Dal 7 ottobre si è riaccesa l’attenzione mediatica sulla questione palestinese, nello specifico su Gaza, vittima di intensi bombardamenti che non accennano ad interrompersi e che ad oggi hanno provocato oltre 35.000 morti.
Per comprendere una situazione lunga e complessa è necessario guardare la Palestina nella sua interezza, per questo siamo tornati nei territori occupati illegalmente da Israele, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, dove abbiamo raccolto testimonianze e impressioni che si vivono fuori dalla Striscia di Gaza. Come si vive in questa parte di Palestina dopo il 7 ottobre? Come è cambiata la situazione? Che aspettative ci sono per il futuro? Queste le domande che abbiamo rivolto alle persone che abbiamo incontrato.
Da Roma alla Palestina
La tensione e il controllo pervasivo israeliano si percepiscono già dall’aeroporto di Fiumicino, dove non è concesso fare il check-in online e i controlli, che sono molto lunghi e approfonditi, avvengono in una sezione dell’aeroporto separata dalle altre e valgono per tutti i passeggeri diretti a Tel Aviv. Questo sistema prima del 7 ottobre era riservato solo a chi viaggiava con la compagnia di linea israeliana, “El Al”, ora invece si sono estesi ai viaggiatori di tutte le altre compagnie.
All’atterraggio ci aspettano i controlli per entrare nel paese. Per farlo ci sono volute 4 ore di attesa trascorse tra l’atterraggio del nostro volo, le 22:00 e l’uscita dall’aeroporto avvenuta alle 2 di notte; e due ore di interrogatorio nella consueta “stanza rossa” dell’aeroporto di Tel Aviv, che in questi anni abbiamo imparato a conoscere bene. Vista la situazione, questa volta abbiamo provato a richiedere un visto giornalistico e a seguire la procedura richiesta da Israele: non è servito. Alla fine, ci viene concesso un visto turistico, che però non consentirebbe di lavorare: avevamo dato per scontato il divieto di ingresso nel paese, viste le tante volte che siamo stati a Gaza in passato e le tante domande ricevute, quindi ci accontentiamo e usciamo di corsa.
La mattina ci svegliamo presto, la situazione nella Città vecchia di Gerusalemme è desolante: senza turisti, con i negozi che sono quasi tutti chiusi, per le strade che sono state vive per 2000 anni si respira un’aria pesante. E in questa desolazione, domande e controlli sono più frequenti e più invadenti, da parte della polizia, dell’esercito e della sicurezza interna di Gerusalemme.
Da Gerusalemme a Dheisheh
Ci fermiamo in uno dei pochi bar aperti vicino alla chiesa del Santo Sepolcro. Ci accoglie Ali, signore sulla sessantina, incredulo nel vedere qualche turista. Ci racconta che “da 8 mesi è diventato impossibile lavorare e vivere, prima della guerra era difficile essere palestinesi qui, perché i militari e i coloni non ci hanno mai lasciato in pace. Ma senza turisti e quindi senza lavoro è diventato asfissiante”. Ali ha un figlio di poco più di 30 anni, due lauree e un solo desiderio: lasciare questa terra, che per lui non ha più speranza.
Nello sguardo delle persone si legge stanchezza: sono esausti, perché come ci ricorda in modo ironico e amaro Ali “siamo diventati quattro generi di palestinesi diversi, noi a Gerusalemme, quelli di Gaza, quelli in Cisgiordania e tutti gli altri nel mondo. Ma la Palestina è una terra sola”.
In queste poche giornate abbiamo diversi appuntamenti, il primo è con Mohammed del campo di Dheisheh, a pochi chilometri da Betlemme. Ci accompagna in uno dei primi campi profughi palestinesi sorti dopo la Nakba, nel 1949, la prima espulsione dei palestinesi dalle loro terre. Allora era un mucchio di tende, poi con gli anni gli abitanti hanno costruito case, strade e negozi. “Prima c’erano solo rocce, poi sono state costruite le strade della liberazione”, dice Mohammed. Ad oggi, in un’area di circa 1 chilometro quadrato, vivono circa 15.000 persone, tutte originarie di 56 villaggi occupati da Israele.
Mohammed fa parte del Comitato che gestisce il campo, ufficialmente posto sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (AP), ma che deve provvedere in autonomia a parte dei servizi già precari. Il Comitato nacque per iniziativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1996, dopo gli accordi di Oslo. Mohammed ci racconta che il Comitato dà supporto alle famiglie, ma non vuole sostituirsi all’UNWRA, piuttosto mettergli pressione.
Dopo il 7 ottobre però la situazione è drasticamente peggiorata: l’AP ha tagliato i fondi e i molti palestinesi che lavoravano con i visti di lavoro concessi da Israele li hanno visti sospesi e sono disoccupati da 8 mesi. Ad oggi le persone vanno avanti solo grazie a piccoli progetti individuali. Sono aumentati inoltre i raid dell’esercito, i feriti, gli arresti e le uccisioni.
“Prima venivano solo di notte, ora arrivano anche la mattina presto quando la gente esce di casa. Praticamente ogni giorno”, ci racconta Mohammed.
Quasi ogni famiglia che vive qua ha un ferito, un prigioniero o un martire in casa. Spesso anche tutti e tre. “Ci sono circa 400 persone nelle prigioni israeliane che vivevano qua; stamattina sono venuti ed hanno arrestato due ragazzi di 17 anni. Ci attaccano tutti i giorni. Ma per noi è sempre stato così, anche prima del ‘48, quando c’erano gli inglesi. Siamo abituati, speriamo che ora anche il resto del mondo se ne accorga”, riflette il nostro accompagnatore.
“Non pensavamo fosse possibile un attacco palestinese, ma ci aspettavamo una risposta alle continue violenze che avvenivano molto prima del 7 ottobre, una reazione da parte di qualche partito. La Palestina era stata dimenticata dal mondo, ora i giovani sono con noi, fanno una parte importante, vediamo le occupazioni delle università, contiamo su di loro. Siamo a un punto di non ritorno, o andiamo avanti o moriamo. I confini per noi sono dal mare al fiume”, ci dice.
Mohammed ci accompagna da diverse famiglie che vivono nel campo. Così conosciamo Ali, 19 anni, quando è stato ferito ne aveva 17, aggredito durante uno dei tanti raid dell’esercito. Gli hanno sparato 3 colpi, uno all’occhio, uno alla pancia e uno alla gamba.
“I soldati arrivano, salgono sui tetti e ci sparano, questo avviene sia che lanci sassi sia che vai a lavoro, cosa dovremmo fare?”, ci chiede. Ali ha subìto già 6 interventi importanti, continua a prendere antidolorifici molto forti che danno dipendenza. Ha un intervento molto importante tra qualche mese a Gerusalemme, ma non sarà facile ottenere un permesso per curarsi.
Eppure, ci dice che non ha paura del futuro perché “la vita non finisce qua, voglio aprire un negozio di magliette alla moda”. Ali ce lo ricorda, la vita è più forte della morte in Palestina. Suo fratello, Abu, 18 anni oggi, sorride. È molto orgoglioso di quello che fanno contro l’esercito e ci racconta il suo primo ricordo dell’occupazione.
Avevo 5 anni, una mattina sentivo un odore molto forte, non conoscevo ancora l’odore dei lacrimogeni misti alla polvere da sparo e ai copertoni bruciati e chiesi a mia mamma cosa fosse. Non mi ricordo la risposta precisa, ma da quel momento iniziai a capire cosa fosse l’occupazione israeliana nelle nostre vite.
Si aggiunge alla risposta anche Mohammed, che di anni ne ha 50.
Mio padre aveva una macelleria, avevo 5 anni ed ero con lui, ho visto dei ragazzi che lanciavano sassi contro la jeep dell’esercito che entrava e usciva dal campo ad alta velocità. Mio padre mi ha allontanato e io mi sono seduto a osservare la scena per un’ora. Entrano per provocare, abbiamo sempre rifiutato l’occupazione, quindi siamo attivi, cosa abbiamo oltre i sassi? usiamo quelli.
E rispetto al 7 ottobre aggiunge: “Non siamo contenti per i morti, ma dopo il 7 ottobre siamo tornati vivi, prima non c’era prospettiva politica, la Palestina era dimenticata, ora speriamo nel riconoscimento del nostro Stato”.
Parliamo con un altro ragazzo, Jamal, 22 anni, ferito ad una gamba 6 mesi fa, oggi è costretto a camminare con un tutore. Ci racconta come è avvenuto.
Facevo il fornaio, ero a lavoro, ho sentito degli spari, c’erano dei ragazzi feriti allora ho iniziato a portarli in ospedale con la mia macchina. Al terzo viaggio, mentre prendevo un ferito, mi hanno sparato e volevano anche arrestarmi. Per fortuna non ci sono riusciti.
Cosa che invece è avvenuta con il fratello 2 mesi dopo. “Stavamo dormendo a casa, all’improvviso la porta è esplosa, l’esercito è entrato puntando i fucili e sguinzagliando i cani, ci hanno chiuso nel bagno e hanno distrutto la casa. Hanno arrestato uno dei miei due fratelli, adesso è ancora in carcere. Qualche mese dopo sono tornati e hanno arrestato anche l’altro”.
Il padre di Jamal sospira e ricorda la prima volta che ha avuto a che fare con l’esercito di occupazione. “Ero a un festa per bambini, avevo 6 anni e mi avevano regalato una pistola giocattolo, io ho fatto finta di sparare all’esercito e loro mi hanno inseguito fino sotto al letto di mia nonna, poi per fortuna le donne del campo li hanno cacciati”.
La madre invece ci racconta che trema quando sente i rumori forti, l’ultima volta sono entrati con un cane, hanno portato gli altri ragazzi appena arrestati a casa loro bendati, per mettergli paura. E’ preoccupata per i figli in carcere:
Dal 7 ottobre non abbiamo più notizie. Sappiamo che le condizioni dei prigionieri sono terribili, manca il cibo, vengono sistematicamente picchiati e torturati, chi esce perde il 60% del peso, ha perso i denti, ha le costole rotte e diventano sterili a causa delle botte ricevute. Chi esce non si leva dalla testa l’odore del sangue. Sul muro del carcere di Neve Tirza c’è una scritta che recita benvenuti nel macello del Neve.
Chiediamo a Jamal come vede il futuro, “Prima avevo speranza, volevo studiare e lavorare, volevo fare l’ingegnere meccanico, come Valentino Rossi, mi piacciono le moto. Oggi non so più cosa credere”. Incontriamo molte famiglie, le storie sono simili e si ripetono, gli attacchi erano aumentati anche prima del 7 ottobre, ma da 8 mesi la situazione è collassata.
E sul futuro c’è molta incertezza. Secondo Omar, signore di 60 anni che ci invita a prendere un tè a casa sua, “Israele potrebbe spostare il fronte qua, che poi qui in realtà la guerra già c’è, ma non siamo tristi in generale, abbiamo sempre resistito ognuno nel suo posto. Svegliarsi, lavorare la tua terra, studiare…la nostra vita è una resistenza, sopportiamo tutto, il pensiero che un figlio possa morire, sopportiamo tutto”. Ha un figlio di 12 anni e una figlia di 17, a lei chiediamo come si vede tra 10 anni.
“Frequento il liceo classico, ma quando arrivano i soldati non riesco a studiare. Prima volevo fare l’infermiera, poi ho visto gli attacchi agli ospedali e ho cambiato idea, ho paura”, ci racconta.
L’amaro benvenuto di Jenin
Dopo una lunga e intensa giornata a Dheisheh, il colonialismo israeliano ci ricorda la sua costante presenza, in tutte le sue sfaccettature. Per andare da Gerusalemme a Betlemme abbiamo dovuto attraversare il muro che le separa; per controllare i palestinesi che vogliono farlo c’è un checkpoint che dal 7 ottobre chiude prima del solito, soprattutto per tornare verso Gerusalemme, così dopo una certa ora si può attraversare solamente in auto o in bus. E i bus spesso vengono perquisiti. Così dopo 20 minuti di viaggio arriviamo al check point, veniamo fatti scendere, il bus viene controllato da cima a fondo e dopo una mezz’ora di attesa sotto l’occhio vigile dei militari con i fucili puntati, veniamo messi in fila e ci vengono controllati i documenti prima di poter risalire.
Oltre Dheisheh e Gerusalemme, con qualche difficoltà, arriviamo a Jenin. Cinquantamila abitanti, 150 chilometri a nord di Gerusalemme, per arrivarci abbiamo bisogno di un fixer perché Jenin, come Nablus, è teatro di una forte resistenza armata, iniziata già prima del 7 ottobre, ma che si è accentuata da 8 mesi a questa parte.
Abbiamo ancora negli occhi le immagini di qualche settimana fa dei razzi lanciati nelle strade della città e dei bulldozer israeliani che arrivano a distruggere strade, palazzi, case, scuole.
Le ragioni della scelta di impugnare le armi contro le incursioni dell’esercito israeliano coinvolge soprattutto i più giovani, anche giovanissimi, che nella maggior parte dei casi hanno come prospettiva quella di diventare combattenti; ce lo dicono le parole difficili da digerire di uno dei bambini del campo: “Non importa della scuola, io voglio diventare un combattente”, ci dice. Queste parole ci danno la misura di quanto la violenza coloniale, il tentativo di sopravviverle, sia entrato nelle teste anche dei più piccoli, un disastro generazionale che non vede altro futuro che la continua resistenza agli attacchi dell’ esercito israeliano.
Le ragioni di questa scelta di imbracciare le armi, e se fosse cambiata all’alba del 7 ottobre, sono il motivo per il quale siamo venuti qua, perché appunto sappiamo che la Palestina non è solo Gaza e che la guerra a bassa intensità contro tutto il popolo palestinese è iniziata molto prima.
Per entrare nell’omonimo campo profughi di Jenin, teatro di terribili violenze in passato, superiamo un sistema di controllo scrupoloso, ci dicono che hanno paura di infiltrati, di attacchi improvvisi e non possono permettersi ingenuità. Ne comprendiamo bene le ragioni.
Abbiamo appuntamento con diverse famiglie, tutte hanno in comune un lutto, un figlio giovane arrestato o ucciso dall’esercito. La prima cosa che vediamo appena arrivati è il nuovo cimitero, in quello vecchio non c’era più posto. Lo troviamo in costruzione, con le foto dei martiri, tutti giovanissimi. È il nostro benvenuto amaro a Jenin.
Nella prima casa che ci accoglie conosciamo Jasmine e Basma, madre e sorella di Yusuf, 23 anni, ucciso due anni fa, nel 2022. Dopo il caffè di rito iniziamo a parlare, ci dicono che Yusuf era un giovane timido, solare e altruista, che lavorava come pittore nell’edilizia in Israele grazie ad un visto di lavoro; guadagnava bene, ma era diventato insostenibile andare la mattina a lavorare per chi poi la notte arrestava e uccideva i propri amici e parenti, per questo ha deciso di imbracciare un fucile M16 e lasciare il suo impiego.
La madre ci dice che qui molti ne hanno uno, ma che non sono i loro figli ad andare dalle armi: sono le armi ad andare da loro e quando un amico muore, il fucile d’assalto passa in consegna a qualcuno vicino. Fa impressione parlare di M16 in mano a ragazzi con questa naturalezza, ma è importante ricordare che davanti a loro c’è uno degli eserciti più avanzati al mondo, che possiede mezzi, strumenti e risorse all’avanguardia. Davide contro Golia.
Quando domandiamo come è successo, come è morto Yusuf, ci risponde la sorella. “Quel giorno eravamo a casa, i militari sono entrati nel campo e hanno iniziato a sparare contro le case, lui è uscito per evitare che venissero qua e per questo è stato ucciso con 3 colpi, dopo che una granata stordente gli ha fatto saltare in aria una gamba”.
Ci mostra le scarpe, le posa per farcele fotografare, poi posano entrambe davanti ad un altarino del fratello. La sorella ci guarda, la madre ha lo sguardo basso. Ci chiediamo quanto possa essere forte il loro dolore e difficile raccontarlo.
Tra le due donne, le foto di Yusuf sorridente, un orologio alla moda e la sua maglietta preferita. Ci spiegano che questa situazione è iniziata prima del 7 ottobre, ma con la guerra a Gaza l’intensità e la frequenza dei raid è aumentata, perché “ora abbiamo speranza per una Palestina libera e combattiamo per questo”.
Ed è sicuramente questa una delle ragioni per le quali i ragazzi giovanissimi fanno questa scelta, un sentimento diffuso in tutta la Palestina, come ci ha detto la sorella di Yusuf. “Non è la prima volta che ci massacrano, ma sarà l’ultima”. Perché il sentimento diffuso è che la Palestina sia tornata ad essere una questione internazionale e la prospettiva di una terra libera dall’occupazione sia possibile per i palestinesi.
Ma la ragione non è solo questa, ed è fondamentale dirlo: arresti, raid notturni, esproprio illegale di case e terre, abusi di ogni tipo da parte dei coloni e dell’esercito israeliano vanno avanti già da prima del 7 ottobre. È importante ricordare che Itamar Ben Givir, Ministro della Sicurezza israeliano, è un abitante delle colonie illegali di Hebron, e da quando è al governo ha investito mezzi e uomini nella costante conquista delle terre in Cisgiordania. E questo ce lo racconta bene la seconda donna che incontriamo nel campo di Jenin, Jasmine, che ci parla di quando un amico è stato colpito alla fronte da un colpo mentre dormiva perché “qua ci ammazzano anche se non facciamo nulla, anche se andiamo a fare la spesa la mattina o se dormiamo”.
Jasmine aveva due figli, ancora non maggiorenni, uccisi dopo il 7 di ottobre dentro al reparto dell’ospedale di Ibn Sina. Il più giovane era ricoverato lì, un drone israeliano lo aveva colpito mentre erano al cimitero di Jenin, senza che nessuno fosse armato; il fratello e un amico sono andati a trovarlo, e l’esercito è entrato nell’ospedale uccidendoli tutti e tre.
Ci mostra le foto, che in casa sono appese ovunque e ci dice che dal 7 ottobre sono aumentati i raid; e poi la crisi economica, anche qua come a Dheisheh, molti lavoravano oltre il muro con dei visti che Israele non sta più concedendo, non c’è lavoro e la povertà aumenta.
L’ultima persona con la quale parliamo si chiama Marwa. Abitava in una casa splendida su due piani, dove viveva con la famiglia, poi un giorno per cercare il fratello l’esercito è arrivato in casa, ha distrutto tutto, ha arrestato il marito, ha bruciato la casa e l’ha rasa al suolo; la incontriamo con in braccio il figlio piccolo, ci chiede di guardarlo un attimo perché vuole posare sulle macerie della sua casa, orgogliosa del suo popolo. Ci ricorda una foto che scattammo a Gaza anni fa. Anche allora l’uomo al quale era stata rasa al suolo la casa voleva posare in piedi sulle macerie: “Siamo ancora qua, ricostruiremo”, diceva allora. Oggi, qui, sembrano pensare la stessa cosa.
Dopo il pranzo con le famiglie che abbiamo conosciuto riprendiamo il viaggio. Sulla strada, l’occupazione si fa più pesante. Quello che abbiamo visto ci racconta una Palestina al collasso, dove anche il poco lavoro che consentiva di sopravvivere si è fermato e dove gli arresti e le uccisioni sono aumentate in modo esponenziale. Ma ci raccontano anche di una Palestina che non ha paura del futuro e che continua a resistere, nonostante tutto.