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La terra più amata: la questione palestinese in letteratura

Pubblicata per la prima volta nel 1988, arriva nelle librerie italiane la terza edizione dell’antologia curata da Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco e Pino Blasone, “La terra più amata”. Un omaggio, e un prezioso strumento di conoscenza, in cui la questione palestinese è presentata attraverso alcune delle voci più autorevoli della sua letteratura e poesia contemporanea.

Hanging Orange Tree (2015).
Wikimedia Commons/Leighklotz

Il volume La terra più amata (2024), edito da Manifestolibri e curato da Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco e Pino Blasone, è un’antologia di testi in poesia e in prosa di autori e autrici palestinesi introdotta dalla prefazione di Luce d’Eramo e da un’introduzione alla terza edizione redatta dai curatori. I testi sono suddivisi in due sezioni, l’una dedicata alla poesia e l’altra alla prosa, e preceduti da una breve scheda biobibliografica degli autori e delle autrici, che si rivela essere uno strumento utile al lettore al fine di inquadrarne temporalmente e geograficamente il vissuto.

La storia editoriale del volume, tra continuità e novità

Pubblicata per la prima volta nel 1988 per Il Manifesto e poi riveduta e aggiornata nella seconda edizione del 2002 per Manifestolibri, la terza edizione della raccolta presenta importanti modifiche sul fronte del corpus di testi selezionati, esplicitate dai curatori nell’introduzione. Ciononostante, si pone idealmente in continuità con le precedenti edizioni, poiché ne conserva inalterato il nucleo tematico e l’idea editoriale alla base, vale a dire la volontà di presentare la condizione del popolo palestinese attraverso alcune delle voci più importanti del suo panorama letterario. Ciò viene confermato dalla scelta di riproporre la prefazione dell’edizione del 1988 della scrittrice Luce d’Eramo (1925-2001), mantenuta anche nella seconda edizione del 2002, “non solo perché è una rigorosa interpretazione dei testi letterari, ma anche perché è la testimonianza della passione personale e dell’immedesimazione con gli ultimi che la sua storia e la sua scrittura hanno rappresentato e rappresentano”.

Questa continuità ideale, però, non si limita a un semplice filo logico e tematico che unisce le tre edizioni dell’antologia, ma fa eco ad alcuni degli avvenimenti più importanti della storia recente della Palestina. La prima edizione è stata pubblicata nel 1988, l’anno della dichiarazione di indipendenza della Palestina. Il documento, redatto dal celebre poeta palestinese Maḥmoud Darwish (1941-2008) e approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese, proclamava l’indipendenza dello Stato di Palestina, eleggendo l’allora leader dell’OLP Yasser Arafat (1929-2004) presidente. La seconda edizione è uscita, invece, nel pieno della Seconda intifada (2000-2005), la rivolta palestinese innescata dalla visita di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme e poi diffusasi nel resto della Palestina. Infine, la terza edizione è successiva a un nuovo riaccendersi della crisi.

Il legame con la memoria, uno dei temi principali della produzione letteraria palestinese contemporanea, con la storia recente di questa porzione di mondo emerge prepotentemente dalla lettura dei testi, attraverso i quali è possibile ricomporre i tasselli di una questione annosa il cui inizio viene fatto convenzionalmente coincidere con la dichiarazione di indipendenza di Israele del 15 maggio 1948. Questo evento portò a un’intensificazione dell’esodo forzato del popolo palestinese, cominciato sul finire del 1947, che la storiografia araba identifica con il termine Nakba (letteralmente “catastrofe”). Le possibilità di lettura di questa antologia – che pure non si limitano alla sola dimensione documentaristica – toccano quindi i piani della storia orale, della cronaca e dell’idioma della Nakba. Ciò è confermato dalla citazione di Maḥmoud Darwish in esergo alla sezione di poesia:

Abbiamo un paese che è di parole.
E tu parla, ch’io possa
fondar la mia strada su pietra di pietra.
Abbiamo un paese che è di parole, e tu parla, così da conoscere dove
abbia termine il viaggio”.

I testi selezionati, infatti, restituiscono ai lettori e alle lettrici uno sguardo precipuamente palestinese sul tema attraverso un caleidoscopio di sensibilità umane e artistico-letterarie.

Il corpus, pur essendo stato ampiamente rivisitato per accogliere testi più recenti, alcuni dei quali pubblicati sui profili social degli stessi autori, mantiene, come si diceva, un filo logico e tematico forte che spazia tra i temi cari alla produzione letteraria palestinese contemporanea.

Vivere la morte

Tra i temi toccati dal volume troviamo l’esilio, l’espropriazione – tanto delle case quanto delle identità –, il ritorno e la memoria. A questo nucleo tematico si aggiungono poi testi, molti dei quali più recenti, che si concentrano sulla situazione attuale di Gaza.

Tra questi, particolarmente intensi sono i tre componimenti di Hiba Abu Nada, pubblicati sul profilo Facebook dell’autrice, che ruotano attorno al tema dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, di cui la stessa autrice è caduta vittima, perdendo la vita il 20 ottobre 2023. In La notte di Gaza la poetessa, con una rara capacità di sintesi, restituisce un’immagine vivida di una notte che

è buia
a parte il bagliore dei razzi,
silenziosa
a parte il fragore delle bombe,
terrificante
a parte il conforto della preghiera,
nera
a parte la luce dei martiri.

Il senso di impotenza e di incertezza che caratterizza questo componimento diviene in Noi di Gaza accettazione dell’incombenza della morte, in quanto "abbiamo iniziato/ a ricostruire la città/ lassù in Paradiso”, perché “In cielo, la nuova Gaza è libera dall’assedio./ Sta prendendo forma adesso”.

Il sopraggiungere della fine è il tema attorno al quale ruota Rifugio, pubblicata il giorno della morte dell’autrice. La poesia, imperniata sulla realtà dei bombardamenti, pare, per una tragica ironia della sorte, predire la morte della poetessa, che avverrà di lì a poche ore. Ciononostante, si conclude con una flebile luce di speranza, poiché

Ti regalo un rifugio nel sapere
che la polvere si diraderà,
e coloro che si sono innamorati
e sono morti insieme
un giorno rideranno.

La brevità e la crudezza delle immagini caratterizzano anche le poesie di Ibrahim Nasrallah, in particolare Ragazzo 6 in cui

Il carro armato cerca un passaggio
Attraverso il corpo del bambino
Non lo trova
Lo schiaccia finalmente.

Questo componimento colpisce per la brutalità della scena, accresciuta dal tono ironico usato dall’autore e dalla scelta di un bambino come protagonista, che restituisce l’idea della caducità della vita umana.

La riflessione sulla morte è il punto cardine di Non c’è niente di male di Murid Barghuthi, una poesia costruita sull’opposizione tra la morte violenta, realtà quotidiana, e quella serena, a cui il poeta e il popolo palestinese anelano, poiché, sostiene

Non c’è male se moriamo di una morte senza polvere
senza fori sulle nostre camicie
senza prove
sul torace [...]
indifferenti alla storia
lasciamo il mondo così come è
forse, qualcun altro
lo cambierà.

Quello dell’uccisione è un tema che ricorre anche in La casa assassinata di Mahmoud Darwish, in cui il poeta inverte il paradigma usuale, per cui è la persona a perdere la propria casa, e ponendo al centro l’abitazione, intesa tanto in senso proprio quanto figurato, come metafora di appartenenza e radicamento alla terra di origine. Il concetto alla base del componimento viene esplicitato già nei primi versi e stupisce per nitore. Darwish afferma che

Uccidere
la casa è genocidio, anche se senza
abitanti. [...]
Uccidere la casa è
amputare le cose dalle relazioni, dai nomi
delle emozioni [...]
Le case si uccidono
come si uccidono i loro abitanti.
E si uccide la memoria delle cose.

Dopo questa dichiarazione l’autore presenta, con stile cinematografico, una carrellata di oggetti pregni di ricordi e di un’idea di “casa”, intesa come ambiente sicuro e pacifico, che sono investiti ciascuno in modo diverso dalla devastazione che irrompe.

La correlazione che emerge tra l’abitazione e la memoria non è casuale e risente indubitabilmente di quello che lo storico israeliano Ilan Pappé ha definito “memoricidio”, vale a dire un programmatico piano dei quadri israeliani di riorganizzazione urbanistica e paesaggistica dei territori conquistati nel 1948.

Il ricorso alla memoria e la speranza del ritorno

Posti di fronte all’esproprio delle case e dell’identità, il ricorso alla memoria diviene il fondamento su cui costruire la propria vita, nella speranza del ritorno. Questo tema viene affrontato nel brano in prosa Memoria di Salman Natur che si configura come una riflessione sui ricordi, venata di pessimismo. La pervasività degli eventi che hanno segnato la storia recente della Palestina è evidente sin dalle prime righe, in quanto l’autore, ripercorrendo la sua vita, afferma

Sono nato dopo la guerra del 1948.
Ho iniziato la scuola il giorno della guerra di Suez.
Ho finito la scuola superiore durante la guerra dei Sei giorni.
Mi sono sposato durante la guerra di Ottobre.
Il mio primogenito è nato durante la guerra in Libano.
Mio padre è morto mentre infuriava la guerra del Golfo.

Questi avvenimenti traumatici diventano parte integrante di un vissuto condiviso, punto di riferimento per la memoria personale oltre che collettiva, perché “I particolari delle nostre storie personali non interessano nessuno, viviamo come gli altri e come gli altri moriremo”, eppure “Ci piace sostenere di essere cresciuti senz’infanzia, per confermare il nostro straordinario eroismo e collocarci fuori della storia”.

Nonostante il tentativo di rinunciare ai propri ricordi personali in favore di quelli della collettività, la memoria viene qui presentata come un’entità capricciosa che “Non esegue i miei ordini, non mi accontenta, cancella e conserva ciò che vuole, e ha potere su ogni cosa”.

La memoria è un tema che si lega a doppio filo a quello del ritorno, inteso come speranza opposta dalle generazioni di palestinesi reduci della Nakba allo sradicamento dalla propria terra e dalla propria abitazione. Dai brani presenti nell’antologia, infatti, si può evincere che questo allontanamento fosse percepito inizialmente dal popolo palestinese come uno stato temporaneo e transitorio, dovuto alla contingenza del conflitto. “I miei poveri nonni pensavano che l’immigrazione ebraica sarebbe durata una settimana o al massimo un paio d’anni. Erano persone molto semplici, non avevano studiato e non capivano il gioco che Israele e i suoi alleati giocavano. Alla fine, i miei nonni morirono ma sognarono fino all’ultimo il loro ritorno” , riporta, infatti, Shahd Abusalama nel testo in prosa Palestine from my Eyes. Col passare delle generazioni, però, questa speranza è lentamente degradata in disillusione. Ne è testimonianza, per esempio, quanto afferma Salman Abu Sitta in La mappa del mio ritorno, quando, raccontando del momento in cui lasciò la Palestina insieme a un gruppo di amici, sostiene: “Scrutai l’orizzonte dietro di me, ricordando i luoghi che mi avevano visto nascere, giocare, andare a scuola, mentre scomparivano alla vista, piano piano.

Non pensavo che quella partenza inaspettata sarebbe stata una separazione lunga: solo un soggiorno in un altro posto, per un poco. [...] Non avrei mai immaginato che non avrei più rivisto questi luoghi, che non sarei più potuto ritornare alla casa dove sono nato”. Non mancano, però, testimonianze di persone che hanno fatto ritorno alle proprie vecchie case, seppur solo in visita, come nel caso del breve brano La bambola di Dvora di Raymonda Hawa Tawil, estrapolato dalla sua autobiografia. L’autrice racconta che nel 1953 era stata invitata da Dvora, una sua compagna di classe ebrea a cui era molto affezionata, nella sua casa a Haifa.

L’invito porta, però, a un’amara scoperta, ossia che la famiglia di Dvora occupava la casa della zia dell’autrice, la quale “era fuggita in Libano durante i combattimenti, credendo di assentarsi per qualche settimana soltanto. Terminata la guerra, non fu mai autorizzata a ritornare”. Nel rientrare nella casa, un turbine di emozioni investe l’autrice, dapprima la gioia, data dalla scoperta che i quadri e il pianoforte della zia erano ancora al loro posto e dal ritrovamento di una bambola con la quale era solita giocare. Ben presto la gioia lascerà spazio alla tristezza. “Mi resi conto che era la casa che non riconosceva più me”. Le parole della famiglia di Dvora, giunta dalla Polonia e sfuggita alle atrocità di Auschwitz, sono colme di speranza per il futuro: “Presto i profughi avranno l’autorizzazione a ritornare alle loro abitazioni… e il nostro governo costruirà per noi nuove case… Allora gli Ebrei e gli Arabi vivranno insieme in pace”. Ma, conclude l’autrice: “Erano ingenui quanto me; non conoscevamo, né loro né io, le vere intenzioni del loro governo. Non fu mai permesso a mia zia di ritornare, e la famiglia di Dvora abitò venticinque anni in quella casa”.

Il volume parlerà ai lettori e alle lettrici degli eventi che hanno segnato la storia recente della Palestina attraverso una pluralità di voci e da un punto di osservazione privilegiato che rende conto anche e soprattutto della dimensione umana. Inoltre, l’antologia rappresenta un’importante selezione di scritti che si caratterizzano per il loro valore artistico e, giunta ormai alla sua terza edizione, si configura come un ottimo strumento per approcciarsi alla letteratura palestinese contemporanea ed esplorarne alcuni dei leitmotiv.