Dal Sudafrica a Israele, i tre pilastri dell’apartheid

Che sentimenti prova un attivista sudafricano che ha combattuto contro l’apartheid, nel visitare Israele e i territori palestinesi occupati? Classificazione della popolazione, limitazioni alla libertà di residenza e di movimento, importanza della sicurezza: in base a questi tre principali motori della segregazione, Na’eem Jeenah giudica peggiore l’apartheid israeliano rispetto a quello sudafricano.

Giovani palestinesi tentano di attraversare la barriera di separazione al checkpoint di Qalandia nella Cisgiordania occupata il 9 giugno 2017, per partecipare alla preghiera del venerdì alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme.
Abbas Momani/AFP

Per un sudafricano come me, visitare la Palestina (inclusa la sua parte israeliana) può essere un’esperienza traumatica, che risveglia la memoria di un passato segnato da discriminazioni, “sviluppo separato”, furto della terra, e livelli estremi di violenza e controllo da parte dello Stato. Sapevo delle somiglianze fra il passato sudafricano e il presente palestinese, eppure non c’è conoscenza teorica che potesse prepararmi adeguatamente a un’esperienza che mi ha aggredito dal momento dell’arrivo fino a quello della partenza. Perché per quanto Israele assomigli molto al Sudafrica dell’apartheid, è anche molto, molto peggiore.

Bisogna essere onesti: le nostre spiagge non hanno mai potuto vantare di avere pattuglie militari a passeggio lungo la costa, con i loro bei fucili a tracolla sulle spalle, come si possono vedere nel fare una passeggiata su una qualsiasi “pacifica” spiaggia di Tel Aviv.

Non è quindi difficile capire la rabbia e l’angoscia che ha provato Denis Goldberg, che dopo essere stato condannato insieme a Nelson Mandela – e molti altri – nel famigerato Processo di Rivonia (1964), è stato rilasciato dal governo dell’apartheid sudafricano nel 1985, per essere esiliato in Israele. Poco dopo il suo arrivo, Goldberg ha dichiarato che Israele era l’equivalente mediorientale del Sudafrica dell’apartheid; ha quindi deciso di lasciare il paese e vivere in Gran Bretagna, perché non poteva tollerare le politiche di oppressione perpetrate da Israele. Goldberg è rimasto un sostenitore delle campagne del BDS, il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione israeliana, fino al giorno della sua morte, nel 2020.

Quello che Goldberg ha capito immediatamente dopo essere arrivato in Israele è stato ripetuto nel corso degli ultimi decenni da moltissimi sudafricani “di colore”1, come il nostro ex presidente Kgalema Motlanthe o l’arcivescovo Desmond Tutu, che in un’intervista al Guardian ha dichiarato “Sono rimasto profondamente scioccato dalla mia visita in Terrasanta, perché mi ha ricordato moltissimo quanto accadeva a noi persone nere in Sudafrica”2.

Amnesty International, Human Rights Watch, B’Tselem e molte organizzazioni palestinesi concordano nel definire apartheid quello che Israele commette, sia nei territori occupati che all’interno dei propri confini. Ma per noi sudafricani, l’apartheid israeliano è qualcosa di molto più personale di quello che traspare dal diritto internazionale: è qualcosa che tocca le nostre corde emotive, qualcosa in cui ci possiamo riconoscere facilmente. Alla fine, siamo stati noi ad aver creato la parola “apartheid” e ad averla vista diventare il nostro più celebre prodotto di esportazione.

Per noi, l’apartheid era – ed è ancora – un sistema istituzionalizzato in cui alcune persone subiscono discriminazioni sulla base della loro “razza” o etnia, e altre ricevono maggiori diritti o privilegi sulla base della loro “razza” o etnia. In Sudafrica, questo significava che i bianchi erano privilegiati rispetto alle persone di colore; nel contesto palestinese e israeliano, questo implica che gli ebrei sono privilegiati rispetto ai non-ebrei. Le politiche israeliane costituiscono una forma di apartheid, sia nei territori occupati che all’interno della stessa Israele.

Gli ebrei privilegiati sui non-ebrei

In Sudafrica, il sistema apartheid era fondato su tre pilastri, il primo dei quali era la separazione formale della popolazione in gruppi razziali, sancito dalla Legge di Classificazione della Popolazione (Population Registration Act, 1950). Io, per esempio, ero classificato come “indiano”, al secondo posto in una gerarchia razziale al cui apice si trovavano i “bianchi [Whites]” (talvolta definiti come “europei [Europeans]”), seguiti da “indiani [Indians]”, “meticci [Coloured]”, e “africani [Africans]”.

Ho fatto tutti i miei dodici anni di percorso scolastico in una scuola “indiana”; l’istruzione “indiana” non era buona come quella per i “bianchi”, ma era di gran lunga superiore a quella riservata agli “africani”. Non sono sicuro di quale fosse lo scopo pensato per me in questo sistema, ma era chiaro che cosa erano addestrati a fare gli studenti africani. In un discorso tenuto nel giugno 1954, quello che è considerato l’architetto del sistema apartheid, Hendrik Verwoerd, aveva dichiarato che non c’era “nessun posto” per una persona africana “al di sopra di certe forme di lavoro... per cui a che scopo insegnare matematica a un bambino bantu, che non potrà mai metterla in pratica?”.

Libertà di residenza e movimento

Il secondo pilastro dell’apartheid costringeva i diversi gruppi razziali a vivere in zone geografiche separate, all’interno di ogni città, paese, o area rurale; e limitava inoltre i movimenti di popolazione fra queste diverse zone. Questa divisione costituiva la base per quello che gli architetti sudafricani immaginavano come il “grande apartheid”: lo scopo finale era quello di stabilire delle “patrie [homelands]” (che in seguito sarebbero divenute informalmente note come “bantustan”) per i sudafricani “africani”, ciascuna identificata con un particolare gruppo linguistico africano. Il piano era finalizzato a privare la popolazione africana della cittadinanza e della nazionalità all’interno della “Repubblica del Sudafrica”, e di trasferirne la nazionalità nei bantustan- compresa quella di quanti e quante in quelle zone non vivevano, né avevano mai vissuto.

Un ostacolo a questo piano era rappresentato dalle popolazioni “indiane” e “meticce”, che non potevano essere assegnate a nessun bantustan. Il governo dell’apartheid ha quindi deciso a un certo punto di cooptarci nel “Sudafrica bianco” come soci minoritari, fino al punto di indire delle speciali elezioni parlamentari, in cui questi gruppi avrebbero potuto eleggere i propri rappresentanti in un Parlamento tricamerale. La stragrande maggioranza di noi classificati come “meticci” e “indiani” ha boicottato queste elezioni in segno di protesta, con un tasso di affluenza alle urne che si è aggirato intorno al 2%.

Il ruolo centrale della questione sicurezza

La chiave di volta del sistema era il terzo pilastro: una matrice securitaria repressiva. Gli strumenti repressivi del potere includevano: detenzione amministrativa, tortura, censura, limitazioni alla libertà di movimento [banning], e omicidi extragiudiziali – all’interno come al di fuori dei confini del Sudafrica. Ma l’apparato repressivo del potere non si limitava a colpire gli attivisti e quanti e quante si opponevano all’apartheid. Per me era vietato sposare una donna africana, o restare nello Stato Libero di Orange per più di 24 ore, o di risiedere nella provincia del Transvaal. La mia famiglia ha vissuto per tre anni a Johannesburg, finché non ho compiuto sei anni. Dopodiché siamo dovuti tornare indietro a Durban, perché nessuna scuola di Johannesburg mi avrebbe accettato fra gli iscritti, dal momento che i miei genitori erano “indiani” della provincia del Natal.

L’apartheid israeliano – all’interno dei confini di Israele stesso così come nei territori occupati della Cisgiordania, di Gaza e Gerusalemme Est – è anch’esso fondato, più o meno, sugli stessi tre pilastri. Il primo pilastro separa le persone in gruppi differenti – ebrei e non-ebrei. È la Legge del Ritorno a stabilirlo, promulgata nel 1950 (lo stesso anno in cui il Sudafrica ha emanato, per lo stesso scopo, la Legge di Classificazione della Popolazione). Questa legge definisce chi è ebreo e garantisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di immigrazione in Israele (o nella Palestina occupata). Diversamente da quanto avveniva nel Sudafrica dell’apartheid, dove la cittadinanza degli “africani” era trasferita a nuove entità politiche fittizie, i palestinesi sono privati di qualunque status.

La nuova legge fondamentale del 2018, “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”, dichiara Israele uno “stato ebraico”, nonostante più del 20% della sua popolazione non sia ebrea. Questa legge corrobora inoltre l’idea, contraria ai principi di qualunque democrazia, che cittadinanza e nazionalità siano due cose diverse. Un po’ come se il Sudafrica avesse dichiarato che le persone bianche di tutto il mondo avevano la nazionalità sudafricana, mentre le persone di colore (incluso quelle classificate come “meticce” o “indiane”) potevano essere cittadini ma non nazionali del paese.

Le discriminazioni quotidiane

Le discriminazioni che i palestinesi subiscono in Israele includono il diniego del pieno accesso allo stato sociale, restrizioni su quello che può essere insegnato o appreso a scuola, e limitazioni su certi tipi di lavoro. La legge del 2003 sulla cittadinanza e l’ingresso a Israele, che proibisce alle famiglie palestinesi di riunirsi, è un altro esempio di normativa discriminatoria. Nella Palestina occupata, ai palestinesi è negato il diritto di lasciare il proprio paese o di farvi ritorno, la libertà di movimento e l’accesso alla terra. Questo riguarda anche i palestinesi di Gerusalemme Est, cui è attribuito uno status giuridico separato. La disparità di trattamento fra i due gruppi di popolazione è lampante quando si guarda all’applicazione più severa della legge nei confronti dei palestinesi dei territori occupati, in tribunali separati da quelli ai coloni ebrei, o alle restrizioni nei sistemi di rilascio di permessi e documenti di identità. La discriminazione è palese anche nell’accesso all’acqua nei territori occupati da parte di palestinesi e coloni israeliani; questi ultimi ricevono il grosso dell’acqua, a una frazione del prezzo richiesto ai palestinesi.

In Israele, il secondo pilastro dell’apartheid è sorretto dalla Legge sulle proprietà degli assenti, che assicura il furto della terra su larga scala. Il 93% dei terreni in Israele è classificato come proprietà pubblica, e il 7% come proprietà privata; il demanio pubblico è suddiviso in terreni di proprietà dello Stato e altri di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico. I palestinesi hanno facoltà di possedere solo terreni categorizzati come privati; sicché il 20% della popolazione ha accesso unicamente al 7% della terra – e anche qui, i palestinesi si ritrovano a competere con gli ebrei per averne accesso.

Per quanto, inoltre, Israele non abbia una legge comparabile alla Legge sulle Aree di Gruppo sudafricana, che costringeva i diversi gruppi “razziali” a vivere nelle zone loro assegnate, diverse sentenze pronunciate nei tribunali israeliani hanno sortito lo stesso effetto, proibendo alle famiglie palestinesi di vivere in zone ebraiche. Dal momento che il matrimonio civile in Israele non esiste (tutti i matrimoni sono religiosi), è impossibile per un ebreo o un’ebrea sposare chi ebreo non è. In sovrappiù, la “Legge sulla cittadinanza” in Israele impedisce ai coniugi di cittadini palestinesi di ottenere la cittadinanza, costringendo di fatto molte famiglie palestinesi a lasciare il paese.

La frammentazione dei territori occupati

Nella Palestina occupata, il secondo pilastro dell’apartheid si riflette nella frammentazione del territorio imposta da Israele allo scopo di segregare e dominare. Questo implica il furto israeliano su larga scala dei territori palestinesi, incluso tramite la Barriera di Separazione, che riduce ulteriormente lo spazio disponibile per i palestinesi e li costringe in specifici frammenti geografici; la chiusura ermetica e l’isolamento di Gaza; la separazione di Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania; e politiche edilizie che hanno creato un infrastruttura coloniale che ha scolpito la Cisgiordania in una rete di insediamenti per i coloni ebrei-israeliani ed enclave palestinesi divise fra loro e sotto costante assedio.

Agli ebrei israeliani è proibito accedere in questi bantustan (come ai bianchi era proibito entrare nelle township africane in Sudafrica) ma essi godono di libertà di movimento in tutto il resto del territorio palestinese. I sudafricani trovano l’idea di avere strade separate piuttosto scioccante; non abbiamo mai avuto strade riservate all’uso esclusivo dei bianchi, da cui i neri erano esclusi con la forza.

Il terzo pilastro su cui poggia l’apartheid israeliano consiste nelle sue leggi “securitarie” repressive e nell’apparato di sicurezza, che assomiglia ben poco a quello Sudafrica. Certo, il ricorso a omicidi extragiudiziali (incluso in territorio straniero), tortura, detenzione amministrativa, eccetera eccetera, sono pratiche simili a quelle con cui abbiamo avuto a che fare in Sudafrica. Queste politiche sono sancite dallo Stato, vengono spesso approvate dal sistema giudiziario israeliano, e sono sostenute da leggi militari oppressive e tribunali militari. La “sicurezza” è invocata con successo per giustificare restrizioni alla libertà di opinione, espressione, assemblea, associazione, e movimento dei Palestinesi, per soffocare il dissenso e tenere i Palestinesi sotto controllo. Tuttavia, lo spiegamento di forze dell’apparato repressivo di Israele all’interno dei territori occupati è qualcosa di estraneo all’esperienza dei Sudafricani. Mai, neppure nei giorni peggiori dell’apartheid, abbiamo dovuto assistere a elicotteri e jet da combattimento volare sulle nostre teste, o carri armati pattugliare le aree residenziali per persone di colore, bombardando le nostre case e sparando proiettili e missili contro le nostre scuole.

La questione religiosa, un altro punto in comune

C’è chi sostiene che vi sia un’importante differenza fra i due contesti, ovvero che la religione svolge un ruolo centrale in Palestina laddove non ne aveva nessuno nell’apartheid sudafricano. Si tratta di un abbaglio. L’apartheid sudafricano era giustificato tramite la Bibbia, in modo non molto diverso dall’apartheid israeliano. La mia istruzione “indiana”, l’istruzione “bantu” dei miei amici, e l’istruzione “bianca” dei nipoti di Verwoerd erano tutte parti di quella che era definita “Istruzione Nazionale Cristiana”. La religione è stata uno strumento cruciale di oppressione in Sudafrica così come lo è in Palestina.

I sudafricani si ricordano bene anche che durante i giorni peggiori dell’apartheid, e nel periodo in cui le sanzioni internazionali contro il Sudafrica erano diventate realmente efficaci, Israele è stato uno dei pochi paesi che non ha applicato sanzioni, ma anzi ha attivamente aiutato il Sudafrica a rompere il suo isolamento. Israele aveva relazioni militari e di intelligence importanti con il Sudafrica, e si è associato al Sudafrica nello sviluppo di armi nucleari.

Per quanto i parallelismi fra l’apartheid sudafricano e quello israeliano siano evidenti per noi sudafricani, soprattutto di colore, le politiche, le leggi e le azioni di Israele cui assistiamo sono ben peggiori dell’apartheid che abbiamo dovuto subire in Sudafrica.

1Si è scelto di tradurre la categoria razzista di “Coloured” (definita negativamente dalla Legge di classificazione della popolazione del 1950, come indicante chiunque non fosse né bianco europeo né nero africano) con “meticcio”, anziché lasciarlo in originale oppure optare per alternative meno negativamente connotate come “birazziale”. E inoltre di tradurre l’uso di “Black” da parte di Na’eem Jeenah, che include, in linea con la definizione di Steve Biko, “chiunque faccia parte di un gruppo discriminato in Sudafrica, per legge o tradizione, sul piano politico, economico e sociale” (Biko, I write what I like, 1978), con “di colore”, anziché “nero”, perché credo renda più facilmente comprensibile a chi legge la sua accezione sovraidentitaria, intesa a coinvolgere tutti i gruppi di popolazione categorizzati come non-bianchi nella lotta contro suprematismo bianco e razzismo. NdT

2The Guardian, 29 aprile 2002