La corsa all’Africa del governo Meloni

Il rinnovato interesse delle potenze globali, tra tutte Russia e Cina, ha trasformato il continente africano nella nuova frontiera della geopolitica e dell’economia mondiale. Anche l’Italia ha deciso di entrare in questa partita, e il governo Meloni ha annunciato che la politica estera italiana è pronta a svoltare a sud. Ma il cosiddetto “Piano Mattei per l’Africa” risulta ben lontano dallo spirito dello statista da cui prende il nome e rischia di mischiare i problemi del passato con i rischi del futuro.

L'immagine mostra un gruppo di persone in un ambiente ufficiale, probabilmente durante un incontro o una conferenza internazionale. Si vedono diversi uomini e donne in abiti formali, che rappresentano vari paesi, dato che ci sono bandiere nazionali esposte sullo sfondo. L'atmosfera sembra seria e solenne, con tutti i partecipanti schierati in modo ordinato. Le decorazioni e l'architettura dell'ambiente circostante danno un tocco di grandezza all'evento.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in occasione del Vertice Italia Africa. Roma, 28 gennaio 2024
Paolo Giandotti/Wikimedia Commons

Centoquaranta anni esatti dopo quel congresso di Berlino che diede il via alla colonizzazione dell’Africa, nell’attuale congiuntura di crisi internazionale il continente africano è tornato a essere destinazione ambita e partner di interesse. Le maggiori potenze mondiali non occidentali, in primis la Cina e Russia, hanno passato gli ultimi due decenni ad accrescere la loro influenza sul continente attraverso una fitta rete di rapporti e un flusso ingente di investimenti che hanno dato frutti non solo economici, ma soprattutto politici e strategici. La freddezza con la quale un buon numero di paesi africani ha accolto la recente risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, in sede delle Nazioni Unite, ha rivelato che l’Africa si sta riposizionando sullo scacchiere internazionale in maniera eccentrica se non contraria rispetto alle aspettative di Stati Uniti e Unione Europea.

Dopo anni di scarsa attenzione, l’Italia ha recentemente deciso di entrare in questa partita e il governo Meloni ha annunciato che la politica estera italiana è pronta a svoltare a sud.

Al summit italo-africano del 28-29 gennaio 2024, alla presenza di tutti i maggiori rappresentanti dell’establishment italiano, delle istituzioni europee e di quelle africane, Giorgia Meloni ha annunciato l’inizio di una nuova fase di collaborazione tra l’Italia e il continente africano imperniata su investimenti e progetti comuni in piú settori: da quello energetico a quello della salute pubblica, dalle infrastrutture al clima, e dalla formazione alla migrazione. Il governo italiano ha stanziato 5,5 miliardi di euro, provenienti dal fondo italiano per il clima e da quello per la cooperazione allo sviluppo, a traino di un piano quadriennale, detto “piano Mattei per l’Africa”, che intende coinvolgere un numero significativo di paesi africani (dal Marocco al Kenya, dall’Algeria al Mozambico, dall’Egitto all’Etiopia, dalla Repubblica democratica del Congo e Mozambico) e una pluralità di attori, tra cui importanti società partecipate quali Eni, Enel, Fincantieri, e Leonardo.

L’obiettivo del governo, secondo quanto affermato dalla Presidente Meloni1, è quello di creare un partenariato “paritario e non predatorio” che porti benefici a tutti gli attori coinvolti, visto che l’Africa e l’Europa hanno un “destino comune”, in cui l’Italia ambisce a svolgere una funzione di “ponte”. Il “piano Mattei per l’Africa” è stato presentato come punta di diamante di una più vasta strategia di svolta verso il sud globale, capace di guardare oltre al Mediterraneo e ingaggiare quei paesi emergenti dell’Africa che più spingono per il riconoscimento del continente nelle sedi istituzionali mondiali, a partire da quel G7 di cui l’Italia attualmente detiene il semestre di presidenza.

La svolta africana della politica estera italiana, tuttavia, presenta piú di una criticità. Le dichiarazioni del Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki – secondo cui il piano di investimenti sarebbe stato stilato senza consultare i paesi africani coinvolti, oltreché nell’assenza totale della società civile africana – sono state un primo pessimo auspicio e hanno sottolineato l’insofferenza di questi paesi nei confronti di un approccio occidentale paternalistico già ampiamente rigettato nei fatti. Si pensi solo alla crescente intolleranza verso le istituzioni e gli Stati europei nei paesi dell’Africa occidentale che ha portato negli ultimi anni all’espulsione della Francia dal Mali e dal Niger.

Ma il “piano Mattei per l’Africa” risente anche di contraddizioni, rischi, e ambiguità intrinseci. I piani di sviluppo possono richiedere anni prima di mostrare risultati e, per il momento, il decreto-legge contiene poche indicazioni concrete e resta troppo vago per poter capire esattamente cosa comporterà. Tuttavia, già da una prima lettura dei progetti in cantiere emergono alcune importanti falle nell’approccio italiano alle sfide di politica estera nel sud del mondo.

Il “piano Mattei per l’Africa” del governo Meloni

Alla ricerca di una facile legittimazione e di una formula retorica in grado di associare l’operato del governo attuale a una figura politica di indiscussa caratura, e a un periodo felice della storia dell’Italia repubblicana, il governo Meloni ha attinto al nome di Enrico Mattei, fondatore e primo presidente di Eni, per presentare e promuovere il suo piano di investimenti. Così facendo, il governo ha astutamente tirato in ballo uno dei personaggi della storia europea più amati in Africa, e un clima culturale – quello dell’Italia del secondo dopoguerra – caratterizzato dall’attenzione verso uno sviluppo economico improntato a ridurre le diseguaglianze, sia a livello nazionale che internazionale.

Come è noto, Mattei aveva inventato una nuova formula per i contratti di estrazione di gas e petrolio con i paesi produttori per bypassare lo strapotere che le major del petrolio dell’epoca (le famose ‘Sette sorelle’) avevano nel controllare il mercato petrolifero mondiale. Invece di siglare semplici accordi per le concessioni e la vendita in cambio delle royalty, Mattei proponeva ai governi dei paesi produttori la messa in piedi di una joint-venture finanziata per metà dall’Eni e per metà dal governo locale, in cui la produzione e la vendita del petrolio e del gas fossero gestiti congiuntamente dal paese produttore e da quello consumatore. Il paese produttore veniva così a possedere direttamente il petrolio, fattore nuovo all’epoca, e poteva controllarne (almeno in parte) i flussi. Questa ‘formula Mattei’, che rimase in realtà in gran parte sulla carta (se non per altri motivi, perché per molti paesi produttori l’accordo si rivelò meno remunerativo che non ricevere semplicemente le royalty), fu avviata nel 1957 in Iran e ottenne nell’immediato molto successo.

Se Mattei è passato alla storia come un campione non solo del terzomondismo, ma della lotta al capitale mondiale concentrato in Occidente, l’Italia all’epoca era vista, e si autodefiniva, come il paese occidentale più amico dei popoli di Bandung, essendo stato sì un paese coloniale, ma avendo lavato via quel peccato originale con la caduta del fascismo e l’arrivo di una classe dirigente che proveniva dalla Resistenza.

Appena ci si spinge oltre il piano mediatico e retorico, pare evidente che tra questa onorata storia e l’attuale piano di investimenti in Africa vi siano discontinuità assai importanti. Sicuramente negli ultimi dieci anni gli interessi italiani in Africa sono fortemente cresciuti, segno di un’attenzione sempre maggiore dell’economia e della società italiana verso il continente africano: non solo le importazioni, ma le esportazioni delle aziende italiane in Africa risultano infatti in rapida crescita2. Nel 2013, secondo l’ISPI3, esisteva un solo ufficio dell’AICE (Azienda Italiana per il Commercio Estero) nell’area sub-sahariana, in Sud Africa. Nel 2023 ce n’erano otto: oltre a Johannesburg, in Ghana, Etiopia, Senegal, Nigeria, Angola, Mozambico, e Kenya. Anche la rete delle ambasciate italiane è cresciuta4, con cinque nuove sedi nei paesi subsahariani, per un totale di 25 ambasciate in Africa. Le piccole e medie imprese italiane presenti in Africa si sono affiancate progressivamente alle majors5 in settori quali l’agricoltura e le costruzioni, la farmaceutica e il settore ittico: un giro d’affari da 68 miliardi di euro nel 2022, di cui 47 di importazioni (raddoppiate rispetto all’anno prima) ed esportazioni per 21.3 miliardi di euro.

Tuttavia, più che verso le piccole e medie imprese, il Piano Mattei sembra essere stato elaborato su misura delle grandi aziende privatizzate ma ancora partecipate dallo Stato, a partire da Eni e Enel, che hanno lanciato negli scorsi anni un programma di investimenti che ha reso l’Africa l’area chiave per entrambe le aziende. Da questo punto di vista, la scelta del nome ‘piano Mattei’ pare non solo azzeccata ma rivelatoria e in effetti ossequiosa nei confronti dei reali poteri in campo. Per l’Eni, l’Africa è del resto fin dai tempi di Mattei la zona di produzione più importante e rappresenta attualmente circa il 59% della produzione mondiale della compagnia6.

Nel suo discorso di presentazione, la Presidente Meloni ha puntato in alto ed enfatizzato la necessità di investire su energie rinnovabili che da un lato siano compatibili con la lotta al cambiamento climatico e dall’altro assicurino sviluppo sostenibile nei paesi africani. Nel suo discorso la Presidente del Consiglio ha esplicitamente menzionato i progetti per la creazione di vari “agri-hub” per lo sviluppo della filiera dei biocarburanti che Eni si è impegnata a realizzare in paesi come il Kenya e la Repubblica Democratica del Congo, e che dovrebbero “coinvolgere fino a circa 400 mila agricoltori entro il 2027”. La realtà, tuttavia, è che, grazie anche al ‘piano Mattei per l’Africa’, Eni continua a investire prioritariamente in petrolio e gas: si pensi solo che i fondi destinati ai progetti di esplorazione, sviluppo e mantenimento della produzione di energia fossile si attestano attorno ai €25 miliardi, mentre la compagnia ha destinato meno di €3.4 miliardi ai biocarburanti7.

Gli investimenti più recenti, annunciati intorno al lancio del Piano Mattei, prevedono un nuovo gasdotto dal Nord Africa che renderebbe l’Italia il punto chiave di collegamento energetico tra le risorse energetiche africane e tutta l’Europa. La compagnia ha anche annunciato nuovi investimenti da 7 miliardi di dollari in Egitto per nuove esplorazioni di gas e petrolio8, e 8 miliardi in Libia per il gas9.

Da parte sua, Enel ha stanziato, dal 2016 ad oggi, 2.4 miliardi di euro in Africa che però, a dispetto del dichiarato intento di portare energia pulita in Africa a beneficio della rete elettrica locale, sono stati spesi soprattutto in Sud Africa (1.5 miliardi del totale) e soprattutto in contratti per l’importazione di gas10 (in Algeria e Marocco).

Nelle intenzioni del ‘piano Mattei per l’Africa’ così come illustrate dal governo, lo sviluppo economico del continente farà sì che le migrazioni di massa dall’Africa verso l’Europa cessino: la presidente Meloni ha sottolineato che il governo intende fornire alle nuove generazioni nuovi strumenti di formazione e il “diritto a non dover essere costretti a emigrare”. Rispetto alle iniziative di formazione, anche qui il governo sembra affidarsi ad attori strategici in grado soprattutto di veicolare l’agenda governativa e proteggere gli interessi dei maggiori attori economici coinvolti. All’interno della crescente strategia di penetrazione dell’ambiente accademico italiano, ad esempio, Eni ha moltiplicato i finanziamenti all’Università Luiss di Roma11 proprio al fine di fare dell’ateneo una piattaforma per il dialogo tra Italia e Africa, istituendo un centro internazionale per la transizione energetica africana (INAET) e finanziando borse di studio per studenti africani destinati a diventare le nuove élite del continente.

D’altro canto, parallelamente a queste iniziative di lungo periodo e nell’incertezza delle specifiche iniziative previste per il settore, per ora il governo ha adottato misure di contenimento della migrazione che richiamano strategie già viste. Il governo Meloni ha recentemente donato12 cinque imbarcazioni alla guardia costiera libica a Tripoli per potenziare le operazioni di sicurezza nel Mediterraneo e, di concerto con l’Unione Europea, ha annunciato una donazione di 105 milioni di euro alla guardia costiera e polizia di frontiera tunisina.

Un piano, ma non una svolta

Il fatto che la politica estera italiana guardi finalmente a sud è un dato positivo, ma è meno positivo che lo faccia attraverso un piano di investimenti che rischia di mischiare i problemi del passato con i rischi del futuro. Innanzitutto, occorre riflettere sul fatto che nonostante il tentativo da parte del governo Meloni di presentare questo piano come rivoluzionario, gli investimenti stanziati nel ‘piano Mattei’ non segneranno un incremento effettivo del budget per la cooperazione allo sviluppo13, che si prevede rimanga stabile attorno al 0,29% del PIL, ossia lontano dall’obiettivo dello 0,7% dell’OCSE, standard raggiunto solo da nazioni quali Germania e Svezia. Se l’Unione europea nel 2022 ha destinato quasi 21 miliardi di dollari al continente africano, appare del tutto irrealistico che l’Italia, da sola, possa sviluppare l’Africa con i fondi annunciati.

In secondo luogo, dato il suo orientamento ideologico, non sorprende che la strategia del governo Meloni ignori completamente la questione ancora centrale della cancellazione o riduzione del debito dei paesi africani nei confronti dei paesi ricchi, e che lo faccia a favore di un approccio legato a investimenti che coinvolgono attori privati da entrambi i lati. Questa strategia, tuttavia, inizia già a dimostrare i rischi legati all’approccio neoliberale che la ispira. Da un lato, infatti, le aziende italiane coinvolte risultano essere quelle della cerchia ristretta dei ‘campioni nazionali’ a partecipazione statale, a conferma del solido connubio tra grande capitale e istituzioni statali e di come le prime siano diventate a tutti gli effetti attori di politica estera e sicurezza nazionale14.

Dall’altro, se si guarda ai progetti pilota già in corso, l’economia locale africana stenta a beneficiare degli investimenti previsti e rischia di essere trasformata in senso ancora più ineguale. Si pensi all’esempio dei già citati biocarburanti in Kenya e Repubblica del Congo, la cui produzione non solo ha recentemente fallito le stime di Eni15, ma che ha causato anche l’espropriazione di terreni coltivati dagli agricoltori a favore di grandi aziende agricole come Agri Resources e Tolona, con le quali Eni collabora. Il fatto poi che il governo insista sulla transizione ecologica e il potenziale di sviluppo delle ‘energie pulite’ mentre Eni e Enel continuino prevalentemente a investire su petrolio e gas rappresenta una contraddizione lampante all’interno del piano16.

Gli investimenti annunciati sembrano confermare un trend assai consolidato, basato soprattutto sull’importazione di energia verso l’Italia e l’Europa invece che pensati davvero per l’economia locale – ben lontano, dunque, dallo spirito del ‘piano Mattei’. L’Africa dunque rischia ancora una volta di essere intrappolata nella contraddizione di essere, da una parte, ricchissimo di fonte energetiche; e dall’altro dover lottare quotidianamente con la mancanza di reti adeguate17 per la distribuzione energetica.

Infine, la reazione fredda dei paesi africani18 al piano del governo Meloni tradisce il timore che questa iniziativa si traduca in nuove promesse vuote e nell’ennesima mancata opportunità per uno sviluppo davvero sostenibile del continente africano.

Per molti osservatori, in linea con il suo orientamento ideologico, il piano del governo Meloni andrà a cercare di rafforzare i respingimenti dall’altra sponda del Mediterraneo, una strategia che però finora si è rivelata inefficace. Il fatto poi che la questione migratoria, oltre alla questione energetica, sia il vero motore del piano non è sfuggito a paesi come la Tunisia19, già restia a diventare la guardia costiera dell’Europa. La Tunisia potrebbe essere il primo vero banco di prova della nuova strategia africana del governo Meloni, visto che dal 2023 questo paese ha rimpiazzato la Libia come il principale punto di partenza dei migranti dall’Africa verso l’Europa, e che la crisi economica del paese pare non arrestarsi, così come la deriva anti-democratica inaugurata dall’attuale presidente Kais Saied.

Nel caso della Libia, le politiche italiane ed europee sulla gestione della migrazione non hanno che rafforzato il potere di scafisti e altri trafficanti di esseri umani a fronte di flussi migratori che non accennano a fermarsi. Questo dovrebbe fare da monito per qualsiasi futuro accordo tra Africa e Italia, e tra Africa ed Europa: per gestire il fenomeno migratorio e la transizione energetica non sono sufficienti vaghe promesse di crescita comune, ma la volontà politica di immaginare e realizzare relazioni economiche davvero più eque e sostenibili.