Intervista

Le “Università Popolari” per Gaza: come il movimento studentesco sta reclamando il suo spazio

Ciò che il movimento studentesco negli Stati Uniti e nel mondo sta portando avanti non è solo una forma di opposizione al genocidio in corso a Gaza, ma anche un esperimento di riappropriazione degli spazi del sapere e di produzione di una conoscenza alternativa, radicata nelle lotte anticoloniali del passato e nella critica al sistema imperialista e colonialista. “Il movimento sta liberando la Palestina, ma anche la Palestina sta liberando il movimento”, scrive Mjriam Abu Samra.

UntoldMag/Joe Piette

Mjriam Abu Samra è una ricercatrice italo-palestinese che ha lavorato a lungo sui movimenti studenteschi palestinesi transnazionali e su come abbiano contribuito al più ampio movimento di liberazione nel corso della storia. Abu Samra è parte attiva delle mobilitazioni nei campus universitari in California, dove attualmente risiede e porta avanti i suoi studi post-dottorali all’Università di California, Davis. Con lei abbiamo parlato delle mobilitazioni studentesche negli Stati Uniti e in particolare in California, e di cosa questi movimenti rappresentino per le lotte di liberazione presenti e future.

Untold — Cosa sta succedendo nei campus americani, e in California in particolare, dove si trova adesso?

Mjriam Abu Samra — Negli ultimi due mesi oltre 150 università in tutti gli Stati Uniti hanno visto la creazione di accampamenti studenteschi come forma di protesta organizzata e strutturata contro l’attuale genocidio in corso a Gaza e più in generale contro il progetto coloniale in Palestina. È difficile fornire numeri precisi sulla partecipazione studentesca al movimento: si tratta di una mobilitazione davvero ampia, che vede il contributo di studenti di diverse comunità e provenienti da background socio-economici differenti. E’ un movimento che sta raggiungendo anche altri settori della società, e che gode del supporto e del sostegno di queste comunità. L’escalation nel dissenso è radicata nella forte repressione che hanno vissuto gli studenti nel corso di questi mesi per il loro tentativo di esprimere sostegno al popolo palestinese, denunciare le complicità statunitensi nelle pratiche genocidiarie coloniali israeliane e nel processo di pulizia etnica a cui è sottoposto da decenni.

Gli accampamenti sono un modo concreto per riappropriarsi degli spazi della formazione e mettere in discussione la cooperazione delle istituzioni universitarie con il sistema militare, economico e culturale israeliano. Questa complicità si manifesta attraverso partnership economiche, condivisione nel comparto militare e cooperazione accademica, tutti elementi che contribuiscono allo sviluppo e all’espansione della macchina bellica israeliana, dei sistemi tecnologici di sorveglianza, e dei meccanismi di sfruttamento di altre risorse (agricoltura, acqua) all’interno della cornice coloniale.

In California, così come altrove negli Stati Uniti, gli accampamenti sono intesi non solo come espressioni di dissenso visibile e radicale, ma anche come sforzi e iniziative di pedagogia decoloniale: sono uno spazio liberato di conoscenza che rompe con l’approccio neoliberale all’istruzione, che domina la produzione dei saperi e l’organizzazione delle università non solo negli stati Uniti, ma in tutto il mondo. Questi accampamenti sono in effetti chiamati “Università Popolari”: stanno sfidando la pedagogia mainstream mettendo al centro delle loro pratiche una concezione del sapere e del rapporto di insegnamento e apprendimento trasformativa e liberatoria. Una pedagogia costruita attorno - ed espressione stessa - del pensiero critico degli studenti e delle masse.

Le Università Popolari mettono al centro l’importanza di un sapere decoloniale e di istituzioni decolonizzate che non siano asservite agli interessi neoliberali di attori politici ed economici. Gli studenti stanno sfidando questo sistema che li tiene in considerazione e a loro si approccia solo come consumatori all’interno di un sistema capitalista, e non come agenti di cambiamento sociale e pensatori critici.

Disclose, Divest (“Divulga, Disinvesti”) sono le due parole chiave che sintetizzano le rivendicazioni studentesche a livello nazionale: gli studenti vogliono sapere in che modo le proprie università sono legate alle istituzioni economiche, militari e culturali israeliane, e chiedono un disinvestimento. Oltre a queste rivendicazioni comuni, ogni campus aggiunge specifiche richieste in base al proprio contesto. Stanno chiedendo un boicottaggio accademico totale delle istituzioni israeliane che contribuiscono allo sviluppo della macchina di guerra israeliana. Una terza rivendicazione, fondamentale, è “amnistia” per chi protesta: reclamano il diritto di esprimersi liberamente, che la libertà di manifestazione sia garantita a loro come ad altre componenti della società. Denunciano la brutale repressione che gli è stata imposta, così come tutte le forme di razzismo anti-palestinese, di intimidazione e di molestie che hanno vissuto in questi 7 mesi.

Untold — In che modo questo movimento studentesco si inserisce nella storia statunitense di proteste contro la guerra ed altre mobilitazioni, come Black Lives Matter? Ci sono parallelismi tra questo movimento e le proteste contro la guerra del Vietnam?

Mjriam Abu Samra — I parallelismi con il movimento contro la guerra degli anni Settanta e con le proteste che si opposero al conflitto in Vietnam sono stati fatti sin dal primo giorno. Anzi, i primi a tracciare possibili comparazioni sono stati i docenti che negli anni Settanta erano studenti. Comprendono questa fase storica e la leggono come un altro momento di rottura con il sistema, come accadde allora. Possiamo certamente vedere una continuità nelle pratiche conflittuali dei movimenti sociali, e possiamo tracciare radici comuni che da questi sono condivise: la storia sta rendendo chiaro che il sistema imperialista e capitalista non è sostenibile. La ciclica riemersione di movimenti che si oppongono all’oppressione strutturale dell’attuale ordine economico, sociale e politico, a livello globale, testimoniano la crisi dell’impero e della sua spinta capitalista. Le analisi anti-imperialiste e anti-capitaliste che ispirarono il movimento contro la guerra negli anni Settanta stanno adesso informando questa nuova generazione: Gaza e la Palestina hanno svelato in modo potente le contraddizioni storiche dell’ordine mondiale.

Il movimento Black Lives Matter ha rappresentato un altro momento fondamentale nell’ondata di proteste che continuano ad emergere dal cuore dell’impero, e ha contribuito ad una migliore consapevolezza dei limiti e delle crisi di questo sistema. Ha confermato che l’uguaglianza e tutti quei valori che sono considerati fondativi dell’ordine neoliberale sono un’illusione, un privilegio garantito a pochi, mentre le discriminazioni sistematiche restano la realtà per molti settori della società. Il movimento, oggi, sta capitalizzando tutte le esperienze precedenti e portando avanti la lotta.

Untold — Cosa si sta insegnando in queste Università Popolari per Gaza, e in che modo questa ondata di proteste studentesche si inserisce nella storia del movimento giovanile palestinese in diaspora?

Mjriam Abu Samra — Le Università Popolari sono un’espressione radicale della rottura imposta rispetto all’attuale sistema educativo, e allo stesso tempo il tentativo di articolare una pedagogia alternativa. I corsi che vengono organizzati riflettono gli interessi degli studenti: un sapere critico e un’analisi dettagliata della società basata sulla storia e sull’esperienza dei popoli. Si tratta di un esperimento di pedagogia della liberazione, che mette al centro la letteratura anti-coloniale: le produzioni teoriche di Franz Fanon o Ghassan Kanafani sono la base di partenza per l’analisi della storia contemporanea, ad esempio. Mentre bell hooks o Angela Devis ci forniscono le referenze per l’articolazione di lezioni critiche sul femminismo decoloniale e sulle ideologie della liberazione. Lezioni sui movimenti del Terzo Mondo, sull’internazionalismo, sulle lotte congiunte sono il programma di studio delle Università Popolari. Grande attenzione è riservata alle lotte di classe e sociali all’interno della critica anti-imperialista e anti-capitalista che caratterizza il movimento. Naturalmente il focus principale resta la Palestina, Gaza, e ogni giorno ci sono corsi sulla letteratura, la storia, l’arte, la cultura, l’economia palestinese. L’obiettivo di queste lezioni è rafforzare la consapevolezza del significato che assume questo momento storico, e sviluppare una comprensione solida e critica del progetto coloniale israeliano, tracciando parallelismi con le lotte di altre popolazioni indigene in passato, con la lotta di altri popoli colonizzati nel Sud del mondo, così come sulla centralità del colonialismo sionista nelle politiche imperialiste contemporanee.

Gli accampamenti inoltre denunciano con forza l’impatto del massacro israeliano in corso e la violenza di lungo periodo contro la popolazione palestinese, e in particolare sul sistema educativo di Gaza e sul diritto all’istruzione. Tutte le università sono state bombardate, le scuole distrutte o gravemente danneggiate: un violento “scolasticidio” che colpirà le generazioni di oggi e di domani. Molte Università Popolari hanno almeno una biblioteca dedicata alla memoria del poeta palestinese Refaat Alareer, ucciso da Israele durante questo genocidio, e spesso i docenti fanno lezione agli accampamenti invece che in classe, in sostegno alla mobilitazione studentesca per Gaza e contro un sistema educativo che privilegia il profitto invece che la giustizia.

Io cerco di dare il mio contributo a questo sforzo di pedagogia alternativa entrando in dibattiti che consentano una comprensione critica delle attuali dinamiche politiche, economiche e socio-culturali internazionali, costruite su analisi storiche che enfatizzano la narrazione dei popoli e la voce dei soggetti subalterni. Spesso mi viene chiesto di fornire una ricostruzione storica in base alla quale comprendere e leggere gli sviluppi attuali, o di stimolare discussioni sulle diverse fasi che hanno caratterizzato la storia politica del movimento di liberazione palestinese, dando alle generazioni più giovani la possibilità di comprendere e valutare criticamente le trasformazioni passate, per articolare strategie per il futuro.

Discutiamo della visione anti-coloniale e delle strategie rivoluzionarie dei movimenti di liberazione palestinese sin dalla loro nascita e attraverso il corso degli anni Settanta, con particolare attenzione all’internazionalismo e alle lotte congiunte come principali pratiche di liberazione. Guardiamo alle crisi politiche della fine degli anni Ottanta e degli anni Novanta, cristallizzate dagli accordi di Oslo, e analizziamo il cosiddetto “processo di pace” e la cornice teorica dello state-building che ne è emersa, all’interno di una valutazione critica del discorso neoliberale e imperialista che ha permesso una forma ancora più brutale di colonialismo e di oppressione sui palestinesi, paralizzando tutti i settori della società, in modo particolare nella diaspora.

Guardiamo a come questa crisi sia stata superata dalle nuove generazioni, a come nuove espressioni di resistenza stiano emergendo sul terreno palestinese e a come i giovani della diaspora si stiano mobilitando a livello transnazionale intorno a una rinnovata comprensione della dimensione globale della lotta palestinese e della sua natura anticoloniale e internazionalista.

Untold — Che interazione e che livello di condivisione c’è in questa lotta con il movimento degli ebrei anti-sionisti?

Mjriam Abu Samra — Gli ebrei anti-sionisti sono parte integrante di questo movimento. Partecipano agli accampamenti con tutti gli altri studenti e spesso si trovano nella posizione di dover decostruire le accuse di antisemitismo che gli vengono rivolte. In questo senso, diversi ebrei anti-sionisti hanno sottolineato quanto sia antisemita in sé assumere che quella ebraica sia una comunità monolitica che intrinsecamente supporta il Sionismo e la sua realizzazione nelle pratiche coloniali e genocidiarie di Israele. Sono spesso proprio gli studenti ebrei anti-sionisti a riaffermare che etichettare le espressioni di sostegno alla liberazione palestinese come antisemitismo è un tentativo di spostare la comprensione della causa palestinese dalla sua dimensione politica, anti-coloniale, basata sui principi di liberazione e giustizia, verso una narrativa a-storica e mossa da fattori religiosi. I gruppi ebrei anti-sionisti, come Jewish Voice for Peace o Jews Against White Supremacy, sono stati in prima linea nelle proteste contro Israele e in solidarietà con la popolazione palestinese negli ultimi 7 mesi, contribuendo alla crescita della mobilitazione studentesca.

Wafa Abdelrahman, giornalista di Falastiniyyat, ha scritto: “Non c’è speranza nei governi, non c’è speranza nella giustizia internazionale, non c’è speranza nel cessate il fuoco. L’unica speranza viene dagli studenti”. Perché questo sta avvenendo? E hanno davvero la possibilità di ottenere risultati da soli o hanno bisogno che altri intervengano in loro sostegno?

Mjriam Abu Samra — Come nota Wafa Abdelrahman, e sono completamente d’accordo, la giustizia non verrà dai governi, né da nessun’altra istituzione internazionale, perché sono proprio queste realtà ad essere il prodotto di dinamiche coloniali, espressione di un sistema coloniale che continua a riprodurre se stesso, ma si manifesta in diverse forme. Un sistema coloniale che non è mai stato superato, e che ancora modella le relazioni di potere nel mondo. Dunque, queste istituzioni, il loro diritto internazionale, le loro corti e agenzie umanitarie non possono, per loro stessa natura, smantellare un sistema oppressivo perché ne fanno parte. Ed è un sistema che necessita - e si nutre di - sfruttamento e oppressione strutturali, come la colonizzazione sionista, per preservare se stesso.

L’enfasi posta su un ordine globale che mira alla pace e all’uguaglianza garantita da organismi internazionali è solo un esercizio retorico volto illuderci che la giustizia si possa raggiungere, che l’uguaglianza e i diritti siano alla base degli interessi e delle azioni degli Stati. Ma non è questa la realtà che viviamo ogni giorno. Leggi e istituzioni internazionali restano controllate da chi ha più potere, e sono addirittura utilizzate per legittimare le ingiustizie che vengono commesse. La brutale repressione delle pacifiche proteste studentesche negli Stati Uniti testimonia questa realtà: quella di un establishment politico che non si fa guidare dalla volontà e dagli interessi del proprio elettorato, ma piuttosto da quelli delle corporation multinazionali e delle loro élite politiche nell’ordine capitalista, che siano finanziarie, militari, farmaceutiche o di altro tipo.

Può sembrare demagogico, ma il cambiamento potrà venire solo dai popoli, e gli studenti hanno un ruolo fondamentale nel piantare i semi della rivoluzione. Possono rappresentare ciò che io definisco una “avanguardia organica” che sia capace di ispirare altri settori della società a organizzarsi. È l’azione politica che può portare alla fine del genocidio, alla liberazione della Palestina, e permettere a tutti noi di immaginare un sistema diverso, un diverso futuro.

Credo che il movimento globale sarà centrale nell’amplificare le voci e gli sforzi per la liberazione della Palestina, costruendo sull’esempio storico della lotta rivoluzionaria che i palestinesi stanno ancora dando, e articolando nuove strategie coordinate di mobilitazione popolare a livello globale. In questo senso, questo movimento sta liberando la Palestina. Ma è anche la Palestina che sta liberando il movimento, dimostrando che una diversa comprensione del mondo è possibile e che vale la pena di mobilitarsi per questo.