Prima del 6 febbraio 2023, avevo perso la speranza che si potesse ritrovare un senso d’unità tra i siriani delle varie aree geografiche del paese. La guerra in Siria stava infatti per entrare nel suo dodicesimo anno, lasciando un paese più o meno diviso in quattro zone d’influenza dopo il famoso accordo del marzo 2020 tra il presidente turco Erdogan e il presidente russo Putin. Il sud-ovest del paese, così come il centro e la costa sono ancora oggi sotto il controllo del regime di Damasco sostenuto da Russia e Iran; il nord-est del paese sotto il controllo delle Forze democratiche siriane (SDF) sostenute dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti per combattere lo Stato Islamico (IS), mentre il nord-ovest del paese è diviso in due aree: una sotto il diretto controllo turco, ma amministrata dalle forze d’opposizione vicine al governo siriano ad interim; l’altra controllata da Hayat Tahrir al-Sham (organizzazione ex affiliata di Al Qaeda in Siria) e amministrata dal Fronte di salvezza nazionale. Quando è cessata la fase attiva, la guerra è apparsa sempre più alla stregua di un conflitto “congelato”, quasi dimenticato dai media, concentrati esclusivamente sull’invasione russa dell’Ucraina.
Una grande tensione tra le forze sociali
Ognuna di queste zone del paese ha delle proprie dinamiche interne dal punto di vista della governance, dell’economia, della vita sociale e di tutti gli altri aspetti della vita pubblica che rendono ancor più rigido l’isolamento e i confini de facto, oltre a rendere ogni operazione trasversale uno sforzo ai limiti dell’immaginabile. I tentativi di creare un cordone umanitario trasversale, soprattutto per far fronte alla pandemia di COVID-19, sono più volte falliti, e così ogni zona che ha sviluppato un proprio meccanismo di reazione. Ci sono state differenti modalità per intervenire con progetti umanitari in ogni zona, con spostamenti quasi impossibili da una zona all’altra. Le parole d’odio in rete hanno toccato il punto più alto con reciproche accuse di razzismo, tirando in ballo anche discriminazioni di ogni genere.
Prima del 6 febbraio 2023, c’era grande tensione tra le forze sociali, perché ognuno era alle prese con i propri problemi e le proprie difficoltà… o almeno così sembrava.
La prima scossa di terremoto è avvenuta alle 4:17 del 6 febbraio seguita da una seconda alle 13:24 dello stesso giorno. È stato uno dei terremoti più violenti che si sono abbattutti sulla regione negli ultimi secoli. Centinaia di migliaia di persone si sono ritrovate intrappolate tra le macerie o senza casa. Più di 50.000 persone hanno perso la vita tra il sud della Turchia e il nord della Siria. Al momento non è ipotizzabile una stima dei danni perché la scala di magnitudo si è estasa per decine di migliaia di chilometri quadrati. Città storiche come Antiochia sono state completamente distrutte, mentre il governo turco era alle prese con la gestione dell’emergenza nelle sue zone interne. Il terremoto ha colpito inoltre le aree sotto il controllo del regime, in particolare la città di Jableh sulla costa e alcune zone di Aleppo. C’è stato anche il crollo di numerosi edifici, mentre gli ospedali avevano enormi difficoltà ad accogliere tutti i feriti. Alcuni sono stati trasportati fino a Damasco, con un viaggio lungo 320 km.
La situazione nel nord della Siria era ancora più precaria in quanto l’area era già stata pesantemente danneggiata dai continui bombardamenti dell’aviazione siriana e russa. L’arteria principale per gli aiuti umanitari nel nord della Siria è stata gravemente danneggiata senza possibili alternative poiché il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva autorizzato un solo valico di frontiera per gli aiuti umanitari transfrontalieri all’inizio di gennaio 2023. Anche gli aiuti trasversali erano impossibili perché tutti i checkpoint erano chiusi. Tra le aree più colpite ci sono le città di Jindires nel nord di Aleppo, Harem e Salqin a ovest di Idlib. Città sottoposte a diversi modelli di governance, impossibili da coordinare. Quando le squadre di ricerca e soccorso insieme agli aiuti umanitari sono arrivati in Turchia, tutti noi abbiamo sperato che in Siria ci sarebbe stato qualche effetto a cascata, cosa che però non è avvenuta.
L’impossibilità di ricevere aiuti umanitari
Nessuna squadra di ricerca e soccorso è riuscita ad entrare nel nord della Siria. gli aiuti umanitari erano impossibili, mentre le squadre delle agenzie delle Nazioni Unite sono rimaste bloccate con una parte di popolazione abbandonata in strada al proprio destino. Sembrava davvero una scena apocalittica!
A poche ore dal terremoto, è stato allestito un convoglio di aiuti umanitari nel nord-est del paese. Una delle città più colpite è stata proprio Jindires, a maggioranza curda. Inoltre, molti sono stati costretti a lasciare Deir el-Zor per spostarsi nel nord-ovest della Siria. Lasciando da parte ogni problema logistico, oltre a diversi anni di ostilità tra la Siria nord-orientale e nord-occidentale, gli abitanti di Deir el-Zor e Raqqa hanno cominciato a donare tutto ciò di cui potevano fare a meno: tende, materassi, coperte, cuscini, generi alimentari… e molto altro. A Deir el-Zor, le operazioni sono state coordinate da due organizzazioni della società civile: Deirna e Mari che fanno parte di un gruppo di attivisti civili, attivo nel nord-est della Siria, che hanno coordinato la traversata. Inoltre, molta gente ha cominciato a vendere qualsiasi oggetto d’oro o argento in suo possesso per donarlo al convoglio. Le donne di Raqqa si sono riunite in piazza al Naim per donare oggetti d’oro e gioielli. Nel giro di tre giorni, il convoglio era composto da una fila di 77 camion in viaggio dal nord-est al nord-ovest della Siria. Da qui, il problema di come far passare il convoglio attraverso il valico di “Aoun al-Dadat”, un checkpoint tra le aree controllate dalla Turchia e quelle controllate dalle SDF. Ma nessuno all’interno delle forze d’opposizione siriana ha avuto il coraggio di prendere una decisione. Tutti attendevano una reazione da parte della Turchia, letteralmente sommersa dalla gestione interna dell’emergenza post-terremoto.
Ritrovare un forte senso di unità
È di fronte al cataclisma e al senso d’impotenza che i siriani hanno ritrovato un senso di unità.
Una serie di associazioni della società civile, tra cui quella che presiedo, hanno cercato di mediare durante la traversata. Alla fine, i leader tribali di entrambi gli schieramenti hanno spinto per una soluzione finale, ossia prestare aiuto con il sostegno della protezione civile siriana. Un altro esempio della maggiore prontezza, efficienza ed efficacia nel far fronte all’emergenza da parte degli attivisti della società civile. Negli ultimi 10 anni di guerra, sono sempre stati in prima linea nelle fasi di negoziazione quando erano in gioco delle necessità d’ordine umanitario, comprese le evacuazioni.
Gli aiuti sono cominciati ad arrivare anche dalla regione del Kurdistan iracheno attraverso la Fondazione Barzani che ha condotto spedizioni transfrontaliere direttamente nella città di Jindires. Tutto ciò di fronte al totale stallo dell’ONU, impossibilitata a far arrivare anche un solo convoglio nell’area dopo otto giorni dalla catastrofe. Un convoglio di serbatoi di carburante ha avuto meno fortuna nell’attraversare il confine. E questo la dice lunga sul meccanismo degli aiuti fortemente politicizzato e polarizzato che prevale nella regione. Inoltre, non c’era soggetto politico o militare che non volesse vestire i panni di salvatore della patria, e così il convoglio di carburante non è mai riuscito a passare.
Ma gli aiuti non sono arrivati solo dal nord-est della Siria. Nelle aree controllate dal regime, reti di amici, famiglie e attivisti della società civile hanno cominciato a raccogliere oggetti da inviare nelle zone più colpite, beni di prima necessità nelle aree più accessibili o, in altre aree, denaro con il sistema hawala1. Sono molti i volontari tra la popolazione civile che hanno aiutato ad estrarre persone dalle macerie, distribuendo generi alimentari o tende-rifugio di base alla popolazione colpita.
Nonostante l’atteggiamento di laissez faire tenuto nelle prime 72 ore, il regime siriano ha poi cercato di controllare ogni operazione, imponendo solo due canali per le spedizioni: la Mezzaluna Rossa arabo-siriana e il Syria Trust for Development (un ente di beneficenza gestito dalla moglie di Bashar al-Assad). Era chiaro da subito che i due soggetti non avrebbero fatto arrivare alcun aiuto nel nord-ovest della Siria, ma almeno gli aiuti sono arrivati nelle aree colpite sulla costa e nella città di Aleppo, coordinati dalla Mezzaluna Rossa arabo-siriana e dal CICR. Ritenendo però insufficienti tali misure, le organizzazioni di attivisti civili hanno deciso di aggirare il blocco del regime nel nord-ovest della Siria per inviare denaro. Molte persone hanno così cominciato a donare tutto ciò che potevano in contanti o oro, creato subito delle reti per consegnare il denaro nel modo più efficiente; soprattutto attraverso agenti fidati che operano nelle diverse aree con il sistema hawala.
L’altro aspetto interessante è stata la quasi totale scomparsa dei discorsi pieni d’odio sui vecchi e nuovi media. E non solo sono scomparsi, ma sono stati rapidamente sostituiti da appelli che richiamavano al sostegno reciproco e alla solidarietà. Da un giorno all’altro, in Siria Facebook si è trasformato da un campo di battaglia mediatico a uno spazio per le iniziative di solidarietà.
L’auspicio di tutti era quello di non politicizzare l’emergenza post-terremoto. È così che le raccolte fondi online hanno cominciato a diffondersi ovunque, mentre sono stati attivati database per le persone scomparse centralizzando l’accesso alle informazioni. Poi è accaduto una cosa senza precedenti. Molte persone nelle aree controllate dal regime hanno iniziato a condividere appelli per la raccolta fondi per i Caschi Bianchi e il Molham Volunteering Team (due Ong tradizionalmente considerate vicine all’opposizione). Accusati solo pochi mesi prima di essere terroristi di Al-Qaeda, le squadre di ricerca e soccorso dei Caschi Bianchi sono state salutate come veri e propri eroi, e in molti hanno condiviso le loro foto. I media filogovernativi sono stati quindi costretti a includere il numero di vittime relativo a ogni area del paese. Si sono subito formati gruppi WhatsApp per avere notizie sull’incolumità e lo stato di salute di amici e famiglie, ma anche gruppi di coordinamento per gestire l’emergenza, condividere esigenze prioritarie, oltre ad elaborare proposte comuni.
Un movimento di solidarietà nazionale dopo il terremoto
A otto mesi dal sisma, sul web non circolano più messaggi di questo tipo, o c’è una sorta di silenzio. Oggi la sfida principale del dopo terremoto è quella di far durare quel movimento di solidarietà o almeno ripartire da qui. I siriani hanno dimostrato che i confini della guerra sono artificiali, e che hanno a cuore quanto accade intorno a loro. In questo contesto, il ruolo che svolgono le organizzazioni della società civile è di primaria importanza. In realtà, la società civile siriana è stata regolarmente l’ultima linea di difesa per proteggere il tessuto sociale siriano dopo il 2011. La società civile ha portato avanti la maggior parte delle iniziative di pace, trovando una nuova solidarietà con il movimento rivoluzionario nato nel marzo 2011.
Per prima cosa però, non vanno chiusi i canali aperti durante l’emergenza terremoto in modo da poterli utilizzare per condividere informazioni, sviluppare migliori pratiche d’intervento e, non ultimo, lavorare su iniziative comuni. Bisogna puntare sui rapporti tra le persone attraverso i social, le reti tribali e i legami familiari. In secondo luogo, bisogna rafforzare l’accoglienza e il riconoscimento, dando risalto agli esempi di successo. Un approccio incentrato sulle vittime, basato sui diritti e attento alle questioni di genere deve diventare il principio guida per chiunque opera all’interno della società civile. In terzo luogo, bisogna incoraggiare il dialogo tra gli attivisti civili perché è solo attraverso il dialogo che si possono trovare soluzioni ai conflitti locali, oltre a una migliore comprensione dei bisogni e delle priorità in ogni settore. Infine, si dovrebbe tentare una collaborazione di esperti nei vari settori prioritari quali: sanità, settore WASH (acqua e igiene) e istruzione. Oltre a valutazioni d’ordine generale dei bisogni, una programmazione congiunta è possibile solo laddove esiste una volontà.
Per l’emergenza post-terremoto, il popolo siriano ha accolto favorevolmente un movimento di solidarietà nazionale. Spetta ora alle organizzazioni della società civile raccogliere il testimone e farne dei punti fermi per la stabilità e l’efficacia di questo nuovo movimento. Opportunità come questa sono molto rare nel corso di questa guerra, per questo è tempo di agire!
1La hawala è un sistema informale di trasferimento di valori basato sulle prestazioni e sull’onore di una vasta rete di mediatori, localizzati principalmente in Medio Oriente, Nord Africa, nel Corno d’Africa ed in Asia meridionale. [NdT].