“Siamo tutti per Gaza, siamo tutti per la Palestina”: Perchè la piazza araba non si è mobilitata per la Palestina

Una mappatura dei più importanti movimenti arabi per la Palestina, poco presenti nella cartina della solidarietà internazionale degli ultimi due anni.

Un gruppo di persone in protesta con bandiera palestinese e striscioni.
Manifestazione pro-Palestina dopo il raid israeliano sulla Freedom Flotilla. Fez, Marocco.
Wikimedia Commons

Una delle domande più ricorrenti tra coloro che hanno seguito la crisi in corso in Palestina in questi mesi è perchè la piazza araba non si sia mobilitata per la Palestina. Benchè la posizione dei paesi arabi è stata di per sè sconcertante, la sorpresa più grande è stata l’inazione dei popoli. È impossibile negare quanto la questione palestinese sia storicamente nei cuori degli arabi e delle popolazioni del Medio Oriente, come chiaramente mostra un recente sondaggio1. Tuttavia questa passione non si è trasformata, se non in qualche rara eccezione, in impegno politico organizzato.

Questo articolo propone un excursus sui movimenti di mobilitazione che hanno tentato di smuovere questo torpore, soffermandosi su tre casi in particolare: Marocco, Tunisia e Giordania. Come si vedrà, dietro questo attivismo c’è la sinistra radicale e una nascente corrente antimperialista2 Inoltre, è importante anticipare anche che le mobilitazioni più importanti sono avvenute laddove è intervenuto il pubblico di matrice islamista: il che fa aleggiare uno spettro pesante sulla questione, e cioè la repressione dei Fratelli Musulmani (FM) in molti paesi ed il peso della settarianizzazione della politica regionale. Dove i FM hanno subito una pesante repressione, Egitto e Tunisia, le mobilitazioni sono state scarse (Tunisia) o pressocché inesistenti (Egitto); mentre hanno raggiunto livelli importanti dove la presenza islamista in generale è viva (Marocco e Giordania). Nei contesti in cui l’islamismo sciita è presente come forza di resistenza, invece, i suoi avversari l’hanno respinta nel ghetto del settarianismo pro-Iran, riducendone l’appeal3. L’articolo inoltre attira l’attenzione su una recente iniziativa politica guidata dal carismatico intellettuale-giornalista libanese Nasser Qandil che, partendo da uno strato ideologico panarabista e di sinistra, ma aperto all’islamismo politico di resistenza, si propone di raggruppare e superare questo ghetto ideologico e politico per rilanciare la “Palestina” e l’anti-imperialismo” come questione centrale nel mondo arabo e islamico.

La mobilitazione in Marocco

Nel caso del Marocco, il dato saliente è stato quello di avere due importanti movimenti islamisti: il PJD (Partito Giustizia e Sviluppo, nella sigla francese), di matrice frerista ma post-islamista4, e al-‘Adl Wal-Ihsan, un movimento islamista non frerista. Il Marocco, guidato di fatto dal “circolo reale” o makhzen, ha imposto al paese la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele nel 2020. Questa decisione è costata la credibilità politica al PJD, partito di governo all’epoca, che ha cercato di rimediare più recentemente capeggiando il “gruppo per l’azione a favore della Palestina” (Majmu‘ al-amal min ajl Filastin)5.

La questione della normalizzazione dei rapporti con Israele, a cui è legata anche la questione dei cosiddetti accordi di Abramo sponsorizzati dall’amministrazione americana nello stesso anno, sono al centro del dibattito sulla Palestina e sull’orientamento filo-occidentale del paese6. Il “Fronte marocchino per il sostegno alla Palestina e contro la normalizzazione” è stato quindi il riferimento principale delle mobilitazioni che si sono succedute dal 2023, in cui questa questione va di pari passo con la denuncia dei massacri a Gaza. Fanno parte di questa coalizione le tradizionali forze di opposizione al makhzen che si erano già ritrovate nel movimento “20 febbraio” del 2011, di cui i partiti di sinistra “partito socialista unificato” della carismatica leader Nabila Mounib e il partito “la via democratica”. È l’adesione al fronte del movimento islamista al-‘Adl Wal-Ihsan che ha fatto sì tuttavia che le mobilitazioni si trasformassero in momenti di partecipazione di massa, soprattutto nelle grandi città come Rabat, Casablanca, Marakkesh e Tangeri dove in centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza dal 2023 fino a oggi.

La mobilitazione in Tunisia

Con simili caratteristiche di organizzazione politica, le mobilitazioni in Tunisia hanno avuto un impatto molto inferiore rispetto a quelle in Marocco e in Giordania: e questo, a dispetto di un contesto politico generalmente favorevole. Il regime del presidente Kais Saied è infatti nettamente schierato sul “fronte della resistenza”. La differenza con gli altri due casi presi in considerazione sta proprio nel fatto della mancanza sulla scena di un partito islamista di massa organizzato. È difficile sapere come il Nahda si sarebbe schierato se fosse stato libero di agire (la maggior parte della leadership del partito è in prigione). Il Nahda, come il PJD, è un partito post-islamista, che ha quindi accettato il liberalismo di influenza anglosassone. È certo che nelle grandi mobilitazioni di massa contro la prima e la seconda guerra americana in Iraq, gli islamisti erano la forza maggiore, oltre alla solita presenza della sinistra sindacalista e radicale.

Le mobilitazioni per la Palestina sono state coordinate da un fronte di forze politiche e attiviste chiamato “Coordinamento per l’azione congiunta per la Palestina”7. Sul modello marocchino, questa coalizione di forze ha cercato di mobilitare la popolazione su questioni come il boicotaggio dei supermercati Carrefour e della società internazionale di trasporto marittimo Mersk; o anche in azioni davanti l’ambasciata americana. La differenza con il Marocco è l’assenza della partecipazione di massa, che in ques’ultimo come abbiamo visto è stata favorita dalla capacità di mobilitazione degli islamisti. Le mobilitazioni principali sono state davanti al teatro municipale di Tunisi, dove il massimo della mobilitazione ha raggiuto poche migliaia di persone. Il peso politico e ideologico maggiore delle mobilitazioni in Tunisia è stato dato dal panarabismo nasseriano del piccolo partito al-Tayār al-sha‘bi (“Corrente popolare”), la cui figura di riferimento è Mbarka Brahmi, fautrice tra l’altro di uno sciopero della fame per la Palestina.

La Tunisia è diventata il centro delle mobilitazioni pro-Palestina con l’inizio dell’esperienza di Sumud, senza’altro la più originale e significativa delle iniziative provenienti dal mondo arabo. Essa è nata dallo stesso ambiente di mobilitazione del su citato “coordinamento per la Palestina” che ha visto in Wael Nawar la sua figura più mediatica. Sumud consiste nella formazione di una ‘caravana’ terrestre di aiuti umanitari che si è diretta da Tunisi verso il valico di Rafah, per raggiungere l’iniziativa in Egitto (giugno 2025) di un altro convoglio internazionale - Marcia su Gaza -, nel tentativo di rompere insieme l’embargo umanitario imposto da Israele a Gaza.

La mobilitazione giordana

La Giordania, prima che si spegnesse il focolare della protesta nel 2025, e forse più del Marocco, era stato il centro (e la speranza) delle mobilitazioni dei paesi arabi a favore della Palestina. Le mobilitazioni giordane sono cruciali per l’importanza del paese nell’equazione del conflitto palestinese, essendo la Giordania, insieme all’Egitto, l’asse del ‘sistema di sicurezza’ costruito dagli Stati Uniti per proteggere Israele8. La Giordania è formata oltretutto da una popolazione per la metà palestinese o di origine palestinese.

Come in Marocco, è la presenza di un partito islamista di massa ben organizzato, questa volta legato diretttamente ai Fratelli Musulmani, che ha fatto la differenza nelle mobilitazioni. Il partito di Azione Islamica, espressione politica dei FM, ha vinto le elezioni parlamentari nel novembre 2024 proprio sull’onda lunga delle proteste di cui questi sono stati infatti i maggiori fautori. La Giordania, come e più del Marocco, è un paese i cui rapporti di normalizzazione con lo stato di Israele sono un fattore di instabilità per il paese ma unificante per le proteste pro-Palestina. Anche in Giordania esiste una presenza qualitativamnete importante di attivisti della sinistra antimperialista – tra cui il partito Hizb al-Wihda, partito derivante dal “partito democratico giordano di unità popolare”9.

I manifestanti sono scesi in piazza a decine di migliaia soprattutto nel 2023 e nel 2024, per poi scemare e quasi scomparire. Da un certo punto in poi, la repressione delle mobilitazioni si è fatta più dura. Ciò ha coinciso non a caso con la chiusura dell’ufficio dei FM. La Giordania è una polveriera, come hanno dimostrato anche le operazioni fedayeen compiute in due occasioni al ponte Allenby10; e la penetrazione di due giovani giordani armati dentro la Cisgiordania Occupata per compiere azioni a sostegno della resistenza palestinese.

Il paese hashemita ha una tradizione di mobilitazioni contro la normalizzazione con Israele che risale agli anni ’9011. Infine, l’affiliazione ideologica chiara di molti manifestanti ai FM e ad Hamas rende il contesto giordano particolarmente sensibile, considerando l’orientamento geopolitico del paese.

“Siamo tutti per Gaza, siamo tutti per la Palestina”

Tra la fine di agosto e l’inizio dello scorso settembre è nata una nuova iniziativa, “Siamo tutti per Gaza siamo tutti per la Palestina”, dalla stessa area culturale e ideologica della corrente antimperialista. In parte ne recupera lo spirito e l’orientamento ideologico, in parte cerca di superarlo. Secondo Medhat Abu Rob, uno degli attivisti animatori della “rete”, questa iniziativa nasce come sviluppo del Fourm Saif al-Quds, un’iniziativa online promossa dall’intellettuale libanese Nasser Qandil ed un gruppo ristretto di intellettuali “uniti dalla causa palestinese e dalla resistenza contro l’egemonia americana”. La rete si organizza come struttura flessibile ma formale, con propri coordinatori a livello centrale e locale. Come dice il suo stesso documento programmatico12, essa si propone di includere le esperienze di lotta pro-Palestina esistenti in maniera più ampia possibile. L’organizzazione è animata da attivisti storici per la causa palestinese (molti dei quali sono essi stessi palestinesi) come Nihad Abu Ghosh, Issam Hijjawi, Omar Assaf, Michel Shehadeh, Hind Yahya e Mbarka Brahmi (queste ultime due tunisine).

Essa è stata per ora protagonista di due iniziative di “sciopero della fame mondiale”, il 16 e il 23 settembre 2025. Hanno partecipato alla mobilitazione in contemporanea circa 10000 attivisti in più di 100 città del mondo. Secondo Nasser Qandil, tra i successi maggiori delle due iniziative è da annoverare quello di aver portato la mobilitazione pro-Palestina in paesi arabi con regimi fortemente repressivi come Siria, Egitto, Bahrein e Arabia Saudita13. Tuttavia la rete mira a coinvolgere i cittadini di tutti il mondo e a trasformare la liberazione della Palestina in una causa mondiale.

Nasser Qandil, e il gruppo di giovani che lo seguono, rappresentano l’anima del movimento. Qandil è un intellettuale libanese molto noto, soprattutto negli ambienti legati alla Resistenza. Giovane militante rivoluzionario guevarista all’inizio degli anni ‘80 - quando ha partecipato tra le barricate alla difesa di Beirut contro le forze di invasione israeliane –, si è impegnato per il resto della sua vita al giornalismo militante: una matrice comune a molti membri fondatori della rete. La sua voce di commentatore dei fatti politici della resistenza libanese e palestinese è cresciuta vertiginosamente grazie al suo canale Youtube (il canale ha più di 300.000 iscritti). A partire dal 2023, Qandil si è fatto portavoce del “pubblico della resistenza”, che include i sostenitori della resistenza palestinese nel quadro del cosiddetto “fronte di sostegno”. Egli commenta quotidianamente dal suo canale youtube i fatti del giorno, che sono in effetti la traduzione in discorso libero degli editoriali che egli scrive quotidianamente per il giornale al-binā’ (La costruzione). Ciò gli ha permesso di svolgere il ruolo di portavoce di tutti quelli che nella regione sono frustrati dall’inattivismo dei loro governi. Qandil è anche il rappresentante di quella corrente ideologica che si identifica con la resistenza palestinese e che mira a superare la barriera ideologica tra islamismo di resistenza (Hamas, Hezbollah, Jihad Islamica e Ansar Allah) e forze di sinistra, nel quadro della lotta antimperialista.

Uno dei limiti politici dell’azione di Hamas del 7 ottobre 2023 dal punto di vista di una azione di resistenza contro l’occupazione, è stato proprio l’incapacità di mobilitare le masse arabe. Mohammad Deif, l’ideologo dell’operazione, aveva lanciato un appello in questo senso al momento stesso in cui aveva rivendicato l’azione con un messaggio audio. L’inimicizia dei governi arabi e di una parte dell’opinione pubblica verso i Fratelli Musulmani e l’asse della resistenza (a cui i gruppi di resistenza palestinese hanno aderito), hanno senz’altro giocato un ruolo nel frustrare l’afflato di mobilitazione. Resta da capire se esiste uno spazio politico che possa trasformare l’indignazione delle popolazioni della regione in un progetto anti-egemonico e antimperialista. Il fattore settario è ormai superato dagli eventi, poiché la “mezza luna sciita” dopo la caduta della Siria di Asad non esiste più, e l’alleanza con i gruppi palestinesi sunniti smentisce di fatto il teorema settario. Resta il fatto che né la sinistra né i gruppi di matrice nazionalista araba riescono a mobilitare le masse. Un’alleanza tra islamisti e sinistra antimperialista potrebbe essere una possibilità, sul modello del progetto di Nasser Qandil. Ma per ora è prematuro fare una previsione in tal senso. Tanta acqua deve ancora passare sotto i ponti.

1Arab Center (2024). “Arab Public Opinion About Israel’s War on Gaza,” Arab Center, Washington DC, February 8, 2024 https://arabcenterdc.org/resource/arab-public-opinion-about-israels-war-on-gaza/

2Questo termine traduce l’espressione in arabo “al-yasar al-watani” e “dud al-haymana al-amrikaniyya”, letteralmente “la sinistra patriottica” e “contro l’egemonia americana”.

3In questo quadro generale fa eccezione il caso dello Yemen. Rappresentando un caso a sé stante con dinamiche complesse proprie, non verrà considerato in questo articolo.

4Per “frerista” si intende quella organizzazione politica di matrice ideologica “Fratelli Musulmani”, per “post-islamismo”, gli stessi movimenti che erano all’origine islamisti ma ne hanno superato i principi fondativi per abbracciare quelli della democrazia liberale.

5Intervista con Sadek Errouen, attivista delle mobilitazioni a Marakkesh.

6El Metmari, M. (2025), “Normalization is tearing Morocco apart”, Raseef. https://raseef22.net/english/article/1100483-normalization-is-tearing-morocco-apart

7Ad un certo punto è apparsa anche la sigla “Rete tunisina contro il sistema di normalizzazione”, ma si tratta probabilmente delle stesse persone.

8Gli USA hanno designato la Giordania nel 1996 “maggiore paese alleato non Nato”.

9Ryan,Curtis R. (2024) The Impact of the Gaza War on Jordan’s Domestic and International Politics, Middle East political science. https://pomeps.org/the-impact-of-the-gaza-war-on-jordans-domestic-and-international-politics.

10L’ultima di queste azioni è avvenuta il 18 settembre 2025, dove due soldati israeliani di frontiera sono stati uccisi da un camionista in pensione.

11Schwedler, J. (2023) “Palestine and the Limits of Permissible Protest in Jordan.” Merip. https://merip.org/2024/01/jordan-palestine-and-permissible-protest/

12L’autore ne ha avuto accesso privatamente.

13Qandil, N. “banurama – al-idrab an al-ta‘am”. September 17 – 2025. https://www.youtube.com/watch?v=HSGQ-0RmR_o&t=480s

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