Dall’Afghanistan all’Ucraina, ricordi delle guerre russe

Da osservatore della guerra in Afghanistan negli anni ‘80, il politologo Olivier Roy ha potuto osservare da vicino i punti deboli di quella che allora era l’Armata Rossa. Sono passati decenni, al potere c’è Vladimir Putin ma, nonostante gli sforzi e i notevoli finanziamenti, sembra di rivedere la stessa condotta irrazionale sul fronte ucraino, con le stesse terribili conseguenze per le popolazioni.

Soldati russi in un convoglio militare, 6 marzo 2022
Konstantin Mikhalchevsky/ria.ru

Non sono un esperto militare, ma ho seguito da vicino l’azione dell’esercito sovietico in Afghanistan negli anni ‘80. Lì ho visto un esercito che non sapeva combattere e che aveva evidenti problemi strutturali. Poi ho seguito la Prima guerra cecena (1994-1996) mantenendo un po’ più di distanza (da Baku e dall’Asia centrale), e anche lì ho riscontrato le stesse difficoltà che sono state alla base della sconfitta delle truppe russe contro i combattenti ceceni.

L’arrivo al potere di Vladimir Putin, come primo ministro (1999), poi come presidente, sembrava poter cambiare le cose. Con la Seconda guerra cecena abbiamo assistito infatti alla vittoria dei russi (anche se, in linea di principio, non è un’impresa impossibile sconfiggere un paese di 600.000 abitanti quando, dall’altra parte, ce n’è uno di 140 milioni). Sembrava quindi piuttosto chiaro che Putin e il suo entourage avessero imparato la lezione dalle precedenti sconfitte, avviando una coraggiosa politica di riforme militari a tutti i livelli: ovviamente quello tecnologico, ma soprattutto a livello di struttura e addestramento.

L’esercito infatti è stato “snellito” in tutti i sensi (c’è stata una netta riduzione del girovita degli alti ufficiali). Inoltre, l’esercito è stato professionalizzato e sono stati promossi i giovani ufficiali che “lo volevano”. Perfino l’addestramento sembrava essere migliorato, come le condizioni di vita quotidiana dei soldati. Girava voce che anche la corruzione fosse notevolmente diminuita. Lo status sociale degli ufficiali era stato potenziato da campagne di promozione del passato militare sia della Russia che dell’Unione Sovietica, unite nella stessa esaltazione di un impero sicuro di sé. Poi sono arrivate le operazioni in Georgia e Siria che hanno permesso di affinare la dottrina e di testare il nuovo esercito, oltre alle nuove tecniche militari in un vero combattimento sul campo. Eppure, osservando ciò che sta accadendo in Ucraina, mi rendo conto che ci sono sempre le stesse carenze strutturali. Mi limito alla mia esperienza senza pretese di esaustività, ma qui elenco alcuni aspetti che si registrano ancora e che spiegano il motivo per cui l’uso di bombardamenti indiscriminati è una sorta di fuga in avanti.

Uno scarso spirito di corpo

Le truppe in ritirata abbandonano i loro morti. Ciò è comprensibile quando si è sopraffatti da un improvviso attacco di massa nemico, ma né gli ucraini né gli afgani si trovano in un combattimento di massa, sia di fanteria che di artiglieria. Un contingente militare che abbandona i suoi morti denota uno scarso spirito di corpo, una logica del si salvi chi può, o chissà, forse una sorta d’indifferenza o di fatalismo.

I rischi di razzie

I soldati fanno razzie: saccheggiano depositi e rubano galline e polli (in Afghanistan, i soldati si avventavano anche sui frutteti, cosa che chiaramente non è ancora possibile nell’inverno ucraino). Com’è ovvio, ciò denota un grosso problema di approvvigionamento e un soldato che ha fame combatte male. Ma la questione non è solo questa. Quando si fanno razzie, si esce dai ranghi, si va in giro in gruppi di due o tre compagni, e si può quindi facilmente cadere in imboscate. La maggior parte dei prigionieri sovietici che ho incontrato in Afghanistan sono stati catturati in questo modo. E poi quando si rubano delle galline, c’è il problema di pensare a come cucinarle: prima spennarle, quindi accendere il fuoco, poi attendere la brace, e in genere aprire una bottiglia di vodka per ingannare l’attesa. Non proprio il miglior sistema per far fronte ad un avversario mobile, determinato, che conosce il campo e che talvolta ti tiene sott’osservazione da un paio d’ore. Tutto questo può sembrare banale, ma la guerra è anche una storia di soldati semplici.

Il regno dell’ognuno per sé

Le unità corazzate sono isolate e prive di supporto aereo. È stata questa la mia più grande sorpresa in Afghanistan, e oggi la ritroviamo in Ucraina. In pieno giorno, sotto un cielo perfettamente terso, una pattuglia di carri armati e di veicoli blindati viene bloccata, il più delle volte a causa di un guasto ad uno dei veicoli – la mancanza di manutenzione sembra essere un altro dei problemi strutturali. Diventa quindi un facile bersaglio per un piccolo gruppo di guerriglieri o di soldati che dispongono di armi anticarro. Però anche il piccolo gruppo è esposto a rischi perché non sempre è molto ben attrezzato, e spesso circola anche allo scoperto (né l’Afghanistan, né l’Ucraina sono paesi da giungla). I russi hanno il controllo del cielo e i loro elicotteri corazzati M-24 sono molto efficaci; infatti, è raro che quelli che attaccano abbiano missili antiaerei. In ogni resoconto di guerra combattuta da americani o francesi, il supporto aereo ravvicinato arriva al massimo entro un’ora, a meno che le condizioni meteorologiche non lo consentano. Con i russi no, vale a dire ci vogliono diverse ore o non arriva proprio Non è una questione di disponibilità di mezzi aerei, perché li hanno. Senz’altro c’è un problema di comunicazione, ma forse anche qualcosa di più profondo, che riscontriamo nel fatto di non raccogliere i morti: l’indifferenza per la sorte degli altri soldati. Si salvi chi può.

La distanza tra ufficiali e soldati

Parlando con gli ex soldati, si sente sempre la stessa storia: la distanza tra militari di truppa e corpo ufficiali. I soldati si organizzano tra di loro e hanno una loro cultura (compresa la tradizione di un nonnismo molto violento) che non appartiene a una cultura di guerra, ma di sopravvivenza. Una distanza riconosciuta anche dagli stessi sovietici: nel 1972 fu creato il grado di praporščik che fungeva da collante tra le truppe e gli ufficiali, ma veniva conferito a un veterano. Sembra che non ci sia un forte legame nemmeno tra un sergente inglese o un luogotenente francese e i militari di truppa.

In sintesi: macchinosità, mancanza di coordinamento, chiusura tra reparti dell’esercito, tra corpi, tra unità militari e tra soldati e ufficiali, una cultura della sopravvivenza e dell’arrangiarsi, e poi, senza dubbio, una corruzione che sottrae sottobanco benzina, cibo, persino munizioni. A Putin manca ancora un esercito adeguato alle sue ambizioni. Ma il rischio è che il dito poggiato ora sul grilletto vada a posarsi sul pulsante (nucleare). Bisogna aver paura dei frustrati.