La prima cosa da capire è che non è facile per le autorità sanitarie avere dati precisi sulle mortalità, sui feriti, ma anche sulle infrastrutture. Il più delle volte i mezzi di comunicazione non funzionano, ma qui si muore ogni giorno. Il bilancio delle vittime è inferiore alla realtà perché non tiene conto di chi è rimasto sotto le macerie o di chi non ha potuto ricevere un’assistenza medica.
È da tempo ormai che la maggior parte degli ospedali funziona solo in parte o ha smesso di funzionare. Molti sono diventati degli obitori. Ci sono anche strutture sanitarie che funzionano ancora, ma bisogna mettersi d’accordo sul significato del termine “funzionare”: stiamo parlando di ospedali che operano al 300% delle proprie capacità, sovraffollati di malati, feriti e famiglie accorse lì per accompagnarli, o di persone che si recano in ospedale solo per trovare un rifugio. Ma finché gli ospedali possono ancora ricevere i feriti, sono considerati più o meno operativi. Le strutture praticano medicina di guerra1 ma senza avere i medicinali necessari, come analgesici, antibiotici o anestetici, per non parlare della mancanza di carburante – e quindi di elettricità2.
Medicina di guerra significa: fare una selezione tra i pazienti, scegliere quelli che possono essere salvati con semplici operazioni di soccorso. Gli interventi di chirurgia più delicati finalizzati a salvare vite umane vengono eseguiti in altre strutture. Visto il tipo di armi utilizzate in un’enclave così piccola e densamente abitata, è frequente trovarsi in presenza di gravi ferite che richiedono amputazioni. Se ci fossero attrezzature tecniche più avanzate, come in Europa, in Egitto o in qualsiasi paese dotato di grandi strutture sanitarie, si potrebbe ricorrere alla chirurgia per cercare di salvare almeno l’arto. Ma a Gaza è impossibile. I bambini sono amputati senza anestesia. Questa è la realtà.
L’offerta di cure mediche è quindi estremamente ridotta. Oltre ai morti per i bombardamenti, ci sono quelli che muoiono perché non possono essere curati, un dato difficile da rilevare o calcolare. In Europa, se hai un infarto, chiami subito l’assistenza medica che arriva in 10 minuti. Se ti succede a Gaza, muori a casa tua e nessuno lo sa. Lo stesso discorso vale per tutte le malattie croniche, come il diabete scompensato, l’asma, i problemi alla tiroide, ecc. La maggior parte delle persone affette da queste malattie muore a casa senza la contabilizzazione epidemiologica. Per non parlare della medicina preventiva per il cancro o la ginecologia. È andata in frantumi ogni diagnosi preventiva. La speranza di sopravvivere si è ridotta drasticamente e continuerà così anche nelle prossime settimane e mesi.
Curare “dove non si rischia di essere colpiti da cecchini”
Si muore quindi sotto le bombe, ma anche per infezioni e complicazioni, per mancato accesso alle cure, e in modo doloroso. Le ustioni e le ferite – dovute soprattutto allo schiacciamento degli arti sotto il crollo di edifici – non possono essere curate per mancanza di strumentazione. È una vera sventura perché le ferite si infettano facilmente e non ci sono antibiotici. Dei 66.700 feriti, molti sono destinati a morire, perché la risposta medica non è adeguata ai bisogni.
I colleghi che operano sul posto riferiscono che ci sono così tanti feriti che arrivano da essere costretti a praticare amputazioni a terra, nei corridoi, o semplicemente nelle aree dell’ospedale non ancora distrutte e dove non si rischia di essere colpiti dai cecchini. La situazione è quindi al di là di ogni standard di asepsi3 e igiene tradizionalmente intesa. Senza dimenticare il fatto che gli ospedali vengono presi di mira in quanto tali, deliberatamente attaccati e bombardati dall’esercito. Ciò significa che non funziona nessun anello di questa catena. Un aspetto particolare di questo scenario di guerra è anche il numero di bambini feriti – se riescono a sopravvivere resteranno forse disabili a vita – che hanno perso l’intera famiglia sotto i bombardamenti. Questa situazione solleva dubbi sul loro futuro. Non parlo in termini di “radicalizzazione”, ma in termini sociali, medici, di accompagnamento, di progetto di vita... La percentuale di bambini feriti a Gaza è molto più elevata se paragonata ad altri scenari di guerra.
Gli aiuti ci sono, ma sono bloccati
Sotto embargo da 17 anni, la Striscia di Gaza dipendeva già al 90% dagli aiuti esterni. Dal 7 ottobre, Israele ha imposto un durissimo blocco terrestre, aereo e navale. Oggi non entra niente, o solo in modo molto frammentario. Médecins du monde (MdM), come altre organizzazioni, ha predisposto le apparecchiature sul lato israeliano e su quello egiziano delle frontiere di Gaza. L’intero stock si trova lì. Lo stesso vale per la Mezzaluna Rossa. Kerem Shalom4 doveva essere un luogo di transito, ma alla fine è diventata una zona di guerra. La questione non è mobilitare gli aiuti: sono già lì, pronti ad entrare. Il problema è che mancano le condizioni di sicurezza per distribuirli senza che gli operatori muoiano sotto le bombe. Gli israeliani lasciano entrare un esiguo numero di camion, e in più fanno continue perquisizioni. Bisogna negoziare a lungo, ad esempio, per far entrare un po’ di carburante. Rispetto all’attuale media giornaliera di automezzi che entrano, ne servirebbero dai 6 ai 10 in più per provvedere ai bisogni della popolazione.
Al momento ci sono 14 colleghi di MdM ancora sul posto, tutti palestinesi. Un collega è stato ucciso all’inizio di novembre5, mentre altri 6, con doppia nazionalità, sono stati portati via. I colleghi che operano a Gaza hanno una formazione in medicina d’urgenza e sono anni che lavorano con MdM. Quindi, la nostra equipe vive nelle stesse condizioni del resto della popolazione. E così ben presto anche i membri della nostra equipe sono stati presi di mira. E come buona parte della popolazione di Gaza, anche l’equipe è stata costretta a spostarsi verso il sud. Alcuni di loro non hanno potuto muoversi perché avevano dei genitori malati.
Da quando sono arrivati nel sud, alcuni colleghi dormono in macchina, altri hanno trovato un punto d’appoggio in un piccolo appartamento dove sono in 25, il tutto in zone che dovrebbero essere sicure e fuori dai combattimenti. Una volta soddisfatti i bisogni vitali, la nostra equipe ha cercato nuovamente di organizzarsi per ricostituire un’unità mobile di cura. Hanno trovato anche un posto per farne un ufficio. Ma dopo l’offensiva dell’esercito israeliano nel sud, la zona non è più sicura, e sono ripresi intensi bombardamenti sia vicino al loro ufficio che dove vivono. Le nostre equipe sono quindi state costrette a spostarsi di nuovo, ma senza avere alcuna prospettiva: il nord è totalmente distrutto, e il sud verso Rafah è totalmente bloccato.
Lo spostamento della popolazione, un ulteriore rischio di mortalità
In queste condizioni di spostamento forzato della popolazione si stanno diffondendo alcune epidemie, come l’epatite A o la gastroenterite, dovute all’ingestione di acqua non potabile, salmastra o non filtrata. Ci sono luoghi in cui la popolazione dispone a malapena di uno o due litri di acqua al giorno e a persona per fare tutto (bere, lavarsi, cucinare...), mentre lo standard minimo è di 20 litri al giorno.
Altre malattie sono dovute alle condizioni di vita precaria, come le infezioni respiratorie. Ancora una volta, sarebbero epidemie non gravi in un sistema sanitario tradizionale, ma lo sono qui a Gaza, dove non c’è cibo a sufficienza per bambini e neonati, che hanno difese immunitarie ridotte e non possono far fronte a questo tipo di attacchi virali o batterici. Lo spostamento della popolazione si aggiunge quindi al rischio di mortalità. Uno degli aspetti particolari della situazione a Gaza è che la stragrande maggioranza degli abitanti, che vivono “rinchiusi”, non ha potuto fare scorte o anticipare gli eventi. Non hanno niente. Vivono come dei “senza fissa dimora” che si muovono sotto i bombardamenti, passando la maggior parte del tempo a cercare qualcosa da mangiare, da bere, perfino un modo per curarsi. Si passa di continuo da momenti di calma in cui riusciamo a riposarci un po’– per le equipe di MdM a cercare di riorganizzarsi – a momenti in cui cerchiamo di sopravvivere.
Insomma, tutta la popolazione di Gaza vive sotto stress. Ogni minuto c’è la paura di morire. Ci sono tutte le condizioni di un disturbo da stress post-traumatico. Ne parliamo con le nostre equipe. Normalmente, quando il contesto di lavoro è difficile, organizziamo dei debriefing, un supporto psicologico a richiesta o in via preventiva. La salute mentale delle nostre equipe è sempre stata per noi un fattore molto importante. Ma oggi è diventato impossibile. Cerchiamo di fare molta pianificazione, oltre al supporto telefonico. Ma non ci troviamo in una situazione in cui siamo in grado fornire una risposta adeguata. Non possiamo far uscire, né far entrare liberamente le nostre equipe.
Il problema non è l’UNRWA, sono le bombe
In questo scenario, tutta la polemica intorno all’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente) è – mi scusi il termine – disgustosa. La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) si è pronunciata su un rischio di genocidio. Ciò significa che è una questione legittima. La sfida oggi è quella di salvare vite. Purtroppo, la Corte dell’Aja non ha chiesto un cessate il fuoco, ma ha invitato Israele a fare tutto il possibile per evitare atti di un potenziale genocidio. In questo contesto, si può dire che la decisione di alcuni paesi occidentali di non finanziare più l’UNRWA è un modo per non rispettare la sentenza della Corte, contribuendo all’agonia dei civili.
Le accuse rivolte all’organizzazione meritano sicuramente un’indagine interna. Ma stiamo assistendo a una forma di punizione collettiva. Perché dev’essere sanzionata un’intera istituzione per atti che si presume siano stati commessi da 12 dipendenti? Non si è mai visto prima. I governi occidentali hanno subito preso una decisione, in base alle dichiarazioni di una sola parte, proprio nel momento in cui i bisogni umanitari sono immensi. Data la drammatica situazione umanitaria, e l’esiguo personale sul campo – rispetto a situazioni di disastri naturali dove c’è la coda di aiuti umanitari –, oltre al fatto che le organizzazioni sono spesso poco operative, la sopravvivenza di 2 milioni di persone dipende dall’UNRWA. Un’istituzione delle Nazioni Unite che è un partner locale fondamentale, insieme alla Mezzaluna Rossa palestinese, poiché investe in aiuti alimentari, acqua potabile, coperte e altri beni di prima necessità, contribuendo in tal modo a migliorare le condizioni di vita e mitigare gli impatti in termini di salute.
Stiamo assistendo a un nuovo caso di due pesi e due misure riguardo le atrocità. I paesi occidentali rispondono con un’immediata reazione alle accuse, ma non ai bombardamenti e al blocco che determina questa situazione umanitaria a Gaza. È una cosa orribile. Sospendendo i finanziamenti all’UNRWA, si fa il gioco degli israeliani che, da anni, tentano di distruggere questa istituzione. Nell’attuale contesto, tutto ciò che può contribuire a migliorare il destino dei palestinesi viene preso di mira. Il problema non è l’UNRWA, ma sono le bombe, è l’assedio. Dire il contrario significa invertire i ruoli di vittima e carnefice.
1La medicina di guerra o sanità militare è il complesso dell’organizzazione sanitaria delle forze armate di un Paese. È costituita da personale militare, con specializzazione in medicina, in farmacia o in infermieristica. [NdT].
2Il carburante è necessario per far funzionare i generatori elettrici. [Ndr].
3Termine chirurgico che indica l’insieme di pratiche, tecniche e metodi per sterilizzare il materiale chirurgico al fine di evitare infezioni. [NdT].
4Kibbutz che si trova alla frontiera della Linea verde che separa Gaza da Israele, non lontano dal confine egiziano.
5Secondo la dichiarazione di MdM, “Maysara Rayyes, medico d’urgenza e supervisore medico con Médecins du Monde negli ultimi due anni, è stato ucciso, insieme a diversi membri della sua famiglia, durante il bombardamento del suo condominio a Gaza City il 5 novembre 2023”