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Né Oriente, né Occidente: una proposta
Le categorie di Oriente e Occidente con cui interpretiamo il mondo sono davvero neutre e oggettive? Renata Pepicelli, docente di Islamologia all’Università di Pisa, nel suo ultimo saggio “Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo” propone di superare questi schemi binari ereditati dal colonialismo per comprendere la realtà che ci circonda, invitandoci a riconoscere l’emergere di un “mondo nuovo” – un “Occiriente” – fatto di identità plurali e in continua trasformazione. Fabrizio Ciocca lo recensisce per Orient XXI Italia.
Renata Pepicelli, docente di Islamologia all’università di Pisa e tra le maggiori esperte sulle comunità musulmane diasporiche in Italia, con questa opera prova ad offrire al lettore un prisma di comprensione diverso e originale rispetto a quello solitamente proposto dai media mainstream su un tema così divisivo come quello delle migrazioni. Il lavoro dell’islamologa raccoglie il frutto di decenni di studi e ricerche, al fine di provare a comprendere come le migrazioni stanno cambiando e trasformando le società europee.
Partendo da questa premessa, l’autrice evidenza con forza, attraverso una lettura da una prospettiva di genere e decoloniale, e il supporto di una notevole quantità di dati sociologici ed economici, che ci troviamo di fronte letteralmente ad un “Mondo Nuovo”, frutto del contatto continuo e delle interazioni che si producono tra le società occidentali ospitanti e l’arrivo degli immigrati, che portano con sé le proprie identità culturali e religiose.
Un mondo che vede sempre più ragazzi e ragazze nati in Europa, con un background migratorio e inseriti nel tessuto socioculturale dei paesi europei, che danno vita a nuove identità, dinamiche e plurali, in cui si mescolano insieme valori morali e culturali dei paesi di origine dei genitori con quello del paese europeo in cui sono nati.
La costruzione della “Donna d’Oriente”
Rispetto a questa nuova realtà in divenire, l’autrice evidenzia che è ormai necessario mettere in discussione anche una serie di categorie di pensiero quali ad esempio Occidente/Oriente, Nord/Sud, Est/Ovest, che non sono neutre o oggettive, ma il prodotto di processi storici, culturali e politici, come ad esempio il colonialismo. Si pensi anche al termine sempre più in voga nella pubblica opinione e nei mass-media di “Medio Oriente”, per cui è lecito chiedersi, ma rispetto a cosa? Espressione che venne utilizzata per la prima volta nel XIX secolo dagli inglesi per indicare i territori a Oriente dell’Impero britannico.
Categorie quindi costruite a “tavolino”, narrative che riproducono spesso i rapporti di forza dei dominatori verso i colonizzati, che hanno creato nel corso dei decenni un’omologazione di culture, religioni e popoli schiacciandoli in immaginari fissi senza tempo. Emblematico anche il caso della religione musulmana, per cui attraverso un utilizzo distorto del linguaggio da parte dei colonialisti europei, l’Islam è stato identificato tout court con l’Oriente e viceversa, addirittura spesso usati come sinonimi, mentre invece
L’identificazione dell’Oriente, o di una parte di esso, con l’Islam è a ben vedere problematica, non solo perché l’Islam non è la sola religione del mondo ‘orientale’, ma anche perché vi è una pluralità di correnti nell’Islam e la dimensione religiosa si è profondamente intrecciata con storia e tradizioni locali, dando vita a realtà uniche (p.29).
Una volta creata quindi un’immagine fissa e monolitica dell’ Islam e dei musulmani, che non teneva conto delle differenze culturali, linguistiche ed etniche di tutti i popoli di religione islamica (e la falsa convinzione che tutti i musulmani fossero arabi), è stato possibile per i dominatori/colonizzatori europei proporre una narrazione stereotipata dell’Oriente, secondo cui l’Occidente fosse moralmente superiore rispetto alle (presunte) barbarie orientali. E quindi, la presenza europea in quei territori d’oltremare fosse di fatto giustificata dal dover “modernizzare” tali popoli e portare la “vera civiltà”.
All’interno di questa propaganda coloniale la donna e la condizione femminile divennero la rappresentazione stessa dell’Oriente e della cultura islamica, e le donne orientali e musulmane, sempre presentate come oppresse e arretrate, figure da salvare e civilizzare attraverso il contatto con la cultura occidentale e i suoi valori. In questo contesto il velo islamico (nelle sue varie forme e declinazioni) per i colonizzatori era l’elemento che nascondeva l’Oriente stesso e pertanto andava “strappato”, buttato via, simbolo di tradizioni e costumi da estirpare.
Oltre al velo, un altro elemento con cui l’Occidente colonizzatore ha costruito la “razzializzazione” dell’Islam e la sua inferiorità è l’immagine dell’harem, descritto e favoleggiato – rispetto al suo vero significato di separazione tra spazi pubblici e privati - come luogo di lussuria, piacere e promiscuità in cui le donne erano semplicemente degli oggetti sessuali.
Il ruolo dell’arte orientalista
Ma come fu possibile per le élite europee trasmettere e trasferire questi concetti e immagini al grande pubblico?
Qui l’autrice tocca un elemento spesso sottovalutato, ossia il ruolo significativo che gli artisti dell’epoca hanno giocato tra l’Ottocento e il Novecento in questo processo di ridefinizione di un Oriente immaginario, esotico ed erotico, ma allo stesso tempo barbaro, inferiore, irrazionale (in contrapposizione ad un Occidente razionale, ordinato, “civile”). Ad esempio, per il contesto italiano, fu grazie l’opera di artisti quali Francesco Hayez, Domenico Morelli, Roberto Guastalla e tanti altri che in Italia anche nella pittura vi fu un vero e proprio filone orientalista, che produsse nel corso degli anni opere, che nelle maggior parte dei casi, ritraevano le donne musulmane con corpi lussuriosi, sdraiate su letti, sempre pronte ad essere sedotte e conquistate dall’uomo “Occidentale”.
Queste produzioni artistiche, ci ricorda la Pepicelli, “si iscrivono dentro una visione comune funzionale a edificare quel progetto politico che prenderà forma tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento: l’Italia unita e con un impero coloniale” (p. 54). Un progetto coloniale che infatti vide l’Italia andarsi ad aggiungere alle grandi potenze europee dell’epoca, e prendersi il suo pezzo “d’Oriente” con la conquista della Libia nel 1911. In questo periodo, tra l’altro, quasi tutto il mondo arabo-mediterraneo era sotto il controllo degli Europei, e questo meccanismo di inferiorizzare l’Oriente e produrre immagini volte a giustificare l’intervento Occidentale fu esteso anche all’Africa, ma con un vigore e aggressività ancora maggiore.
La costruzione della “Venere Nera”, che riproduceva una precisa gerarchia di razza e di genere, fu determinante nel progetto coloniale italiano. Fotografie di ragazze africane nude su cartoline venivano regalate ai soldati italiani in partenza per l’Africa con lo scopo di indurli a credere in un doppio miraggio: quello della conquista africana, vergine, e delle sue donne, vergini anch’esse.
Queste produzioni di stampo orientalista, che raffiguravano donne nere africane generalmente rappresentate nell’atto di offrirsi al conquistatore e donne musulmane, che, una volta superato il “confine” dell’harem erano caratterizzate da una lussuria incontrollabile, questi stereotipi hanno permeato l’immaginario collettivo fino ai giorni nostri. Ad esempio, relativamente alle donne musulmane, persiste ancora un’immagine delle stesse distorta e senza tempo che omologa e schiaccia la pluralità dei posizionamenti femminili nel mondo islamico in un’unica rappresentazione di sottomissione, che non è stato scalfita nemmeno dalla grande partecipazione delle stesse ai movimenti sociali delle cosiddette Primavere Arabe.
Il nuovo nemico dell’Occidente: l’Islam
Nel passaggio fra il XX e il XXI secolo la contrapposizione tra Occidente e Oriente, evidenzia l’autrice, si è trasformata sostanzialmente in uno scontro tra Occidente e Islam, e anche in questo caso e anche in questo caso “le questioni di genere hanno ricoperto e continuano a ricoprire tutt’oggi, un ruolo determinante” (p.79). All’immagine della donna musulmana sottomessa e oppressa dalla fede, a partire dagli attentati dell’11 settembre del 2011 a New York, l’Islam e i musulmani sono stati associati al terrorismo internazionale, percepiti come minaccia alla sicurezza nazionale e all’ordine mondiale.
Il fenomeno del jihadismo globale ha schiacciato l’immagine della religione islamica come irrimediabilmente fondamentalista e intransigente verso chi non è musulmano, e l’immagine dell’Islam come nemico sia esterno che interno si è poi rafforzata con l’emergere negli ultimi anni dell’Isis, il sedicente califfato insediatosi tra l’Iraq e la Siria. Sebbene nei suoi discorsi e nella sua propaganda gli Occidentali erano fortemente avversati, chi ha fatto le spese in primis dell’Isis, della sua ferocia e delle sue interpretazioni fondamentaliste della religione sono stati quegli stessi musulmani che non hanno accettato i seguaci dell’autoproclamato califfato come nuovi dominatori, ossia la stragrande maggioranza del mondo islamico.
Tuttavia, le voci e i pareri giuridici (fatwa) delle numerosissime autorità religiose islamiche che nel corso degli anni si sono espresse contro l’Isis non hanno ricevuto la giusta attenzione in Occidente, dando così l’impressione alla pubblica opinione che vi fosse tra i sapienti islamici una forma di consenso rispetto all’azioni criminali del gruppo di al-Baghdadi.
Questo appiattimento da parte dei mass-media occidentali e anche di diversi intellettuali (primo fra tutti Samuel Huntington teorizzatore dello “scontro di civiltà”) verso un unico Islam, quello jihadista, assolutamente minoritario e privo di consenso nel mondo islamico, ha fatto da corollario ad una rappresentazione dei musulmani
Come irrazionali, fanatici, seguaci di una religione contraria alla modernità, ai diritti umani, all’emancipazione femminile, alla libertà, sul punto di occupare le terre occidentali con i loro alti tassi di natalità” (p.85).
In questo quadro stereotipato, Pepicelli nota come un ruolo importante lo giocano i mass-media, che spesso trattano i casi di cronaca nera in maniera diversa a seconda delle origini e della religione dei protagonisti delle vicende. Per esempio, quando un femminicidio è commesso da un italiano autoctono, spesso si parla di “delitto passionale”, se invece il colpevole è di religione islamica, allora le possibili cause diventano le “pratiche culturali e religiose giustificate dall’Islam”.
Questo diverso modo di trattare l’odioso crimine dei femminicidi fa sì che molti mezzi di informazione televisivi e della carta stampata occidentali riducono la violenza da parte di uomini musulmani sempre e solo alla loro fede, come concausa diretta e principale (senza invece prendere in considerazioni altre variabili come quella culturale, socioeconomica, istruzione, etc..) alimentando quindi lo stereotipo e il pregiudizio dell’equazione Islam uguale violenza. Un esempio su tutti: nel 2016 a Colonia in un Capodanno di piazza avvennero diversi episodi di aggressioni e molestie, tanto che il quotidiano italiano Il Giornale pubblicava in prima pagina “Stupro di massa in Germania: mille immigrati violentano 80 donne”.
Ma nei giorni successivi, dopo un attento lavoro investigativo da parte della polizia tedesca, emerse che la maggioranza degli episodi riguardavano furti e non violenze sessuali, e non erano stati commessi da rifugiati siriani (come era stato precedentemente detto, motivo per cui la politica di accoglienza della Merkel era stata messa sotto accusa da parte dell’opinione pubblica e da diversi partiti di destra).
Ovviamente non si può negare che in alcuni casi effettivamente vi erano stato episodi di molestie da parte di stranieri di fede islamica; tuttavia, questo non vuol dire che “tali comportamenti e atteggiamenti possano essere considerati pratiche lecite per l’Islam o rappresentative degli uomini musulmani in generale” (p.91). Infatti, il mondo musulmano, composto da oltre 1 miliardo e mezzo di persone, si caratterizza per una forte pluralità al suo interno, che va da posizioni tradizionaliste a progressiste-libertarie, con un ampio raggio di diverse interpretazioni nel mezzo.
Si pensi ad esempio al tema delle mutilazioni genitali femminili o dei matrimoni combinati: pratiche assolutamente vietate dalla religione islamica, ma che trovano ancora spazio in diversi paesi islamici, a causa di un forte retaggio e commistione tra tradizione e patriarcato che perdura ancora oggi. Comportamenti che in alcuni casi ritroviamo poi anche in alcune dinamiche comunitarie in diaspora, come il recente caso di una ragazza italo-pakistana, Saman Abbas, che ha sconvolto la pubblica opinione, uccisa dai propri familiari per aver leso “l’onore della famiglia”.
Ma ci ricorda l’autrice, l’omicidio non può essere mai ascritto a una religione, a un paese, a una comunità migrante, ma sono sempre azioni – criminali – individuali. Naturalmente è indubbio che per diverse figlie dell’immigrazione, vivere in Europa comporta una serie di problemi identitari e valoriali, dovuti alla scontro/incontro tra la cultura di origine dei genitori e quella ospitante in cui sono nate e/o cresciute.
Un mondo nuovo: “l’Occiriente”
Mentre la costruzione dell’Islam come nemico dell’Occidente si è diffusa anche in una parte della popolazione, dando vita anche alla diffusione di movimenti xenofobi che avversano l’immigrazione, sempre più stranieri (e musulmani) vivono in Europa ed in Italia. Ma rispetto ai genitori arrivati 30-40 anni fa, oggi una seconda e terza generazione di ragazzi e ragazze con background migratorio cresce e si fa portatrice di nuove esigenze che incidono anche sulla società. Il principale luogo dove tali trasformazioni sono più evidenti è la scuola; infatti, è qui che il cambiamento sociale e culturale ha preso forma in maniera più sostanziale e visibile. Si consideri ad esempio che ben l’11% degli studenti delle scuole italiane hanno cittadinanza straniera, e ben i 2/3 di questi sono nati in Italia.
Nel caso poi degli studenti musulmani, emergono specifiche necessità, come la possibilità di avere cibo halal nelle mense scolastiche o giorni di assenza giustificata per le festività islamiche (ad esempio durante il Ramadan). Di fronte a questa nuova realtà, ecco allora che la scuola “può essere il primo avamposto di riconoscimento della pluralità e lo spazio dell’affermazione della nuova realtà che abitiamo” (p.125).
Per questo l’autrice chiede uno sforzo alla politica per una riforma dell’iter della cittadinanza, che riconosca questa nuova realtà fatta di migliaia minori nati e cresciuti in Italia (ma considerati ancora stranieri dalla legge), mentre invece sembra che il Paese rimanga ancora legato ad un’idea di Stato-nazione dove gli Italiani sono solo coloro i quali hanno un’identità bianca e cristiana.
Ed ecco il punto centrale intorno al quale ruota tutta l’opera: siamo di fronte ad un mondo nuovo, che non può più essere racchiuso nelle categorie semplificate di Occidente e Oriente, ma si assiste ad una realtà nuova, che si contamina, che si incontra, che si trasforma, che vede nella musica (si pensi alla recenti apparizioni al festival di Sanremo di Ghali o Mahmood), nello sport, nel giornalismo, nella politica ed in altri settori sempre più la presenza e la partecipazione di quei figli delle migrazioni, che sono cresciuti e che vogliono essere protagonisti dell’Italia del futuro, ma che molti continuano a definire come stranieri, discriminandoli rispetto al rapporto con il Paese di cui si sentono parte.
Siamo quindi di fronte ad un prodotto nuovo, frutto dell’incontro tra persone, culture, religione, territori, che ha plasmato una nuova realtà, che da Occidente gradualmente è diventato “Occiriente”, termine che supera categorie di analisi desuete e dicotomiche e ben descrive il mondo in cui viviamo e in continua trasformazione davanti ai nostri occhi.
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