Migrazioni

Le lunghe ombre della Fortezza Europa

Secondo le Nazioni Unite, dal 2013 più di 28mila persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste di un’Europa ormai diventata una fortezza inespugnabile. Ma il bilancio potrebbe essere ancora più drammatico.

L'immagine rappresenta una mappa stilizzata che mostra una parte dell'Europa e dell'Africa. Al centro, si vede una struttura che somiglia a un murale o a un forte, costruito con blocchi bianchi. Da questa struttura, si estendono tre frecce rosse che puntano verso il continente africano. I nomi "AFRICA" e "ASIA" sono scritti in caratteri evidenti, suggerendo un tema geopolitico o di esplorazione. Il design sembra dare l'idea di una connessione tra le diverse regioni, evidenziando l'importanza delle relazioni tra Europa e Africa.
Fortress Europe

Il 3 ottobre 2013 in un naufragio a largo di Lampedusa annegarono 368 persone partite dalla Libia a bordo di un peschereccio: solo 155 riuscirono a salvarsi, tra cui 6 donne e 2 bambini.

Quel drammatico evento sconvolse profondamente l’opinione pubblica italiana e spinse il Governo di allora a destinare ingenti mezzi per evitare altre tragedie in mare e contrastare il traffico di esseri umani. L’iniziativa, chiamata “Mare Nostrum”, in un anno di attività ha salvato più di 160mila vite, arrestato circa 400 presunti scafisti e sequestrato una decina di navi. Da allora sono cambiate parecchie cose. In peggio. Dal 2014 l’agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex ha condotto diverse operazioni militari per monitorare e limitare i flussi migratori (Triton, Sophia, Themis, Irini) che hanno reso i confini di questo immenso continente liquido sempre più pericolosi per chi tenta di attraversarli.

Nonostante la giurisdizione internazionale preveda l’obbligo di aiutare gli equipaggi in difficoltà e di garantire loro un approdo rapido e sicuro, non esiste alcun protocollo internazionale di coordinamento delle missioni umanitarie e le ONG che effettuano salvataggi in mare sono spesso criminalizzate con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Il progressivo inasprimento di questo approccio securitario ha trasformato il Mediterraneo in un’enorme fossa comune: secondo le Nazioni Unite, da quel tragico 3 ottobre più di 28mila persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste di un’Europa ormai diventata una fortezza inespugnabile.

Solo nel 2023 i morti sono stati complessivamente 5.270: 239 nelle rotte “di terra” e 5.032 in mare, con una media di 14,4 decessi al giorno. Nel Mediterraneo centrale le vittime sono state 1.965, in quello orientale 736, di cui circa 650 nel terribile naufragio avvenuto il 14 giugno scorso a Pylos1.

Ma il bilancio potrebbe essere ancora più drammatico. Oltre a questi decessi registrati esiste, infatti, un popolo di dispersi, di “nuovi desaparecidos” che svaniscono senza lasciare traccia. In Italia mancano all’appello migliaia di persone e nei loro Paesi di origine sono sempre più numerose le famiglie che tentano disperatamente di ritrovarle.

Mentre il nostro governo strumentalizza l’immigrazione con la retorica dell’invasione e dell’emergenza e l’opinione pubblica sembra desensibilizzata da un’informazione che trasforma profughi e richiedenti asilo in pericolosi clandestini da temere e allontanare, una parte della società civile lotta per condannare mandanti, complici ed esecutori di questa epocale catastrofe umanitaria. Il lavoro svolto dal giornalista Emilio Drudi è esemplare: nel suo studio a pochi chilometri da Roma da oltre dieci anni monitora quotidianamente fonti italiane e internazionali per tenere traccia del numero delle vittime, delle partenze, degli arrivi, dei naufragi, dei respingimenti e dei mancati soccorsi riscontrando, spesso, cifre ben superiori rispetto a quelle diffuse dall’OIM e dall’UNHCR. Già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, Drudi nel 2015 ha fondato il Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos del Mediterraneo per dar voce a quegli “invisibili tra gli invisibili” che sono completamente rimossi e denunciare le pesanti responsabilità italiane ed europee in questa indiscriminata strage di innocenti.

Vecchi e nuovi fronti di crisi

Le persone in fuga da guerre, carestie, disastri ambientali, dittature e feroci persecuzioni aumentano con il moltiplicarsi delle aree di crisi, dall’Afghanistan alla Siria, dal Kurdistan allo Yemen, passando per la Libia e i Paesi subsahariani. “Il Sahel è una bomba a orologeria”, precisa il giornalista. “Non solo per i molti conflitti armati in corso e i frequenti colpi di stato, che nell’ultimo anno sono stati almeno cinque, ma anche per altri fattori, altrettanto gravi e preoccupanti. In 15 anni ci sono state tre siccità, tre carestie, due devastanti invasioni di locuste e per effetto dei cambiamenti climatici la produttività dei terreni agricoli si è ridotta dell’80 per cento. Come possiamo considerare chi parte da quelle zone un migrante economico?”

La totale assenza di canali di emigrazione legali espone milioni di persone a ogni tipo di maltrattamento, ricatto, violenza fisica e psicologica da parte dei trafficanti che organizzano viaggi estenuanti e spesso mortali, con il tacito accordo dell’Unione europea che sempre più spesso affida a regimi autoritari il compito di bloccare i flussi.

Le conseguenze delle politiche di esternalizzazione dei confini

Applicando i principi stabiliti dal Processo di Rabat del 2006, da quello di Khartoum del 2014 e dal Vertice di Malta del 2015, l’Italia e l’Europa hanno siglato diversi accordi con alcuni Paesi del Maghreb e del Vicino Oriente delegando alle loro polizie nazionali il compito di impedire le partenze dei migranti. A nessuno importa quali siano i mezzi impiegati e che destino spetti a queste persone che, di fatto, vengono costrette a tornare nelle drammatiche situazioni dalle quali erano fuggite. “È come se l’Europa avesse esteso i propri confini sempre più a Sud, alle sponde meridionali del Mediterraneo e addirittura a terra, alle soglie del Sahara, dove in migliaia sono lasciati morire di fame e di sete tra le dune del deserto”, commenta Drudi.

Durante un'operazione di salvataggio in mare.
Durante un’operazione di salvataggio in mare.
Foto di Sea Watch.

Il Memorandum tra Italia e Libia del 2017 è un tassello fondamentale del processo di normalizzazione delle violazioni del Diritto internazionale che si verificano sistematicamente nel Paese nordafricano e soprattutto nel suo Spazio Sar (Search and Rescue), da molti considerato una finzione. Il conflitto armato in corso dal 2011 e i trattamenti inumani e degradanti riservati ai migranti, più volte denunciati dall’ONU e da numerose ONG, escludono, infatti, che il Paese possa essere considerato quel porto sicuro dove far sbarcare i naufraghi previsto dalle normative internazionali.

“Sappiamo, inoltre, che le strutture dello Spazio Sar libico sono inesistenti e che di fatto sono tenute in piedi dall’Italia, che fornisce strumenti di comunicazione e imbarcazioni”, spiega Arturo Salerni, avvocato penalista presidente del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos del Mediterraneo. “Siamo di fronte a un meccanismo neanche tanto mascherato di respingimento pur essendo esplicitamente vietato sia dalla nostra Costituzione, che considera il diritto di asilo uno dei principi fondamentali che va rispettato il cui nucleo essenziale è proprio il principio di non respingimento, sia dalle convenzioni internazionali, innanzitutto quella di Ginevra, e dalle normative europee. Ma è evidente che il modello europeo si sta rimodellando e di fatto sta espungendo dal suo interno la sacralità e la centralità del diritto all’accoglienza di persone che fuggono da situazioni di guerra, pericolo, persecuzioni e violenze di ogni tipo”.

In questa situazione può configurarsi un delitto di lesa umanità e per questo il Comitato ha chiesto di indagare alla Procura presso la Corte dell’Aia.

Tra i molteplici episodi denunciati dal Comitato c’è il naufragio avvenuto tra il 14 e 15 dicembre scorso al largo di Zuwara che ha causato la morte di 61 persone costringendone altre 25 a tornare in Libia dopo l’intervento di una nave italiana del Centro di Coordinamento per il Soccorso in Mare (MRCC). “A che titolo è stata effettuata questa operazione di rimpatrio forzato?”, si chiede Drudi. Il Comitato ha recentemente sollevato anche un altro caso davanti alla Procura di Roma risalente all’estate 2021, quando un barcone con circa 180 persone a bordo si è fermato per un’avaria in acque internazionali nella stessa zona. La MRCC Italia inviò una nave a servizio delle piattaforme Eni che, però, si è fermata a qualche centinaio di metri di distanza senza intervenire. Otto naufraghi, allora, si sono tuffati per raggiungerla a nuoto e l’equipaggio è stato costretto a farli salire e ad avvicinarsi all’imbarcazione in panne per recuperare anche gli altri passeggeri. Invece di rimettersi in moto, tuttavia, la nave è rimasta ferma per ore fino all’arrivo di una motovedetta libica che ha effettuato un respingimento forzato. “Chi ha dato queste disposizioni?” si interroga il giornalista.

Sempre più frequente è, inoltre, l’impiego di navi mercantili per respingere i migranti, come nel caso di 6 naufraghi intercettati nella zona di confine tra la Sar libica e la Sar maltese a metà gennaio. “L’ultima posizione dell’imbarcazione risale al 19 gennaio”, riferisce Drudi. “Dove si trova ora? E dove finiranno quelle persone?”.

In Italia nel 2023 ci sono stati 140mila sbarchi, il 91 per cento dei quali provenienti dalla Tunisia. Per fronteggiare la situazione il 20 ottobre il ministero dell’interno ha reso noto un accordo siglato con il Paese magrebino che stabilisce vie di immigrazione legali per circa 4mila lavoratori qualificati all’anno destinati al lavoro subordinato non stagionale. Il protocollo che la premier italiana ha recentemente stretto con il presidente albanese, da molti giuristi considerato incostituzionale e attualmente sospeso, prevede, invece, che le imbarcazioni intercettate in acque internazionali siano dirottate verso due centri gestiti da personale italiano nel Paese extraeuropeo dove saranno avviate le procedure di riconoscimento e di asilo.

Le persone eleggibili saranno riportate in Italia mentre le altre saranno rimpatriate entro un tempo limite, scaduto il quale saranno rimesse in libertà ma non è ancora chiaro dove. La complessità e l’anti economicità di questa operazione sono evidenti, come è evidente che si tratti dell’ennesima narrazione ideologica del governo per meri fini elettorali.

Per Emilio Drudi si tratta di “un bluff che esporta un lager con mentalità coloniale”, come coloniale è l’approccio che l’Europa continua ad avere nei confronti di tutti quei Paesi che considera subalterni e del fenomeno migratorio in generale. Talvolta, a interrompere questi rapporti di potere asimmetrici sono gli stessi governi del Sud, come nel caso della giunta militare salita al potere in Niger con un colpo di stato lo scorso luglio che ha recentemente annullato una legge del 2015 che trasformava il Paese in un grande hub di contenimento dei migranti subsahariani. Quell’accordo obbediva alle logiche e alle necessità europee e ha sconvolto tutta la libertà di movimento e paralizzato interi settori dell’economia di un Paese che è da sempre uno snodo fondamentale della mobilità africana, non solo verso la Libia. Solo il 10-12 per cento delle persone che attraversano quei territori, infatti, è diretto verso Nord.

Anche il “partenariato strategico” firmato a luglio 2023 tra l’Unione europea e il presidente tunisino Kaïs Saïed è saltato per volere di quest’ultimo. Secondo il Forum Tunisien pour les droits economiques et sociaux, l’intesa prevedeva il pagamento di 127 milioni di euro in cambio del suo impegno a impedire le partenze dei migranti e per il rimpatrio dei suoi cittadini arrivati irregolarmente in Europa, ma i primi 60 milioni di euro versati a settembre dall’EU sono stati rifiutati da Saïed che ha parlato di “elemosina”, facendo saltare l’accordo.

L’ambiguità dell’Europa

Il traffico di esseri umani frutta un giro d’affari milionario i cui attori principali sono da tempo noti alle autorità internazionali. Lo scorso gennaio è stato arrestato in Etiopia Kidane Zekarias Habtemariam, un cittadino eritreo che gestiva la rotta orientale che dal Corno d’Africa arriva in Libia ed è conosciuto come “il boia di Bani Walid”, uno dei lager teatro delle più atroci torture. Riferisce Drudi:

Kidane era ricercato dall’Interpol dal 19 ottobre 2021 su richiesta del Governo dell’Aia per un altro procedimento aperto in Olanda su istanza di profughi eritrei. È stato condannato a 18 anni di carcere e a 4.600 dollari di ammenda ma durante il processo è riuscito a fuggire, a piedi, dal tribunale di Addis Abeba e si sospetta che sia tornato in Libia.

Altri due potenti trafficanti eritrei sono Tewelde Goitom, detto “Welid”, e Abduselam Ferensawi, “che secondo un’inchiesta della Procura di Palermo avrebbe degli agganci anche in Italia”, aggiunge.

In Libia i due criminali più influenti sono Al Dabbashi e Abdl al Rahman, detto Bija. Al Dabbashi risulta essere a capo di un grosso clan familiare che opera tra Sabratha e Zawiya. Il trafficante ha svolto un ruolo di rilievo nella guerra per il controllo di Tripoli accanto al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’Italia, e ha garantito per anni la sicurezza dell’impianto Eni di Mellitah. Insieme alla Brigata 48, il suo clan nel 2017 ha concluso un accordo con il ministro degli interni italiano Minniti per il controllo dei flussi migratori che ha proprio a Sabratha e Zawiya i suoi due punti nevralgici.

Bija, invece, è l’ex capo della milizia di Sabratha e gestisce enormi affari tra migranti e petrolio. Spiega Drudi:

A maggio 2017 è stato accolto ufficialmente in Italia: si è sempre parlato di una visita segreta ma, in particolare al CARA di Mineo, è stato ricevuto da funzionari del ministero degli interni nonostante fosse ricercato dall’Interpol e indicato da documenti Onu e da un dossier del Centro Alti Studi del Ministero della Difesa come l’ufficiale della guardia costiera libica maggiormente coinvolto in affari illeciti e violazioni dei diritti umani.

Arrestato in Libia nel 2020, Bija è stato scarcerato dal governo di Tripoli nel 2021 e ha fatto una rapida carriera nella Guardia Costiera, diventando in pochi mesi uno degli ufficiali dell’Accademia della Marina, che è finanziata anche con fondi italiani ed europei.

Mentre le istituzioni chiudono un occhio, o addirittura stringono alleanze, con i principali trafficanti del Mediterraneo, le Organizzazioni Non Governative che si occupano delle operazioni di salvataggio sono accusate di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. A febbraio 2023 il Senato italiano ha approvato definitivamente la conversione in legge del cosiddetto “decreto ONG” che prevede che le navi civili possano compiere una sola operazione di salvataggio per ogni missione in mare e fissa nuove sanzioni per chi viola queste disposizioni, tra cui multe fino a cinquantamila euro e sequestri che vanno da 20 giorni alla confisca del mezzo.

Arturo Salerni, che segue molte cause intentate contro le ONG, tra cui la spagnola Open Arms spiega:

Assistiamo ogni giorno alle conseguenze devastanti di questo decreto che sostanzialmente rallenta e rende più difficoltose le attività di soccorso in mare, come se fossero attività criminali o comunque pericolose [...] Il primo elemento, che sembra quasi un assurdo, è che non si può più perlustrare una zona in cui ci sono diverse situazioni di pericolo e intervenire una seconda volta dopo aver completato un primo salvataggio perché il centro di coordinamento e soccorso italiano, se la nave è presa in carico all’Italia, indica un porto verso il quale la nave è obbligata a dirigersi il più rapidamente possibile.

Un altro elemento, non esplicitato nel provvedimento legislativo ma che corrisponde alla condotta del ministero dell’interno, è la tendenza a scegliere porti sicuri sempre più lontani dal punto di salvataggio rendendo più difficile la singola attività di soccorso e creando un contrasto con le indicazioni delle convenzioni internazionali che prevedono che in naufraghi siano sbarcati il più rapidamente possibile. Salerni continua:

Questo allontana dalle zone Sar 1 e Sar 2 le navi per un periodo di tempo notevole, limitando le possibilità di salvataggio di altre vite umane creando, inoltre, enormi difficoltà agli equipaggi che da un lato hanno l’obbligo di soccorrere e dall’altro devono sottostare all’autorità, rischiando altrimenti denunce, cause e provvedimenti.

Armi di dissuasione di massa: riammissioni, respingimenti, rimigrazioni

I respingimenti sono sempre più frequenti anche nel territorio europeo. In Grecia i passeggeri delle barche provenienti dalla Turchia sono costretti a scendere su zattere di salvataggio trascinate o spinte fino alle acque territoriali turche, come è appena accaduto a 22 profughi palestinesi intercettati nell’Egeo secondo la testimonianza di Aegean boat report [https://aegeanboatreport.com/]. L’Italia effettua “riammissioni” forzate rinchiudendo le persone sbarcate sulle coste adriatiche in container, bagni o altri locali di servizio ricavati nella stiva dei traghetti di linea in partenza verso la Grecia. Questi respingimenti avvengono a prescindere dalla provenienza e dalla storia di chi li subisce, che non ha neanche il tempo di dichiarare la propria nazionalità e chiedere di avviare le procedure di asilo. “Il nostro Paese ha già ricevuto una condanna dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ma la situazione non è cambiata: secondo i dati forniti dalle autorità greche, negli ultimi due anni sono state espulse in questo modo più di 230 persone, tra cui almeno tre minori”, riferisce Drudi.

Fonte: Mediterranea Saving Humans.
Fonte: Mediterranea Saving Humans.

Un’inchiesta pubblicata sul sito di giornalismo investigativo Correctiv ha da poco denunciato un progetto segreto di “rimigrazione” ideato dal partito tedesco di estrema destra Afd e da esponenti neonazisti per la deportazione in un imprecisato “Stato modello africano” di circa due milioni tra “richiedenti asilo, persone immigrate e cittadini non assimilati”, ossia di seconda o terza generazione. Dopo la diffusione della notizia, in migliaia si sono mobilitati in oltre cento città della Germania per protestare contro l’iniziativa. Il dato è particolarmente preoccupante se si considera la tendenza di molti governi europei a orientarsi sempre più verso l’estrema destra. “La politica migratoria di un Paese è la cartina di tornasole che indica lo stato di salute della sua democrazia”, conclude Drudi.

Introdurre e sostenere atteggiamenti razzisti, diffondere un linguaggio discriminatorio, negare l’evidenza e mistificare fatti gravissimi fino a disumanizzare l’altro dimostrano il processo di imbarbarimento politico e istituzionale in corso ormai da decenni. Lontano dai riflettori e dalla coscienza delle persone accadono cose gravissime che minano i valori fondamentali su cui si basa l’idea stessa di Europa: non devono rimanere nell’impunità come accadde durante le dittature argentina e cilena per i desaparecidos.

1Fonte: Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos.