
Anas al-Sharif aveva 28 anni. Sposato, era padre di due figli, una bambina, Sham – da lui amatissima, come sanno tutti quelli che lo seguivano sui suoi social – e un maschietto Salah, il più piccolo.
Anas è morto. Reporter di Al-Jazeera, era diventato il suo principale corrispondente a Gaza dopo l’evacuazione di Wael Al-Dahdouh, ed è stato ucciso dall’IDF domenica 10 agosto 2025. Quattro suoi colleghi – Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa e il loro autista Mohammed Noufal – insieme al fotoreporter, Mohammed al-Khaldi, sono morti in un attacco deliberato da parte di Israele contro una tenda che ospitava i giornalisti nei pressi dell’ospedale Al-Shifa.
Sono queste le notizie che avrebbero dovuto essere sulla prima pagina di tutta la stampa e i media lunedì mattina. Oltre all’incessante promemoria, che dovrebbe essere all’inizio di ogni telegiornale, di ogni articolo: Israele proibisce ai giornalisti di tutto il mondo di entrare a Gaza, uccidendo i nostri colleghi che ci permettono di sapere cosa sta succedendo lì.
Ma questa è la teoria.
Il posto della narrazione israeliana
“Un terrorista dice Israele, un assassinio secondo l’emittente qatariota”. Palla al centro. In Francia, nel telegiornale delle ore 20, il microfono è passato direttamente a Olivier Rafowicz, il portavoce dell’IDF. Un anno e dieci mesi dopo l’inizio della guerra genocida contro Gaza, e mentre il capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, ha un mandato di arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale (CPI), mentre sono in corso processi contro soldati israeliani con doppia nazionalità nel loro secondo Paese. La narrazione israeliana trova ancora il suo spazio nei media europei. E la solidarietà di una professione, nota per il suo corporativismo, si ferma al confine arabo del Medio Oriente. Il macabro conteggio diventa assurdo e quasi irreale: da aprile si parla di “oltre 200 giornalisti uccisi”. Quanti nomi sono stati aggiunti all’elenco da allora.
Grazie alla guerra a Gaza, Israele è passato dalle smentite alla rivendicazione. Non molto tempo fa, quando il suo esercito prendeva di mira e uccideva i giornalisti, il governo di Tel Aviv si limitava a lavarsene le mani, fingendo di non capire o, alla fine, promettendo di aprire indagini. È quanto accaduto per l’uccisione di un’altra corrispondente di Al-Jazeera, Shirin Abu Akleh. Una strategia che ha dimostrato la sua validità: permettere di far passare come isteriche le accuse palestinesi “senza prove” e poi dichiarare, di fronte all’evidenza dei fatti, di aver aperto un’indagine, abbastanza lunga perché tutti dimentichino il caso.
A Gaza, a fortiori dall’8 ottobre 2023, Israele rivendica però la responsabilità dei suoi assassini. Basta dichiarare – come per gli ospedali, le scuole, le università, le migliaia di bambini uccisi – l’esistenza di un legame con Hamas. Come ricorda il giornalista investigativo israeliano Yuval Abraham sul suo account X:
Dopo ottobre, è stata istituita una squadra chiamata “cellula di legittimazione” presso la Direzione dell’intelligence militare. Personale dell’intelligence che cercava informazioni che avrebbero contribuito a “legittimare” le azioni militari a Gaza: lanci falliti di Hamas, uso di scudi umani, sfruttamento della popolazione civile, tutto quello che sapete. Il compito principale della Cellula di Legittimità era trovare giornalisti di Gaza che potessero essere presentati dai media come agenti sotto copertura di Hamas.
Minacciati dall’IDF
E la strategia sta funzionando. Poche ore dopo il suo assassinio, hanno cominciato a girare sui social le foto di Anas al-Sharif – in particolare, un selfie scattato con i leader di Hamas, tra cui Yahya Sinwar. Le foto sono state condivise in un thread di WhatsApp che include decine di giornalisti, soprattutto francesi: avete visto queste immagini? Che ne pensate?
Le immagini sono state diffuse in modo assolutamente neutrale. Nessun commento, si pone solo la questione. La sacrosanta obiettività giornalistica è rispettata. Si chiede solo di capire, essere il più vicino possibile alla verità. Eppure, ci sono molt* corrispondenti in Medio Oriente che conservano foto scattate con un “dittatore” o un “terrorista” di cui non sono orgoglios*. Qualche mese fa, abbiamo persino visto una giornalista francese, Laurence Ferrari, posare con il sorriso sulle labbra insieme a un criminale di guerra ricercato dalla giustizia internazionale: Benjamin Netanyahu.
Anas al-Sharif sapeva di essere in pericolo. Prima di essere ucciso, è stato minacciato più di una volta, la sua casa è stata bombardata, suo padre è stato ucciso nel dicembre 2023. Il 24 luglio 2025, il portavoce arabo dell’IDF, Avichay Adraee, ha pubblicato un video sui social accusandolo direttamente di essere un membro delle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, secondo “documenti trovati a Gaza”. Il giornalista ha denunciato queste accuse, chiedendo ai suoi colleghi di tutto il mondo di diffondere il suo messaggio. Il Comitato per la protezione dei giornalisti (in inglese Committee to Protect Journalists, acronimo CPJ) ha fatto suonare il campanello d’allarme1. Inoltre, Anas Al-Sharif aveva più volte dichiarato di non essere affiliato ad alcuna organizzazione politica. Mentre tutta la sua professione e tutti i suoi compatrioti sono presi di mira da una guerra genocida, doveva comunque dimostrare di avere le carte in regola. Ma non è bastato.
Non ci sono innocenti a Gaza
Il problema del modo con cui molti giornalisti coprono la morte di Anas al-Sharif non sta nel fatto che vogliono saperne di più su di lui. Il problema è il sottotesto: in fondo, Anas al-Sharif potrebbe non essere stato completamente innocente. Da qui, il suo destino potrà essere soggetto alla clemenza dell’IDF. E di tutti quelli che pensano che a Gaza non ci siano persone innocenti.
Se le redazioni continuano a non considerare scandaloso rilanciare la narrazione israeliana, mentre tutte le organizzazioni di diritto internazionale descrivono ciò che sta accadendo a Gaza come genocidio, è perché questa serie di casi segna l’apice di un’idea profondamente inculcata nella mentalità dalla “guerra al terrore”, essa stessa retaggio di una logica coloniale: Stiamo combattendo contro i barbari, non dobbiamo mai dimenticarlo. Che tu sia un giornalista di un’emittente qatariota, che tu ti sia scattato una foto con un leader di Hamas, che tu abbia preso la tessera di partito per ottenere più facilmente un posto nell’amministrazione a Gaza, che tu sia un politico o un combattente delle Brigate al-Qassam: non importa. Se non si ha un’anima immacolata, non contaminata dal veleno del terrorismo, si può essere un legittimo bersaglio. E i giornalisti cresciuti a diritti umani e politicamente corretto, che si indignerebbero a giusto titolo per l’uccisione di un giornalista in Ucraina senza affidarsi alla propaganda russa, troveranno un modo per rendere accettabile il crimine. Al contrario, un israeliano, anche se sostiene il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, anche se marcia al grido di “Morte agli arabi”, anche se blocca l’accesso agli aiuti umanitari a Gaza, anche se ha servito l’esercito durante il genocidio, rimane sempre innocente. E si può intervistarlo senza esitazioni.
“Israele, secondo questa visione politico-mediatica occidentale, non uccide, anche se i palestinesi muoiono. È in questo paradosso insostenibile che viviamo dal 7 ottobre”, scrive la giornalista franco-algerina Hassina Mechaï2. In realtà, è una logica nata prima di questa data, ma che, da allora, viene esplicitamente rivendicata. Israele “si difende”, “reagisce”, previene atti terroristici, o collegati a gruppi terroristici, o potenzialmente terroristici, o sospettati di terrorismo. Quelli che muoiono sono – forse, probabilmente, verosimilmente – colpevoli. Come lo sono tutti gli arabi.
Anas al-Sharif e altri cinque giornalisti sono stati uccisi dall’IDF domenica 10 agosto 2025. I giornalisti che non denunciano questo crimine in questi termini ne sono direttamente complici.

Ti è piaciuto questo articolo? Orient XXI è un giornale indipendente, senza scopo di lucro, ad accesso libero e senza pubblicità. Solo i suoi lettori gli consentono di esistere. L’informazione di qualità ha un costo, sostienici