Verità e giustizia per Giulio Regeni. A Roma riparte il processo

Dopo essersi bloccato nel 2021, riparte il processo per l’omicidio di Giulio Regeni. È servito l’intervento della Corte costituzionale per poter andare avanti con un procedimento combattuto ormai a colpi di tecnicismi giudiziari e di discussioni in punta di diritto. “Verità per Giulio” è ciò che si continua a chiedere in Italia, a 8 anni dall’omicidio del giovane ricercatore.

Giacomo Alessandroni/Wikimedia Commons

Ogni volta che nella cittadella giudiziaria di Roma si celebra un’udienza sul caso Regeni, appare uno striscione giallo che recita: “Verità per Giulio”. Lo appendono gli attivisti della campagna che da otto anni sostengono la famiglia del giovane ricercatore di Fiumicello rapito al Cairo il 25 gennaio del 2016 e poi ritrovato senza vita, 9 giorni dopo e con evidenti segni di tortura, alla periferia della capitale egiziana. Stanno davanti ai cancelli del tribunale e aspettano silenziosi.

Il 20 febbraio scorso a Piazzale Clodio, sede della Procura della Repubblica, pioveva a dirotto. Ma chi ha appeso quello striscione lo ha fatto con uno spirito diverso. Perché il processo è iniziato, di nuovo, dopo essersi bloccato nel 2021. E questa volta potrebbe andare avanti.

L’intervento della Corte costituzionale

Gli imputati sono quattro agenti della National Security egiziana: i colonnelli Husan Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif e il generale Tariq Sabir. Nomi noti da anni ma a cui non è mai stato possibile abbinare un domicilio. L’Egitto non lo ha mai fornito e la Procura di Roma non ha potuto inviare alcuna comunicazione. Una situazione che aveva portato la richiesta di rinvio a giudizio a un binario morto.

È servito un intervento della Corte costituzionale che ha deciso che il procedimento dovesse andare avanti nonostante i soggetti interessati non avessero mai ricevuto la notifica. Si può procedere lo stesso, ha detto la Consulta lo scorso settembre, anche se il nostro codice di procedura penale dice diversamente. Nel suo pronunciamento, ha specificato che questa eccezione vale solo per i casi di tortura statale, solo a carico di agenti pubblici e solo quando lo Stato estero di appartenenza degli imputati non ha fornito la collaborazione necessaria per rintracciarli.

Una conquista che non era scontata ma che potrebbe, anche solo simbolicamente, restituire un pezzo di verità. In tanti lo sperano in questa prima udienza anche se, dall’altra parte del Mediterraneo, il caso è chiuso, e qualunque forma di collaborazione dall’Egitto sembra impossibile.

Il braccio di ferro giudiziario

Ormai, dopo 8 anni, la vicenda di Giulio Regeni non è più il racconto del contesto in cui è avvenuto, ossia una dittatura feroce che usa la tortura come elemento sistematico di repressione, ma quello di tecnicismi giudiziari e di discussioni fatte in punta di diritto. Da un lato la Procura di Roma che ha provato a superare la mancanza di elementi che l’Egitto non ha mai fornito e di cui i domicili dei quattro agenti sono solo l’apice. Dall’altro, la difesa di ufficio che da sempre ribadisce che queste mancanze compromettono il processo.

Un braccio di ferro che si è riverberato anche nella prima udienza del 20 febbraio. “Così non sono in grado di difendere il mio assistito”, ha detto Tranquillino Sarno, avvocato di Athar Kamel Mohamed Ibrahim, affermando che non viene addebitata una singola condotta al suo assistito.

Non ho mai chiesto la nullità degli atti perché manca il giorno di nascita. Capisco che questo sia un processo particolare, ma per il mio assistito manca il giorno, il mese e l’anno di nascita. E anche il luogo.

Il Pm Colaiocco ha risposto che la Corte costituzionale non dice che è necessario comunicare all’Egitto che la norma è cambiata e sull’identificazione ha rassicurato che

produrrà i verbali nei quali c’è l’identificazione dei quattro imputati È avvenuta non da parte di un soggetto qualsiasi ma dalla magistratura egiziana che ha identificato con un documento di identità poi trasmesso con una rogatoria internazionale.

Gli avvocati difensori hanno chiesto ai giudici di dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio e la decisione arriverà il prossimo 18 marzo. Incognite su incognite che, a vedere le carte, si allargano anche ai testimoni che dovrebbero presentarsi in aula. La lista testi depositata dalle parti è molto lunga: dal presidente della Repubblica egiziana, ‘Abdel Fattah al-Sisi, all’ex premier Matteo Renzi passando per l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi.

La maggior parte delle personalità più rilevanti si trova in Egitto. Per farli comparire davanti alla Corte di Assise di Roma, il governo del Cairo dovrebbe consentire gli avvisi a comparire, la notifica degli atti e, in alcuni casi, permettere l’espatrio delle persone convocate a testimoniare.

La situazione è ancora più complicata sui testimoni chiave.

La procura di Roma, nel dicembre del 2020, ha indicato cinque persone: si chiamano Alfa, Beta, Gamma, Delta ed Epsilon. Cinque lettere dell’alfabeto greco usate per tutelare la loro identità. Per gli inquirenti, le loro deposizioni hanno portato a fare luce sull’omicidio di Giulio Regeni. Le prime due sostengono che Giulio era finito nel mirino dall’intelligence già da alcune settimane prima della sua scomparsa e che quindi la sua sparizione sia stata in qualche modo pianificata.

Le altre tre testimonianze, invece, sono servite a chiarire le fasi del fermo, dell’arresto e delle torture. L’ultima in particolare si sofferma su quelle che potrebbero essere state le ultime ore di Giulio Regeni all’interno di una struttura dei servizi segreti egiziani. Il Pm Colaiocco allora spiegò che si trattava di persone di “diversa nazionalità, diversa estrazione sociale, attività lavorative tra le più disparate che non hanno legami tra di loro”.

Tra Italia ed Egitto rapporti mai davvero incrinati

Le mancanze del fascicolo, in realtà, sono la conseguenza del comportamento del governo del Cairo in questa vicenda. Due cose sono certe: la tortura è una pratica endemica tra le forze di sicurezza egiziane (lo documentano i report delle organizzazioni per i diritti umani) e la giustizia egiziana ha punito raramente i membri delle forze di sicurezza che hanno commesso crimini contro i civili. Nonostante Giulio Regeni fosse un cittadino italiano, Il Cairo ha mantenuto il suo modus operandi: fabbricare delle prove false e temporeggiare per far abbassare l’attenzione sul caso.

In assenza di accordi di cooperazione giudiziaria, i governi italiani che si sono succeduti in questi ultimi otto anni, potevano giocare solo una carta: la pressione diplomatica. Le richieste di collaborazione ci sono state, ma nel momento in cui sono fallite, i rapporti tra il nostro paese e l’Egitto non si sono mai incrinati.

L’unica eccezione è stata il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo. Era l’aprile del 2016. Alcune settimane prima, le autorità egiziane avevano appena inscenato un depistaggio: il ministro degli Interni egiziano, allora, affermò che le forze di sicurezza avevano ucciso "cinque sequestratori di stranieri” sospettati di un legame con la morte di Regeni. E che il passaporto e alcuni documenti del giovane erano stati ritrovati in un’abitazione della banda.

Era una messa in scena. Dopo altre richieste di collaborazione non rispettate, l’allora ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, fece rientrare a Roma l’ambasciatore Maurizio Massari.

Il provvedimento durò solo 17 mesi. Un periodo in cui la collaborazione tra il Cairo e Roma continuava ad andare a singhiozzo. Nell’agosto del 2017 ci fu il ritorno di un nuovo ambasciatore, Giampaolo Cantini. Nonostante fosse stata presentata come una strategia diplomatica per sollecitare la collaborazione tra le due procure, la mossa non produsse alcun risultato.

Ma se almeno per un breve periodo i rapporti diplomatici avevano ricevuto uno scossone, quelli commerciali non sono mai stati messi in discussione. Per l’Egitto, l’Italia è un partner di importanza fondamentale e nessun governo italiano ha mai fatto leva su questo rapporto privilegiato per ottenere risposte dalle autorità del Cairo. La vicenda del maxi-giacimento gasiero di Zohr, scoperto nel 2015 da Eni, è solo uno dei tanti esempi. I lavori sono andati avanti a tempo di record, nonostante si siano svolti proprio nei mesi in cui sono avvenuti l’omicidio di Regeni e i conseguenti depistaggi del governo egiziano.

Il giacimento è stato inaugurato a gennaio del 2018 alla presenza, in Egitto, dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Allora, durante la cerimonia di inaugurazione, il presidente egiziano al-Sisi dichiarò:

Non dimenticherò mai la posizione dell’Italia che ci ha sostenuto tanto nonostante il caso Regeni. Non dimenticheremo questo incidente.

Il caso Patrick Zaki e la vendita di armamenti

A febbraio del 2020 si aggiunge un altro motivo di crisi per i rapporti tra Italia e Egitto. Patrick Zaki, cittadino egiziano che stava frequentando un master all’Università di Bologna, viene arrestato all’aeroporto del Cairo mente tornava dall’Italia.

Ma anche questa vicenda, che si è risolta solo la scorsa estate con la grazia presidenziale per il giovane ricercatore, non ha prodotto alcuna conseguenza sui rapporti diplomatici. Quelli commerciali sono addirittura migliorati.

Pochi mesi dopo l’arresto di Zaki, infatti, si chiude uno degli affari più importanti tra i due paesi. Una maxicommessa da 9 miliardi di euro1. Prevede la fornitura dall’Italia all’Egitto di almeno due fregate Fremm, 24 caccia Eurofighter Typhoon e 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo, più un satellite da osservazione e migliaia di armi leggere prodotte da Beretta.

Il 2020 segna anche la chiusura delle indagini da parte della Procura di Roma del caso Regeni con la conseguente richiesta di rinvio a giudizio dei 4 agenti della National Security.

Da allora il Cairo è rimasto sordo a qualunque richiesta italiana.