Focus Gaza-Israele

Narrative dominanti e discorso islamofobo: ripoliticizzare lo sguardo e la testimonianza sulla Palestina

Di fronte alla difficoltà espressa da alcuni di comprendere cosa sta succedendo in Palestina nel presente diventa necessario riappropriarsi di alcuni strumenti di cui siamo stati privati dal processo di depoliticizzazione narrativa del contesto palestinese. È quando ci accorgiamo che i concetti che stiamo provando ad applicare ad un contesto non sono adatti a comprenderlo, che possiamo aprirci a nuove parole e comprensioni. Le riflessioni e le analisi di Tamara Taher per Orient XXI Italia.

Provo “khajal” – imbarazzo, pudore, vergogna? Nessuna di queste parole traduce correttamente il termine in lingua araba – ma è questo ciò che sento a dire tante cose mentre il mio popolo muore sotto le bombe e le macerie, per il freddo e le malattie che questo porta con sé, o per la sete e la fame. Come posso parlare e spiegare, mentre un padre piange la morte del suo bambino a Gaza? Come posso articolare il linguaggio mentre ogni vita a Gaza grida nella nostra ferita palestinese? Ci sono momenti in cui i pensieri si gettano sulla pagina e riesco a dire qualcosa. Non ho dubbi su ciò che è importante focalizzare per parlare della Palestina e del mio popolo nell’ultimo secolo. Quanti e quante palestinesi hanno detto, prima e insieme a me, in tutti i linguaggi possibili, ciò che sta succedendo a Gaza ora?

Ciò che sta accadendo dal 7 ottobre in Palestina e nel mondo mette la mia mente in movimento senza sosta. Il pensiero è abbondante, le domande e le rivendicazioni sono chiare. Nell’oralità, nel dialogo con altre persone in carne e ossa, le parole scorrono con articolazione, si nutrono a vicenda, perché sono tinte di emozioni vive nei nostri corpi e del calore dei nostri cuori che pulsano per la vita a Gaza che resiste, o si estingue ingiustamente, o sopravvive ad una macchina da guerra terrificante, che svela la violenza del capitalismo non solo nei confronti degli umani ma anche dei non umani e della Terra.

Tuttavia, se provo a scrivere, a volte, provo khajal. Se da una parte elaborare e articolare il pensiero è necessario, ed è ciò che ho imparato a fare come forma di resistenza alla violenza del discorso coloniale e islamofobo, dall’altro lato, le parole mi interrogano: come non consumare la catastrofe del mio popolo nella produzione di teoria? La sofferenza dei palestinesi a Gaza, o nelle carceri israeliane, o in Cisgiordania, o a Gerusalemme, o nei territori su cui è sorto nel 1948 lo Stato che oggi ci opprime, o nei campi profughi e nella nostra dispersione, non è un oggetto, un dato, con cui farcire le teorie e le parole decoloniali.

La teoria non vale nulla, come ci ha ampiamente dimostrato l’accademia nel suo silenzio mondiale in questi ultimi 50 giorni, se non nasce dal cuore dell’esperienza e non rimane profondamente collegata ad essa. L’accademia che ha trasformato la decolonizzazione da processo storico e politico di liberazione della terra e dell’essere umano a concetto astratto e apolitico, “buzzword” in un’università neoliberale interessata alla rapida produzione e non alla profondità e onestà del pensiero.

Le parole si fermano sulle mie labbra e mi interrogano: come fare testimonianza? Cos’è testimoniare? Ai/lle palestinesi è concesso pensare, o possiamo solo essere corpi sanguinanti e narratori dell’esperienza, informatori di chi dirà ciò che abbiamo sempre detto e vissuto, ma che sarà considerato più autorevole di noi sulle nostre vite, sul nostro passato e sul nostro futuro? E quanto spazio abbiamo, anche quando entriamo nell’accademia, per dire organicamente la lotta del nostro popolo?

La parola in lingua araba che indica il “testimone” è “shāhid”, o anche “shahīd”, martire. Il martire, nell’universo di significato della lingua araba è un testimone, è chi ha lasciato questo mondo testimoniando della sua ingiustizia. È colui o colei a cui le ingiustizie del mondo hanno strappato via la vita, e pertanto il shahīd o la shahīda, nella loro morte ingiusta, diventano vivi in forme e dimensioni sconosciute a noi. E noi viventi in questo mondo, che abbiamo assistito all’ingiustizia e alla violenza che li ha uccisi, che ruolo abbiamo? Che cosa vuol dire essere “shāhid/a”?

Basel Al-Araj, l’“intellettuale impegnato” che il 6 marzo 2017 è diventato “shahīd” per mano delle forze di occupazione e dell’ANP1, mi fa riflettere spesso ultimamente. Se nella sua ultima lettera Basel rifletteva sul gesto del “shahīd”2, in tutto il suo lavoro intellettuale e culturale prima, in vita in questo mondo, testimoniare aveva voluto dire stare costantemente in relazione materiale, affettiva e simbolica con la sua terra, la sua gente, e la storia e il presente di entrambi. Come lui un’intera generazione di palestinesi, che incontro in tutti gli spazi che attraverso, lavora da molti anni a ricostruire la propria conoscenza liberata della Palestina, e la propria relazione con essa da qualsiasi punto in cui si trovano questi/e giovani palestinesi.

In questo momento in cui la nostra Nakba mustamirra (la Nakba continua) brucia più dolorosamente che mai, il mio popolo mi insegna che testimoniare è mettersi in relazione su tutti i livelli gli uni con gli altri per dare significato alla nostra esperienza. Testimoniare non è guardare, o al massimo riportare ciò che si è visto. Testimoniare è entrare e stare in relazione significativa con il mondo. I significati delle cose nascono e si trasmettono dentro alle nostre relazioni con tutto ciò che siamo e con cui entriamo in contatto in qualche modo. La netta separazione moderna, e coloniale, tra mente e corpo, emozioni e pensieri è sempre crollata per me quando ho provato a dire qualsiasi cosa sulla Palestina. Il mondo lo viviamo e con esso ci relazioniamo dalle specifiche posizioni dei nostri corpi, e nei nostri corpi. Allora per me oggi è impossibile parlare di Gaza e di Palestina senza amare Gaza e la Palestina. E l’amore, come insegna la lezione di bell hooks, non è un sentimento ma una pratica, è il costante impegno a sostenere il benessere e la presenza di ciò e colui/colei che amiamo3.

Che forme può acquisire la testimonianza se la intendiamo come relazione attiva e di cura reciproca del mondo di fronte alla violenza coloniale in atto?

L’islamofobia e la questione palestinese oggi: oltre la nozione coloniale di “umanità”

Mentre si distruggono le vite dei palestinesi e ogni loro possibilità di sopravvivenza nella Striscia di Gaza, si è detto di loro nel discorso politico dominante nel mondo “occidentale” e sui mainstream media (dalla CNN alla BBC, Fox News, Sky News, e su tutte le principali emittenti italiane come in altri contesti europei) che sono “selvaggi”, “barbari”, “terroristi”, “animali umani”, “figli dell’oscurità”. Alla distruzione materiale e culturale che il colonialismo d’insediamento sionista ha operato nei confronti dei palestinesi per un secolo, si è unito il mondo “civilizzato” per estromettere i palestinesi dall’umanità, dal novero degli esseri umani degni di vita e di lutto.

Per quanto scioccante e nauseante sia stato sentir dire queste parole, è stato immediato per i/le palestinesi riconoscere questo linguaggio, e in quali altri momenti e contesti lontani e vicini è stato utilizzato. Dopotutto, questo linguaggio non si è mai effettivamente interrotto nei confronti dei palestinesi. L’accusa di terrorismo e barbarie, nonché le descrizioni orientaliste della popolazione della Palestina come immeritevole della terra, arretrata, incivile e misteriosa, hanno fatto parte delle rappresentazioni coloniali dei palestinesi sin dai tempi del mandato britannico e sin dai primi insediamenti e viaggi dei coloni e dei rappresentanti del movimento sionista4. Soprattutto, la narrativa sull’inciviltà dei mondi e dei soggetti musulmani e dell’Islam si è ampiamente articolata nella War on Terror statunitense nel post-11 settembre 2001, e in tutto quel discorso pubblico “occidentale” che ha adottato la teoria dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington.

Questa narrativa è indelebilmente legata alla violenza imperialista statunitense ed europea nella regione mediorientale non solo per i palestinesi ma per tutti i popoli della regione, che l’hanno vista reiterata nella guerra in Afghanistan (2001), in Iraq (2003), nell’intervento della NATO in Libia (2011), nelle rappresentazioni dei musulmani (o dei percepiti tali) nella produzione culturale e mediatica nei paesi “occidentali”, e in tutti quegli strumenti del soft power statunitense ed europeo che hanno imposto l’assunto dell’arretratezza di tutte le società del mondo nelle condizioni dei loro finanziamenti per decenni. Il linguaggio sulla disumanità degli oppressi ha risuonato ampiamente anche per i popoli di tutti quegli altri contesti che sono stati soggetti e hanno resistito ai colonialismi moderni nel mondo. Infatti, mentre l’Unione Europea e molti dei suoi membri, inclusa l’Italia, hanno adottato la narrativa israeliana e l’hanno appoggiata e continuano a sostenerla fortemente, voci da tutto il mondo – dal Sud America all’Irlanda al Sud Africa, alle nazioni indigene e native del Nord America, ai contesti dell’Asia sud-orientale – hanno subito riconosciuto ciò che hanno visto dispiegarsi in questo periodo in Palestina.

Di fronte a tutto questo, diventa fondamentale chiedersi quale sia la concezione di “umano” e quale la nozione di “umanità” attorno alla quale ruota il discorso adottato dai contesti di un “Occidente” – inteso qui come costruzione politica ed economica e non come essenza ontologica – che non rappresenta più l’unico polo del potere nel mondo, e che continua a costruire i suoi “Altri”, inclusi l’“Islam” e l’“Oriente” da un lato per auto-rappresentarsi a se stesso, e dall’altro per legittimare con questa rappresentazione i suoi interessi geopolitici ed economici e i meccanismi di accumulazione, estrazione, produzione e riproduzione dell’ordine capitalista globalizzato.

Per riuscire a decostruire questa concezione, è innanzitutto importante andare a fondo di che cosa sia effettivamente l’islamofobia, elemento fondamentale delle narrative coloniali sia di lunga sia di più recente data. La psicoterapeuta palestinese Samah Jabr, direttrice dell’Unità di salute mentale presso il Ministero della salute palestinese, scrive nelle ultime pagine di “Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione” della problematicità del termine stesso, sottolineando come ciò che viene sottinteso nell’“islamofobia” sia il fatto che “l’odio, il razzismo e il passaggio all’atto criminale dell’aggressore siano giustificati perché egli soffrirebbe di una fobia, cioè di ansietà e paure irrazionali”5.

Questa nozione, sostiene Jabr, è fuorviante, nonostante sia quella più comunemente diffusa e condivisa, perché riduce la violenza contro i/le musulmani/e ai semplici momenti e atti di “odio” e violenza espliciti nel linguaggio o nell’azione, e li giustifica, in fondo, rinforzando l’idea che i/le musulmani/e siano effettivamente pericolosi e spaventosi. È proprio questo il meccanismo che sta al fondo di tutte quelle richieste di condanna e presa di distanza negli anni rivolte ai musulmani nel mondo di fronte ad attacchi terroristici di soggetti con cui nulla queste persone avevano a che fare.

Questa definizione dell’islamofobia è insoddisfacente, sostiene Suhaiymah Manzoor-Khan – autrice, poetessa e attivista britannica di origini pachistane che da anni si impegna sul tema nel Regno Unito. L’islamofobia, ci dice Suhaiymah, è razzismo anti-musulmano. In quanto tale, essa opera a razzializzare i soggetti musulmani, cioè a costruire un’identità musulmana con specifiche caratteristiche (spesso genderizzate) che legano la violenza alla “cultura musulmana” invece che ai rapporti, ai processi e alla dinamiche politiche in cui vivono le persone e le società6. In questo senso, non si tratta quindi di un evento, ma di un processo.

Il discorso islamofobo, “maschera” del razzismo anti-musulmano7, funge a obliterare i rapporti di potere e le strutture economiche di produzione e riproduzione del capitalismo, allo stesso tempo legittimandole. In nome della sicurezza contro il pericolo rappresentato dai soggetti musulmani, individuali o collettivi, si sviluppano le industrie della guerra, delle armi, dei confini, della sicurezza e della securitizzazione. In questo quadro, sul piano internazionale e locale, il discorso islamofobo abilita la pratica della violenza non solo materiale, ma anche simbolica, epistemica, psichica, politica ed economica nei confronti di milioni di persone. Allo stesso tempo, questo meccanismo di governo dei corpi musulmani non riguarda solo i musulmani. L’islamofobia «non ha mai riguardato veramente i musulmani»8 ma le forme di violenza e di controllo “in nome della sicurezza” che essa giustifica, aprendo così la strada anche al governo e al controllo di tutti i corpi nelle società iper-securitizzate del mondo globalizzato in cui viviamo.

L’utilizzo del discorso islamofobo nella narrazione della Palestina opera in questo stesso senso, e si inserisce all’interno della funzione del discorso sull’“umanità” e sulla “civiltà” che abbiamo visto ampiamente impiegare da parte di chi ha giustificato senza mezzi termini l’immane violenza che si è dispiegata sulla Striscia di Gaza in questi ultimi due mesi: oblitera le cause politiche della violenza, le relazioni oppressive in cui stanno i soggetti, e le loro posizioni, responsabilità e ruoli. La concezione di “umanità” messa in campo in questo discorso è quella che caratterizza il mondo coloniale, che Frantz Fanon definisce ne I dannati della terra come mondo “manicheo”, “scisso in due”, diviso a “scomparti” e in categorie contrapposte: l’umano e il disumano, il civile e l’incivile, il Bianco e il Nero. Proprio per questo motivo, per Fanon, la decolonizzazione passa per la liberazione, innanzitutto, dalla nozione coloniale di “umanità”. Non ci si libera dal rapporto coloniale, che agisce anche sul livello intellettuale e psicologico, impegnandosi a dimostrare al colono/colonizzatore la propria umanità: «la decolonizzazione è molto semplicemente la sostituzione di una “specie” di uomini con un’altra “specie” di uomini», «la decolonizzazione è veramente la creazione di uomini nuovi», liberi da relazioni oppressive e ingiuste.

Ripoliticizzare lo sguardo: i palestinesi come agenti e pensanti il mondo

“La decolonizzazione non è una metafora”. I palestinesi hanno ampiamente impiegato queste parole, titolo di un articolo di Eve Tuck e K. Wayne Yang9 che nel 2012 metteva in discussione i modi in cui il termine “decolonizzazione” sia stato metaforizzato all’interno dell’accademia, e fatto equivalere ad altre lotte di emancipazione separandolo dalla questione fondamentale per i popoli indigeni, la terra. Dal 7 ottobre i/le palestinesi hanno gridato al mondo che il colonialismo a cui resistiamo da un secolo è un processo immensamente violento e catastrofico, e che la questione della terra rimane fondamentale nel comprensione palestinese della liberazione.

Le prospettive dei palestinesi sull’aggressione a Gaza e, spesso, i loro modi di resistere ad essa in termini non solo materiali ma anche politici, spirituali e culturali, ha messo profondamente in crisi l’immagine dei palestinesi costruita dagli Accordi di Oslo (1993) in poi, così come quell’idea e pratica di esclusione dei palestinesi dai processi decisionali sulla Palestina che il processo di normalizzazione dei rapporti tra diversi paesi della regione e Israele sta agendo da alcuni anni sotto gli Accordi di Abramo del 2020.

Negli ultimi trent’anni, l’immagine dei palestinesi è stata profondamente depoliticizzata nel discorso internazionale, sia attraverso le condizionalità imposte dagli aiuti internazionali, su cui dipende ampiamente l’economia dei Territori Palestinesi Occupati e l’ANP, sia attraverso il discorso islamofobo di Israele sui palestinesi. Ciò è avvenuto anche attraverso il discorso umanitario – unica risposta che la comunità internazionale ha voluto offrire alle reiterate aggressioni militari israeliane sulla Striscia di Gaza, o alla situazione di totale embargo a cui essa è soggetta da quasi vent’anni. Simile l’approccio – apolitico – anche nei confronti delle violenze dell’esercito e dei coloni contro i palestinesi nella Cisgiordania e a Gerusalemme. Le narrazioni dominanti sui palestinesi, in questo senso, si sono divise tra quelle che li dipingono come “terroristi” o come “vittime”. Entrambe le narrative sono profondamente segnate da elementi dell’immaginario orientalista, e hanno partecipato a reiterare quella negazione non solo di agency ma anche di pensiero che il mondo coloniale opera nei confronti degli oppressi.

Di fronte alla difficoltà espressa da alcuni di comprendere cosa sta succedendo in Palestina nel presente diventa necessario, allora, riappropriarsi di alcuni strumenti di cui siamo stati privati dal processo di depoliticizzazione narrativa del contesto palestinese, quali il concetto di “conflitto”. Se è vero che in Palestina non c’è una guerra tra parti equivalenti nella forza e nella posizione, è necessario che torniamo a guardare alla dinamica tra gli attori coinvolti come conflitto, nel senso più politico del termine. La contrapposizione tra oppressore e oppresso, colonizzatore e colonizzato è un conflitto che si articola proprio in ragione dell’ingiustizia dei rapporti in cui i soggetti si trovano dalle loro posizioni diverse.

Accanto a questa comprensione, che permette di guardare ai palestinesi non come “vittime” indifese e da salvare secondo termini non decisi da loro, ma come oppressi che lottano e resistono, un’altra pratica può forse permettere di mettersi in quella relazione di testimonianza attiva: stare nel disagio dell’inapplicabilità delle categorie già note alla complessità del mondo vivente. È nel momento in cui i concetti e gli schemi falliscono, e ci sentiamo in difficoltà, che possiamo imparare qualcosa di nuovo nel mondo e dal mondo. È quando ci accorgiamo che i concetti che stiamo provando ad applicare ad un contesto non sono adatti a comprenderlo, che possiamo aprirci a nuove parole e comprensioni. In questo caso, sono i palestinesi, non solo in quanto agenti, ma anche in quanto pensatori e costruttori di significato nella loro realtà, a poter offrire qualcosa. Il significato è sempre contestuale, relazionale, incarnato. In questo caso, nel contesto palestinese, non può essere costruito senza che ci relazioniamo con le ferite storiche e presenti di chi vive l’ingiustizia. Rispetto a quest’ultima, nel testimoniare siamo allora investiti della responsabilità di interrompere i rapporti e le strutture di potere che ne permettono la continua riproduzione.

1Budour Youssef Hassan, Never Obery the Occupation: the legacy of Basel Al Araj, 14 March 2017, The Electronic Intifada, https://electronicintifada.net/content/never-obey-occupation-legacy-bassel-al-araj/19851, ultimo accesso: 22/11/2023.

2In un’ultima nota, Basel scriveva: “Ora cammino incontro alla mia morte predestinata, soddisfatto di aver trovato le risposte alle mie domande. Che stupido sono! Cosa c’è di più chiaro ed eloquente del gesto di un martire? Avrei dovuto scrivere tutto ciò molti mesi fa, ma quello che mi ha trattenuto è che questa domanda è per voi vivi, e perché dovrei rispondere io per voi? Cercate voi stessi le risposte e noi, ormai abitanti delle tombe, possiamo solo cercare la misericordia divina.

3hooks, b., Tutto sull’amore. Nuove visioni, Il Saggiatore, 2022.

4Said, E. W., La questione palestinese, 2011 (1979).

5Jabr, S., Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle foglie, 2019, p. 167.

6Manzoor-Khan, S., Tangled in Terror. Uprooting Islamophobia, Pluto Press, 2022.

7Taher, T., Islamofobia e razzismo anti-musulmano: riformulare e stratificare lo sguardo, in Jabbar, A., Gabrielli, G, Diquattro, G. (eds.), Paesaggi interculturali nella terra di mezzo. Esperienze per una società plurale, Kanaga edizioni, 2022.

8Manzoor-Khan, Tangled in Terror.

9Tuck, E., Yang, K.W., Decolonization is not a metaphor, Decolonization: Indigeneity, Education & Society, Vol. 1, No. 1, 2012, pp. 1-40.