigrati delle ex-colonie, un nuovo razzismo ne prendeva il posto, alla cui base stava l’idea del multiculturalismo, in realtà operazione di “cosmetica” per mascherare politiche di razzializzazione verso le minoranze. Infatti, a partire dagli anni ‘60, negli ambienti politici e istituzionali britannici il pregiudizio razziale non era più il prodotto di forme di xenofobia, nel senso di discriminazione tout court verso gli stranieri, ma contro chi si rifiutava di adottare gli stili di vita e la cultura British della nazione. Espresso in questo modo tale approccio proteggeva i suoi promotori da qualsiasi accusa di razzismo, in quanto non proponeva alcuna gerarchia di razze, superiori o inferiori.

Inoltre, presentava gli immigrati come possibile minaccia e pericolo all’unità della nazione britannica, il che ne legittimava implicitamente la loro esclusione. Come afferma l’autrice, in questo modo “il razzismo scientifico trovava, così, un sostituto in cui il benessere della nazione si fondava sull’applicazione di una teoria razzista, senza la necessità di usare il termine razza o di appellarsi alle differenze razziali, di chi si voleva espellere dalla nazione”.

Riprova di ciò è il fatto che i numerosi appelli e proclami alla fine degli anni ‘70 da parte dei Conservatori (e quasi mai contestati dai Laburisti) contro l’immigrazione e la necessità di limitare gli ingressi non era mai rivolta contro cittadini neozelandesi o europei, ma solo verso persone provenienti da contesti extra-europei. E così, sulla base di questi presupposti, a partire dalla metà degli anni ‘80 si è proceduto all’avvio di politiche multiculturali che hanno creato una società caratterizzata da ulteriori forme di diseguaglianze politiche e sociali, e di fatto razziali.

Come osserva Genovese, gli immigrati presenti in Gran Bretagna in questo periodo erano poco preoccupati del mantenere le loro diversità culturali, quanto piuttosto manifestare contro il governo per raggiungere forme di uguaglianza sociale e politica. Attraverso le politiche multiculturali invece, che enfatizzavano la preservazione della “propria” cultura, si è praticata una generale forma di de-politicizzazione delle rivendicazioni delle minoranze. Il meccanismo era semplice: un gruppo di rappresentanti etnici, non eletti, stringevano un accordo con lo Stato, garantendo la pace sociale in cambio di fondi da impiegare in progetti culturali. In questo modo gli organi governativi cominciarono ad utilizzare le categorie della religione e della cultura per rappresentare i membri delle minoranze etniche, così da depoliticizzarle ed escluderle dall’arena politica.

Questo è il contesto sociale in cui nascono e si muoveranno i movimenti islamisti e i loro membri. Osserva ancora l’autrice che tale narrativa di de-politicizzazione è stata talmente estremizzata in anni recenti che qualsiasi posizione politica adottata dagli islamisti britannici è stata sempre rappresentata come terrorista o fondamentalista, e quindi come minaccia alla sicurezza nazionale.

I movimenti islamisti in Gran Bretagna

Attraverso il suo lavoro etnografico Genovese dimostra come le aspirazioni e le pratiche degli islamisti siano “intrinsecamente politiche” e di come esperienze personali e sociali di emarginazione siano state il terreno fertile per la loro elaborazione, sia in termini di attivismo politico che di opposizione alle strategie governative.

In questo scenario, la metodologia utilizzata dall’autrice nel condurre la ricerca sugli islamisti rifugge da ogni approccio culturalista-orientalista (che tratta gli stessi o come gruppi religiosi e quindi li depoliticizza o li demonizza come terroristi), ma analizza l’islamismo britannico sulla base di quello che gli attivisti intervistati hanno dichiarato sia l’islamismo per loro, rispetto al modo in cui lo rappresentano e lo praticano.

Ciò che emerge è che se i partiti islamisti di stanza in Gran Bretagna sono stati fortemente influenzati dai testi di al-Banna, Sayyid Qutb e Mawdudi, a loro volta questi stessi movimenti hanno riformulato e rielaborato i concetti dell’islamismo esposti da questi autori nell’ambito del proprio contesto territoriale.

Inoltre, sulla base dei dati del fieldwork, Genovese delinea due tipi di gruppi islamisti: i partecipazionisti, disposti ad interagire con la vita politica e pubblica inglese, ed i negazionisti, che rifiutano le istituzioni, il sistema politico britannico e pianificano una rivoluzione, che dovrebbe innestare un processo di islamizzazione del Paese.

I membri del primo gruppo partecipano alle elezioni e prendono parte alle campagne elettorali ma rifiutano categoricamente la definizione di “partito politico”, scegliendo per sé la categoria di faith group. Il paradosso di questa scelta, sostiene l’autrice, sta nella negazione di una propria soggettività politica e nella repressione della propria identità quando questi entrano in contatto con il governo centrale e le istituzioni britanniche, di fatto auto-ghettizzandosi e assecondando coloro i quali ritengono che questi gruppi non esprimano mai legittime istanze politiche ma solo idee minacciose per la sicurezza nazionale.

Rientrano in questo primo gruppo: The Islamic Human Rights Commission (IHRC), Muslim Association of Britain (MAB), Muslim Council of Britain (MCB) e Muslim Public Affairs Committee (MPACUK).

Illuminante a tal proposito è la dichiarazione di un intervistato della MAB, laddove afferma che “Noi non siamo un partito come quelli tradizionali che nascono da ideologie laiche. Siamo per la difesa religiosa dei Musulmani come comunità della Gran Bretagna e nel resto del mondo”.

Un altro aspetto interessante emerso dalla ricerca sta nel fatto che diversi attivisti e leader islamisti hanno mostrato di sottovalutare come i continui episodi di violenza e di razzismo istituzionale, subiti negli anni dai musulmani come membri di minoranze, hanno rappresentato un forte ostacolo alla partecipazione alla vita politica e sociale degli stessi.

A titolo esemplificativo l’invito dei leader del MCB rivolto in varie occasione ai musulmani ad “uscire dal ghetto e partecipare alla vita della società britannica” non ha mai colto pienamente i processi di razzializzazione verso i musulmani, che impediscono agli stessi di partecipare alla vita pubblica.

In particolare, Genovese ravvisa nei partiti citati una mancanza di presa di coscienza rispetto alle discriminazioni sul piano economico, politico e sociale a cui i musulmani sono soggetti in Inghilterra, non solo in quanto appartenenti ad un credo religioso minoritario, ma soprattutto perché membri di minoranze dei gruppi più svantaggiati e per questo più vulnerabili.

L’autrice ritiene che questo mancato approccio intersezionale (in cui l’etnia dei membri si intreccia con la classe sociale degli stessi) abbia notevolmente indebolito i gruppi islamisti partecipazionisti, in termini di crescita e supporto popolare. Genovese ribadisce ancora che “l’agenzia politica dei partiti islamisti è stata sempre declinata come pratica difensiva della comunità religiosa e culturale, e non in termini di opposizione attiva contro le ingiustizie sociali ed economiche che colpivano i musulmani”.

Per quanto riguarda i gruppi negazionisti, ossia Hizb ut Tahrir, al Ghurabaa e Saved Sect (questi ultimi resi illegali nel 2006 dalle leggi antiterrorismo), nelle proprie agende hanno sempre puntato ad una sorta di islamizzazione della società inglese e all’istituzione di un modello di Califfato anche in Inghilterra. Rispetto a questi tre movimenti, quello che è emerso in modo significativo è il desiderio dei rispettivi leader di ottenere una forma di potere, da esercitare nei confronti dei propri nemici (altri politici, capi di governi occidentali o “mediorientali venduti”).

Interessante è che questi partiti, nel proporre le proprie agende politiche, hanno sempre rappresentato l’Islam come un blocco monolitico e privo di qualsiasi agenzia umana, di storie, geografie e relazioni sociali: una sorta di Orientalismo degli orientalizzati.

Invece, per i membri più giovani di questi movimenti, si tratta per lo più di soggetti che hanno vissuto forti esperienze di discriminazioni razziali e ingiustizie quotidiane: diventare attivisti islamisti per molti è stata quasi una scelta obbligata poiché in questi movimenti hanno visto uno “spazio di difesa” contro il razzismo antimusulmano di ogni giorno.

Per la maggior parte dei giovani attivisti dei partiti islamisti negazionisti, il poter vendicare i torti razzisti subiti, proteggere la comunità islamica in Inghilterra e nel resto del mondo e acquisire un ruolo politicamente attivo sono stati fattori determinanti nella scelta di aderire a questi movimenti. L’autrice su questo punto è molto chiara: “il lavoro etnografico ha confermato che il ruolo delle ideologie e delle inclinazioni personali, emotive e psicologiche è meno rilevante, in un processo di radicalizzazione, rispetto alle esperienze di vita in ambito sociale, combinate con la narrativa politica istituzionale dominante”.

Altro elemento significativo della ricerca è la dimostrazione della mancanza di connessione tra radicalismo ideologico e violenza politica: tra tutti gli intervistati (oltre 100), infatti, solo uno poi effettivamente compirà un attentato, tra l’altro diversi anni dopo essere stato intervistato.

L’islamismo è un discorso politico

Sulla base della sua lunga ricerca, l’antropologa Genovese sostiene che sono proprio le politiche di sicurezza a favorire paradossalmente processi di radicalizzazione tra soggetti a cui queste politiche sono indirizzate. Infatti, la strategia messa a punto dalle forze di sicurezza inglese per contrastare il terrorismo, detta PREVENT, si è concretizzata nel monitoraggio constante della vita politica, religiosa e sociale dei musulmani, e tra questi moltissimi giovani, che non avevano commesso nessun atto di terrorismo, sono stati individuati come potenziali terroristi, per aver espresso delle idee politiche (molto spesso anti-imperialiste e anti-coloniali), che sono state vagamente ricondotte ad un costrutto ideologico del jihadismo e al qaedismo.

Sottolinea, quindi, Genovese che le strategie dell’anti-terrorismo, le quali si basano sull’assunto che i musulmani abbiano un’innata tendenza alla radicalizzazione, sono inesatte e contro-produttive.

Per l’autrice, invece, l’islamismo è un discorso politico, simile ad altri discorsi e ideologie politiche come il socialismo, liberalismo e comunismo, e come tale va trattato.

Sempre secondo questa visione, l’islamismo britannico spazia tra l’asserimento di una soggettività politica, fino ad un progetto rivoluzionario di rifondazione della società secondo principi islamici, mentre il terrorismo come fenomeno politico, all’interno dell’islamismo è un evento marginale.

Per paradosso, la War on Terror che ha visto l’invasione e occupazione dell’Afghanistan prima e dell’Iraq poi, come sottolinea Genovese ha “ucciso più vite umane di quelle mietute dal terrorismo negli anni”.

In conclusione, il merito di questo lavoro è quello di analizzare in modo rigoroso e scientifico un fenomeno, come quello dell’islamismo, spesso letto - sia da parte del mondo dell’accademia che dell’opinione pubblica - solo con le lenti della radicalizzazione o del terrorismo.