Egitto. Al-Sisi, l’illusionista dei diritti umani

Negli ultimi sei mesi, il Cairo ha annunciato una serie di riforme apparenti volte a migliorare il triste primato del paese in materia di diritti umani. In pratica, però, si sono rivelate solo una semplice trovata per far colpo sulla Comunità internazionale e allentare le pressioni sul regime.

Badr City, 16 gennaio 2022. Il nuovissimo “Centro correzionale e di riabilitazione”, foto scattata nel corso di una visita organizzata dal governo per i giornalisti.
Khaled Desouki/AFP

Il 25 ottobre 2021, con una serie di post sui social dai toni enfatici, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato, per la prima volta in quattro anni, l’intenzione di annullare lo stato d’emergenza nel paese, sostenendo che l’Egitto è diventato ormai “un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione”. La fine di questo regime, che concede ampi poteri all’esecutivo e ai servizi segreti impendendo il controllo giudiziario, è stata a lungo una pressante richiesta da parte della società civile egiziana. Ma la svolta si è rivelata presto solo un trucco.

In una dichiarazione rilasciata dopo la fine dello stato d’emergenza, l’Iniziativa Egiziana per i Diritti umani (Egyptian Initiative for Personal Rights, EIPR), una delle principali associazioni per la difesa dei diritti umani del paese, ha fatto notare che, negli ultimi anni, le autorità hanno approvato un “arsenale legislativo repressivo” – che comprende le draconiane leggi anti-manifestazioni e anti-terrorismo - che ha incorporato i poteri dello stato di eccezione nel diritto penale ordinario. In pratica, ciò significa che la sua revoca non comporterebbe sostanziali modifiche in termini di diritti e libertà.

Inoltre, nei giorni successivi alla revoca, l’esecutivo e il potere legislativo egiziano si sono affrettati ad approvare una serie di emendamenti che incorporano le nuove disposizioni, simili a quelle dello stato d’emergenza, in altre leggi, colmando così alcune lacune legislative. Le disposizioni includono un’estensione dei poteri presidenziali contemplati dalla legge anti-terrorismo, nonché un inasprimento delle pene detentive e delle multe stabilite nella stessa legge. Secondo Human Rights Watch (HRW), è stata rafforzata la giurisdizione dei pubblici ministeri e dei tribunali militari sui civili, così come le restrizioni alla pubblicazione di informazioni sulle forze armate.

“La revoca della legge d’emergenza è stata una richiesta concreta e fondamentale da parte dei gruppi per i diritti umani”, spiega Amr Magdi, ricercatore per il Medio Oriente e il Nord Africa per HRW. “Ma subito dopo sono state apportate modifiche a diverse leggi che ripristinano gran parte dei poteri dello stato d’emergenza. La repressione sotto al-Sisi è stata istituzionalizzata a partire dal 2013. Sono molte le leggi in cui sono state introdotte restrizioni e così il governo non ha più bisogno della legge d’emergenza”, osserva.

Misure di facciata

Ma le manovre non si sono fermate qui. Poco prima di annunciare la revoca dello stato d’emergenza, le autorità egiziane hanno avviato almeno cinque processi tenuti in tribunali speciali contro circa cinquanta difensori dei diritti umani, attivisti e militanti politici trattenuti in custodia cautelare per lunghi periodi, secondo HRW. Tra loro ci sono l’ingegnere informatico Alaa Abd el-Fattah, probabilmente il detenuto politico più noto d’Egitto; l’avvocato Mohamed el-Baqer, Abdel Moneim Aboul Fotouh, ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012 e leader del partito “Egitto Forte”; l’ex parlamentare Ziad el-Elaimy ed Ezzat Ghoneim, direttore del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà (ECRF).

Oltre a mostrare un accorto coordinamento tra gli apparati statali, l’inizio dei processi, dopo che i rispettivi casi erano rimasti bloccati per mesi o anni in un lungo periodo di custodia cautelare, ha rivelato la volontà di sottoporli alle condizioni di carattere eccezionale dei tribunali d’emergenza. A tale riguardo, i tribunali speciali non accolgono le istanze d’appello e continuano a giudicare le cause presentate quando era in vigore la legge d’emergenza, anche dopo la sua revoca.

“È questo il gioco a cui stanno giocando: un giorno al-Sisi annuncia che lo stato d’emergenza è stato revocato e una settimana dopo vengono apportate modifiche legislative sostanziali per includere le restrizioni d’emergenza in altre leggi. Ciò mostra la natura del loro gioco e la manovra che stanno cercando di attuare”,

sottolinea Magdi.

Un gioco di prestigio che ha decretato la fine dello stato d’emergenza che però non è un caso isolato, ma fa parte di una serie di misure di facciata sui diritti umani annunciati nei mesi scorsi dall’Egitto e che in pratica si sono rivelati un’opera di “maquillage” destinata a una parte della Comunità internazionale, quella che meno si trova a suo agio con il triste primato del paese in materia di diritti umani. Un gioco delle tre carte che ha portato il Cairo a creare persino una definizione sui generis dei diritti umani, volutamente ampia e vaga, con l’apparente scopo di nascondere la dura crisi in cui è precipitato il paese.

“In realtà, sappiamo che dall’anno scorso sono cambiati solo i proclami, ma non la realtà dei fatti”, osserva Hossam Bahgat, direttore dell’EIPR. “[Tuttavia], il governo egiziano ha guadagnato molto da queste misure di facciata e da questo cambio di rotta”, aggiunge l’avvocato, “di conseguenza, dallo scorso settembre stiamo assistendo a molte meno critiche sulla situazione dei diritti umani in Egitto” da parte di paesi come gli Stati Uniti.

Un altro degli artifici presentati in pompa magna dalle autorità egiziane è la “Strategia nazionale per i diritti umani” che risale all’11 settembre scorso. Il documento, che consta di 78 pagine, definisce per la prima volta un piano di governo quinquennale volto a migliorare la situazione dei diritti umani nel paese, sotto l’egida del Comitato supremo permanente per i diritti umani, stranamente guidato dal ministero degli Affari Esteri.

Una depoliticizzazione dei diritti

Tuttavia, l’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani (Cairo Institute for Human Rights Studies, CIHRS) ha sottolineato che la strategia si basa sulla negazione della profonda crisi dei diritti umani in Egitto, causata dai gravi e sistematici abusi delle sue istituzioni di sicurezza e militari, con la collusione del potere giudiziario e mediatico. L’organizzazione ha rilevato inoltre che il documento, diventato per lo Stato un caposaldo sul tema, codifica un concetto problematico di diritti umani alla maniera egiziana. Una prospettiva che, da un lato, opera una distinzione tra diritti civili e politici – dove si registrano i maggiori abusi. E, dall’altro, tra diritti culturali, sociali ed economici. Ciò consente al Cairo di accordare deliberatamente la priorità a quest’ultima, rivendicando presunti progressi in materia di diritti umani.

“Abbiamo visto che è stato fatto molto di più per promuovere la strategia di quanto non sia stato fatto in termini di riforme effettive attuate”, fa notare Allison McManus, responsabile della ricerca per The Freedom Initiative, un’organizzazione per i diritti umani con sede negli Stati Uniti.

Uno degli aspetti più urgenti della strategia è stato anche quello di affrontare l’uso diffuso della pena di morte in Egitto, negli ultimi anni uno dei paesi in cui sono state applicate più pene capitali al mondo, nonché di riesaminare tutti i reati per i quali la legge egiziana prevede ancora tale pena. Nel 2020, Amnesty International ha documentato più di 100 esecuzioni nel paese, mentre HRW ne ha registrate 51 nella prima metà del 2021. Il ricorso alla pena di morte non sembra tuttavia diminuire, dal momento che il ministero degli Interni ha giustiziato all’inizio di marzo 2022 sette prigionieri condannati per violazioni contro la legge antiterrorismo.

“Ciò che colpisce maggiormente della [strategia] del regime di al-Sisi non è solo il tentativo di rifarsi l’immagine, ma l’assenza di qualsiasi sforzo per far dimenticare alla Comunità internazionale i crimini commessi contro il popolo egiziano. Dopo la pubblicazione del documento, le azioni del regime hanno confermato la valutazione critica data dalle Ong indipendenti in materia di diritti umani. La conclusione è che [la strategia] è in definitiva articolata affinché alcuni politici occidentali possano utilizzarla per giustificare ai loro elettori la loro collusione con i gravi crimini commessi in Egitto”,

dichiara Bahey el-Din Hassan, direttore del CIHRS.

Parallelamente, l’Egitto ha cercato anche di attuare una riforma del suo sistema carcerario, aspramente criticato. Nell’ottobre scorso, le autorità hanno inaugurato in pompa magna un nuovo grande carcere a Wadi al-Natrun, a nord del Cairo, all’altezza di quelli che al-Sisi considera – senza spiegare esattamente cosa intenda – “standard americani”. Si prevede che il carcere ospiterà migliaia di detenuti e che, dopo che sarà entrato in funzione, verranno chiuse fino a dodici carceri nel paese, un quarto del totale. Per l’occasione sono state invitate missioni diplomatiche e corrispondenti che hanno potuto far visita alle sue strutture, comprese le piscine e i campi sportivi, sapientemente valorizzati. A marzo, il Cairo ha anche scelto di ricorrere a eufemismi per edulcorare il lessico carcerario, ad esempio riferendosi ufficialmente al carcere come ad un “centro correzionale e di riabilitazione”, o all’autorità penitenziaria come a “unità di protezione sociale”.

Liberarne alcuni per tenere meglio in gabbia gli altri

Tutto fumo negli occhi che però non ha impedito a gruppi come il Comitato per la giustizia (Committee For Justice, CFJ) di continuare a documentare decine di sparizioni forzate, in particolare all’interno dei centri di detenzione, oltre a casi di tortura e maltrattamenti. Inoltre, tra ottobre e novembre scorso, sono stati registrati una decina di decessi nelle carceri di tutto il paese, la maggior parte dovuti a negligenza.1 Risale all’inizio di aprile la morte sospetta dell’economista egiziano Ayman Hadhoud che ha suscitato grande scalpore. Scomparso all’inizio di febbraio 2022, Hadhoud era stato internato con la forza nell’ospedale psichiatrico del Cairo dove è morto.

“In un incontro privato, un diplomatico occidentale ha detto di sapere bene, così come i diplomatici egiziani e i componenti del Consiglio nazionale per i diritti umani che hanno fatto il giro dell’Europa per parlare [della strategia], che si tratta di un documento in bianco. Tuttavia, era utile per allentare l’imbarazzante pressione dell’opinione pubblica sul nostro capo”,

precisa Bahey el-Din Hassan, direttore del CIHRS.

Negli ultimi mesi, le autorità egiziane hanno inoltre cercato con un colpo di scena di cambiare atteggiamento anche sul trattamento riservato ai prigionieri politici del paese. È per questo che il Cairo ha accettato la liberazione di personalità di spicco come l’attivista politico egiziano-palestinese Ramy Shaath, la biologa del Qatar (e figlia del teologo Yusuf al-Qaradawi) Ola al-Qaradawi e il ricercatore in studi di genere e diritti delle donne Patrick George Zaki, senza contare l’attivista per i diritti umani Sanaa Seïf, sorella di Alaa Abd el-Fattah, e l’attivista per i diritti dei cristiani copti egiziani Ramy Kamel.

Ma nonostante queste scarcerazioni accolte con favore, i gruppi in difesa dei diritti umani insistono sul fatto che si tratti di eccezioni, una goccia nell’oceano, e che ci sono migliaia di prigionieri politici, per lo più anonimi, che rimangono dietro le sbarre. Le organizzazioni come il CFJ continuano a documentare centinaia di detenzioni arbitrarie. Prigionieri politici di spicco come Alaa Abd el-Fattah, el-Baqer e il blogger Mohamed Ibrahim noto come “Ossigeno” sono stati nel frattempo condannati a un lungo periodo di reclusione, senza contare il tempo già trascorso in custodia cautelare, secondo quanto riferiscono le famiglie. Inoltre, anche per coloro che sono stati rilasciati, ad eccezione di chi ha già scontato la pena, i procedimenti giudiziari rimangono ancora formalmente aperti e le accuse a loro carico non sono state prescritte. E in qualche caso, come quello di Ramy Shaath, i detenuti sono stati costretti a rinunciare alla cittadinanza egiziana.

“Anche se una sola famiglia può dormire sonni tranquilli la notte perché i suoi parenti sono stati scarcerati, questo rappresenta un ottimo risultato sotto il regime repressivo di al-Sisi. Ma non sono segnali di una svolta politica”,

secondo il parere di Magdi dell’organizzazione HRW.

“2022, l’anno della società civile"

Da un punto di vista simbolico, il Parlamento egiziano ha approvato nell’ottobre 2021 la ricostituzione del Consiglio nazionale per i diritti umani (National Council for Human Rights, NCHR), un organismo di 27 membri guidato dall’ex ambasciatrice Moshira Khattab e personalità che intrattengono stretti rapporti con i diplomatici stranieri al Cairo. A metà gennaio, durante la cerimonia di chiusura del Forum Mondiale della Gioventù tenutosi nella città di Sharm el-Sheikh, nel sud del Sinai, il presidente al-Sisi ha dichiarato ufficialmente che il 2022 sarà “l’anno della società civile”.

Pochi giorni prima di quest’ultimo comunicato, la Rete araba d’informazione per i diritti umani (ANHRI), prestigiosa organizzazione attiva dal 2004, ha annunciato pubblicamente la sospensione delle sue operazioni e attività, adducendo come motivo il crescente disprezzo per lo stato di diritto in Egitto oltre ai crescenti abusi di potere da parte della polizia.

Inoltre, a pochi giorni dall’annuncio, il governo ha deciso all’ultimo momento di prorogare di un anno, fino a gennaio 2023, il termine ultimo dato alle Ong per legalizzare il proprio status nel paese. Al momento della concessione della proroga, oltre il 40% delle organizzazioni della società civile non erano state in grado di risolvere la propria situazione giuridica nel quadro normativo della nuova legge che le regolamenta, e che è stata criticata per aver stabilito restrizioni draconiane sui loro finanziamenti e sulle loro attività.

“Non si può negare né sottovalutare lo sforzo compiuto da alcuni membri del NCHR”, sostiene Magdi. “So che ci sono persone che stanno facendo sforzi sinceri per rilasciare i detenuti e incoraggiare il governo di al-Sisi a cambiare rotta; quindi, penso che sia importante riconoscere i loro sforzi. Metto solo in dubbio l’efficacia e i limiti della loro azione”.

1Tra le vittime figura anche l’ex parlamentare Hamdi Hassan, morto dopo che si era visto negare l’accesso alle cure per otto anni, sempre stando al CFJ. NdR