Libano. Eppur (qualcosa) si muove

Quello che emerge dalle elezioni legislative del 15 maggio 2022 è un Parlamento diverso dal passato. Ciò che è successo nel sofferente paese mediterraneo dal 2019 a oggi ha lasciato un segno nelle urne. Bisogna ora capire se lo lascerà anche sugli scranni dell’emiciclo di Place de l’Etoile e, in generale, nel più articolato sistema politico libanese.

Beirut, 18 maggio 2022. Manifesti elettorali lungo il viale Bishara Khuri a Beirut.
© Lorenzo Trombetta

L’affluenza alle urne e i deputati del “cambiamento”

Prima di tutto una sommaria lettura del tasso di partecipazione elettorale. L’affluenza alle urne su scala nazionale è rimasta invariata rispetto al 2018 (49%). Ma un’analisi dettagliata dell’affluenza nei vari distretti evidenzia dinamiche locali non affatto uniformi. Da una parte, per esempio, nelle roccaforti di Hezbollah del Jabal Amil il tasso è stato maggiore di quello di quattro anni fa. Dall’altra, l’assenza del candidato ex premier Saad Hariri sembra aver contribuito a spingere parte degli elettori a boicottare i seggi con maggior convinzione negli ex feudi dell’harirismo a Beirut, Tripoli, Sidone e nella Biqaa centro-meridionale. In alcuni distretti della montagna maronita, dove la battaglia inter-cristiana è stata più accesa, l’affluenza ha superato invece il 60%.

Un altro dato centrale riguarda la presenza in Parlamento di ben 13 (su 128) volti nuovi. Sono espressione del movimento di contestazione del 2019 ma che ha le sue radici nelle proteste scoppiate a partire dal 2016. E’ un fronte di “opposizione” tanto plurale e variegato quanto frammentato al suo interno da contrapposizioni personalistiche e rivalità campaniliste. Questi 13 deputati del “cambiamento” sono riusciti a scalzare, con modalità diverse, alcuni dinosauri del peso di Elie Ferezli (inamovibile vice presidente del Parlamento) e di Assad Hardan, noto da più parti come un vero e proprio picchiatore al soldo del governo di Damasco. Altri due esponenti del fronte filo-siriano, come Talal Arslan e Wiam Wahhab, sono andati a casa. Accompagnati da Faysal Karame, rampollo di uno degli oligarchi di Tripoli, e dal miliardario banchiere Marwan Khaireddin, candidato nella lista di Hezbollah e accusato di essere uno degli artefici della fuga di capitali finanziari nell’autunno del 2019.

Passata l’euforia per questo “vento di cambiamento” ci si interroga se questi 13 nuovi deputati riusciranno, nelle diverse tappe della legislatura e nel lavoro parlamentare quasi quotidiano, a superare le divisioni e a formare un blocco coeso e coerente per una trasformazione del sistema.

Allo stesso modo ci si chiede quale potrà essere il ruolo di ben 16 candidati descritti come “indipendenti”. Questi rappresentano per lo più interessi particolari su scala locale e, come già accaduto in passato, potrebbero essere facilmente fagocitati dai meccanismi di cooptazione e clientelismo istituzionale. Tra questi spiccano i nomi del miliardario Fuad Makhzumi, di Jean Talouzian sostenuto dal patron - anch’esso miliardario - del gruppo bancario libano-internazionale di Société Générale de Banque au Liban (SGBL), dell’esponente del clan latifondista della montagna maronita, Farid al Khazen. Sarà interessante osservare se e come i 16 deputati “indipendenti” e i 13 “delle opposizioni” condurranno la necessaria negoziazione politica, che comporta per sua natura compromessi, per essere un volano di cambiamento.

Quote di egemonia da spartire, premier da trovare

Un altro aspetto chiave riguarda la presunta contrapposizione tra una “maggioranza” e una “opposizione”. A differenza di altri sistemi politici, in Libano il Parlamento non può essere davvero concepito come un’assemblea composta in due blocchi, chi a destra e chi a sinistra. Il potere legislativo è invece parte di un più articolato sistema egemonico dominato da una cupola di potere consociativa composta dai principali leader politici del paese, ciascuno forte (o debole) di un’affiliazione regionale e internazionale. La contrapposizione retorica e la polarizzazione ideologica, che in epoca elettorale raggiunge i suoi apici, serve alla mobilitazione dei rispettivi bacini di consenso. Ma al livello più alto - nella cupola - i vari leader sono uniti da un interesse convergente e duraturo: spartirsi quote di egemonia. Il Parlamento è uno strumento fondamentale in questa dinamica, fatta di una continua negoziazione dentro e fuori i palazzi istituzionali.

In tal senso può essere fuorviante pensare che Hezbollah sia ora “all’opposizione” e che le Forze libanesi guidino “la coalizione di maggioranza”. Il prossimo momento per verificare la vacuità di questa lettura - troppo influenzata da un inappropriato paragone tra il sistema libanese e i sistemi istituzionali europei - ci sarà già nei prossimi giorni: quando è prevista l’elezione del presidente del Parlamento, carica da decenni occupata da Nabih Berri, leader di Amal e alleato di Hezbollah. E’ difficile immaginare che una forza politica “di maggioranza” romperà il patto consociativo votando contro l’inamovibile Berri.

Per quanto riguarda la formazione del governo, la tradizione politica libanese non prevede che il capo di Stato nomini adesso un premier incaricato, scegliendolo dalla coalizione di “maggioranza”, come alcuni immaginano pensando di applicare al Libano le regole istituzionali di altri contesti. Secondo la consuetudine, invece, comincia ora una concertazione trasversale a tutte le forze tradizionali per trovare una forma di governo “consensuale”: con ministri di tutti i principali partiti.

In questo contesto, sarà estremamente interessante osservare quale ruolo svolgeranno sia gli “indipendenti” sia i deputati del “cambiamento”. Ci si chiede se queste variegate categorie di deputati, non ufficialmente allineati, parteciperanno, anche solo indirettamente, alla negoziazione per un “governo di consenso nazionale”: dove “ciascuna confessione deve avere un terzo dei ministri” (il controverso meccanismo del “terzo bloccante” e del “terzo di garanzia”).

L’accordo con il FMI e lo spettro della crisi

Si aprono scenari tutti da osservare anche sullo spinoso tema dell’eventuale accordo tra Fondo Monetario Internazionale (FMI) e autorità del Libano, paese afflitto dalla peggiore crisi socio-economica della sua storia. In forza del processo negoziale avviato nei mesi scorsi tra autorità libanesi e FMI, il prossimo governo con pieni poteri (l’attuale esecutivo guidato dal miliardario tripolino Najib Miqati sbriga gli affari correnti) e il neo-eletto Parlamento dovranno in tandem approvare una serie di leggi chiave, molto delicate, per offrire allo stesso Fondo quelle garanzie minime per trasformare l’attuale accordo preliminare in un accordo formale e, dunque, per sbloccare l’erogazione delle tanto attese risorse: tre miliardi di dollari in 46 mesi. Si tratta di passaggi istituzionali, di ambito legislativo ed esecutivo, sui quali le forze politiche tradizionali si sono già divise nei mesi e nelle scorse settimane. E non è affatto detto che ora troveranno un accordo sulle varie questioni.

Ci si chiede dunque se il prossimo governo sarà formato in tempi brevi, per consentire una marcia spedita verso un accordo con il FMI. E ci si interroga se Miqati rimane ancora il miglior candidato dell’élite al potere per proseguire, come nuovo premier, quella che viene definita la “transizione finanziaria”.

Un’altra possibilità è che la formazione del nuovo esecutivo venga rallentata da uno stallo istituzionale a cui i libanesi sono abituati. In Libano le negoziazioni politico-istituzionali possono proseguire per mesi, in alcuni casi per più di un anno. Ci si chiede come potrà essere possibile evitare un ulteriore collasso dell’economia e il conseguente deterioramento della situazione socio-economica in un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’80% della popolazione residente è ormai “in povertà”. In meno di una settimana, tra la vigilia elettorale e la diffusione dei risultati definitivi, il valore del dollaro statunitense rispetto alla lira locale è schizzato in alto, toccando la soglia di 30.000 lire per un biglietto verde.

In questo contesto è difficile immaginare che le elezioni presidenziali, previste per l’autunno prossimo, si svolgeranno nei tempi previsti. E’ più probabile che questo appuntamento venga rinviato almeno all’anno prossimo, in attesa di un accordo interno che dovrà, come è consuetudine, tener conto degli altri sviluppi su scala regionale (l’accordo sul nucleare iraniano, tra gli altri) e internazionale (la guerra in Europa orientale e le sue ripercussioni).

L’esercito libanese come “guardiano della stabilità”

Alla luce dei risultati elettorali del 15 maggio ci si interroga comunque su quali potranno essere i papabili candidati alla presidenza, carica riservata a un esponente della comunità maronita. Se il leader di fatto del movimento aounista, Gibran Bassil, appare ora escluso dalla contesa presidenziale a causa della sconfitta subita dal suo partito a favore dei rivali storici delle Forze libanesi, anche l’attuale capo dell’esercito, il generale Joseph Aoun, non sembra avere la marcia lunga necessaria per presentarsi come candidato valido in una maratona dai tempi lenti.

Nella situazione attuale, segnata da periodiche ondate di tensione sociale e violenza politica urbana, l’esercito è infatti chiamato a svolgere un lavoro non necessariamente in linea con gli obiettivi dello sviluppo socio-politico della società libanese. Le potenze straniere occidentali continuano a foraggiare le forze armate in funzione del mantenimento della “stabilità” a uso e consumo interno: in molti casi per reprimere sacche di crescente malcontento socio-economico e politico, soprattutto nelle regioni considerate ai margini del sistema di distribuzione dei privilegi e dei servizi.

Da più parti sembra che la scelta di alcune cancellerie europee e degli Stati Uniti di sostenere a mani basse l’esercito libanese, come se fosse il “guardiano della stabilità” interna, finisca per rafforzare il ruolo delle élite tradizionali, molte delle quali già appoggiate e finanziate direttamente da altre forze straniere. Per queste élite, le forme di dissenso che non si riescono ad assorbire tramite il sistema clientelare, vanno messe ai margini, delegittimate (“lotta al terrorismo”) e represse, come spesso capita nelle periferie della miseria dentro e attorno a Tripoli.