Vent’anni, 57 chili, come atleta è cresciuto alla “El Barrio Gym”, la palestra di Ramallah in Palestina gestita da Nader Jayyousi, tecnico e membro della Federazione di Pugilato palestinese, che abbiamo incontrato a pochi giorni dall’incontro atteso a Parigi.
Con Nader e l’allora quindicenne Waseem Abu Sal ci siamo conosciuti nel gennaio del 2019, grazie ad un incontro avvenuto nella loro palestra di Ramallah nell’ambito di “Boxe contro l’assedio”: un progetto di scambio sportivo tra pugili palestinesi e italiani, coordinato dall’organizzazione non-governativa palermitana CISS e che ha coinvolto le palestre romane “Valerio Verbano” e “Quarticciolo”, la palestra popolare di Palermo e quella del Dopolavoro ferroviario di Velletri.
Waseem allora era alto la metà di quanto è alto ora, ed era uno dei tanti ragazzi e ragazze che si allenavano a “El Barrio”, sotto lo sguardo attento di coach Nader. Saperlo oggi a Parigi è un orgoglio per lui e per la sua palestra, ma come ci tiene a precisare, è un risultato collettivo.
“Quando ho aperto la mia palestra a Ramallah ho messo subito i cerchi olimpici sul tappeto del ring: era un simbolo. Dal primo giorno in cui ho iniziato sapevo di voler arrivare lì: sono molto orgoglioso di esserci riuscito insieme a Waseem, come lo sono di tutti i miei pugili”, racconta fiero.
“Ora, la cosa più importante è ascoltare, ascoltarlo e ascoltarmi. Quando i miei pugili sono frustrati, dico loro, sapete, anche se ora non va, crescerete e potrete raggiungere un livello più alto nella boxe. Sì, sono orgoglioso, perché ora posso vedere che la mia visione sta prendendo vita, ora vedo che tutto ciò di cui ho parlato sta diventando realtà. E, sai, credo che questo sia un pugile davvero bravo”.
Lo sport come gesto politico
Quello di Parigi è un evento storico non solo per Waseem Abu Sal e per la palestra di Ramallah, ma per il portato politico e simbolico che ha per la Palestina e per la sua legittimità a livello internazionale, che passa anche attraverso lo sport: come tanti diritti violati, con l’occupazione israeliana diventa molto difficile partecipare e competere nel mondo per via della limitazione della libertà di movimento di atleti e atlete. E oggi che la questione palestinese è tornata sulle prime pagine dei giornali con il genocidio che Gaza sta subendo, poter rappresentare la Palestina e sventolare la sua bandiera - per la prima volta nel pugilato alle Olimpiadi - è ancora più simbolico e importante.
Che lo sport possa diventare fortemente politico non è una novità, come ricordano numerosi esempi della storia: dal pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, alzato verso il cielo a Città del Messico durante le Olimpiadi del 1968 come simbolo della protesta per i diritti civili dei neri; fino ad arrivare ai giorni nostri, quando due anni fa i giocatori afroamericani di Football e di Basket si sono inginocchiati durante l’inno americano per protestare contro l’omicidio di George Floyd e la violenza della polizia statunitense.
“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo”, sosteneva Nelson Mandela, convinto che il riscatto sociale e la coesione nel Sudafrica diviso dall’apartheid potessero passare anche attraverso il rugby, sport tradizionalmente praticato dalla minoranza bianca.
Lo sport ha il potere di ispirare, di unire le persone. Parla ai giovani in un linguaggio che loro comprendono. Ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione, ed è più potente dei governi nell’abbattere barriere, ridendo in faccia a tutte le discriminazioni.
E il significato di questo evento oggi, dopo 9 mesi di genicidio contro la popolazione della Striscia di Gaza, sembra proprio questo. E ce lo ricorda Nader quando gli chiediamo come va, se si sentono pronti:
“Abbiamo molto lavoro da fare. Ma con tutto ciò che accade a Gaza e tutto ciò che accade qui, non è affatto facile”, ammette. Ci parla delle difficoltà incontrate per ottenere i visti necessari per uscire dal paese e combattere; di come il governo israeliano abbia rallentato in più fasi il loro lavoro. E quando gli chiediamo perché, quali fossero le intenzioni di Israele, la risposta è eloquente.
“Dal Comitato Olimpico Israele non vuole niente. È al popolo palestinese che vuole impedire di partecipare. Come è successo a Londra”, ricorda, quando le difficoltà per gli atleti palestinesi sono state moltissime, tra negazioni di visti per consentire la partecipazione e limitazioni alla libertà di movimento. “Tutto ciò che ha a che fare con la Palestina è un problema per loro. Cercano di sabotarci, di rendere impossibile la nostra partecipazione”, commenta Nader.
Il sogno di una medaglia, e della liberazione
Da quel gennaio 2019 Waseem si è allenato duramente, ha superato diversi tornei di qualificazione olimpica, come la prova dei Giochi asiatici nel settembre 2023. Il 5 luglio era a Nancy, dove ha partecipato a un grande ritiro internazionale per tutti gli olimpionici in Francia. Nader lo raggiungerà lì tra qualche giorno ed è in apprensione per il suo atleta che, giovanissimo, ha un’enorme responsabilità. “È ancora molto giovane, non voglio che arrivi a Parigi pensando di dover dimostrare di essere all’altezza. Deve crescere come persona e come atleta, per questo ci sentiamo diverse volte al giorno per esaminare gli allenamenti e gli aspetti tecnici”, racconta.
Nader segue il suo atleta a distanza. Con le restrizioni imposte da Israele, non è sicuro di poter fare il suo angolo a Parigi. Ma Waseem è in buone mani: al suo fianco ci sarà sicuramente Ahmed Harara, pugile professionista palestinese nato e cresciuto a Gaza.
Anche lui, come Waseem, ha iniziato a praticare sport sin da bambino, anche per alleviare lo stress causato dall’assedio militare israeliano: era un pugile molto talentuoso ed ha raggiunto alti livelli, fino alle qualificazioni nazionali. Nel 2014 ha partecipato ad un incontro in Marocco vincendo il bronzo, in quella che è stata la sua prima gara internazionale. Vivere a Gaza e non poter viaggiare liberamente a causa dei divieti imposti dalle autorità israeliane non gli consentiva di crescere; per questo ha deciso di spostarsi in Egitto, dove riusciva a sopravvivere a stento. Qui grazie al supporto di un tecnico di pugilato molto anziano, in poco tempo Harara è riuscito a vincere 14 incontri consecutivi oltre che il titolo di campione del Medio Oriente e del mondo arabo nel 2021.
Oggi ha un dottorato di ricerca in metodologia della formazione e sarà lui l’angolo di Waseem a Parigi.
Un rapporto, quello che lega Nader, Waseem e Harara, che porta con sé una doppia battaglia: quella per una medaglia olimpica nel pugilato e quella per il riconoscimento e la liberazione della Palestina.
La prima volta di un pugile palestinese alle Olimpiadi
“Per la prima volta nella storia un pugile palestinese andrà alle Olimpiadi. Questa è già una vittoria. Ma è solo l’inizio: voglio vederne centinaia”, racconta Nader. “Qualche giorno fa una mamma palestinese mi ha raccontato che suo figlio di 5 anni, in un compito scolastico, ha parlato di Waseem scrivendo che è il suo esempio e la sua ispirazione. E’ questo il significato del nostro lavoro. Quando senti racconti come questi capisci quale enorme responsabilità portiamo sulle spalle”, riflette.
A pochi giorni dal match, Nader ricorda che non è importante il risultato ma il percorso fatto. Che Parigi non deve essere considerato un arrivo, ma solo un punto di partenza.
Non ci fermiamo in Francia, continuiamo. Se oggi abbiamo un pugile sul tappeto, domani ne avremo tre. Ci aspetta un lavoro collettivo, non solo a ‘El Barrio’, ma per tutta la Palestina, dalla Striscia di Gaza a Gerusalemme. L’incontro che ci attende alle Olimpiadi è davvero una pietra miliare per il pugilato palestinese, ma non è un traguardo: è solo un punto di partenza.
Salutiamo Nader in attesa di questo storico match. Ci promettiamo di provare ad incontrarci presto in Francia dopo l’incontro. Consapevoli che, comunque vada, è già una vittoria.