Golfo. L’impossibile riforma dei diritti dei lavoratori stranieri

Il sistema della kafala, che consiste in una sponsorizzazione da parte dei datori di lavoro diffusa nei paesi del Golfo, è accusato di favorire l’asservimento dei lavoratori stranieri. Con la crisi sanitaria questi ultimi sono stati nella gran parte dei casi esclusi dalle misure di sostegno all’economia, e sono sprofondati nel precariato sociale. Il Qatar, l’Oman e l’Arabia Saudita vogliono abolire la kafala o modificarne le regole, ma questo comporterebbe una riforma del tacito patto che unisce i cittadini e le famiglie regnanti.

Un operaio edile ad Abou Hamour, un quartiere di Doha

«Prima della pandemia guadagnavo 1600 dirham al mese, [circa 350 euro] ma da fine maggio il mio salario è stato dimezzato. Il direttore ci ha detto : “Questa è la nostra nuova regola, se non l’accettate, tornatevene al vostro paese’”, racconta una dipendente nepalese di una scuola privata di Dubai. Come lei, un centinaio di lavoratori in maggioranza originari del paese himalayano sono stati messi di fronte al fatto compiuto. « Non vogliamo perdere il nostro lavoro, per questo ci siamo tutti rassegnati e abbiamo accettato di firmare. Se torno in Nepal senza stipendio chi si occuperà della mia famiglia? Ho una figlia e devo inviare denaro per finanziare i suoi studi », dice con amarezza. Questa madre di famiglia deve anche pagare 90 euro al mese — la metà del suo nuovo stipendio — per avere diritto ad un letto nel dormitorio dell’azienda, in contrasto con quanto stabilito dalla legge degli Emirati Arabi Uniti che prevede che tutti i dipendenti con salario inferiore ai 440 euro mensili debbano essere alloggiati gratuitamente dal datore di lavoro.

Le politiche sociali messe in atto dagli stati della regione nei primi mesi della crisi del Covid-19 vanno tutte nella stessa direzione: gli aiuti economici forniti al settore privato escludono per lo più i lavoratori stranieri che però rappresentano la linfa vitale dell’economia e costituiscono circa il 90 % della popolazione negli Emirati Arabi e in Qatar. In Arabia Saudita, così come negli altri paesi, l’integrazione salariale nel settore privato è riservata solamente ai cittadini, mentre la riduzione forzata degli stipendi si espande, arrivando in alcuni casi all’80 % della retribuzione lorda. Con un tratto di penna, da un giorno all’altro i politici hanno messo letteralmente in una condizione di schiavitù moderna centinaia di migliaia di lavoratori, commenta Mustafa Qadri, direttore di Equidem Research, una società di consulenza che si occupa di diritti dei lavoratori.

I più coraggiosi osano rifiutare queste riduzioni salariali, a rischio di perdere il lavoro e di dover sopravvivere con i propri risparmi nell’attesa di poter rientrare nel paese, anche se talvolta i datori di lavoro si rifiutano di rispettare l’obbligo di garantire il loro ritorno, e gli aeroporti sono chiusi da sei mesi. Diversi paesi esportatori di manodopera in un primo momento hanno chiuso le frontiere e si sono rifiutati di operare voli di rimpatrio a spese proprie. Secondo il Business & Human Rights Resource Centre, un istituto che monitora le denunce contro le imprese con sede nei paesi del Golfo, il numero di lavoratori stranieri che riferiscono di avere un accesso insufficiente al cibo ha registrato un aumento del 250 % dall’inizio della pandemia.

« Non è un’abolizione della kafala »

Alla base di questi abusi sistematici di cui sono vittima dei lavoratori spesso troppo vulnerabili per protestare vi è la kafala, un vecchio sistema di sponsorizzazione che permette ai governi del Golfo di delegare ai datori di lavoro la gestione dei lavoratori stranieri e dei loro permessi di soggiorno, offrendo loro un potere quasi assoluto su questi ultimi. La kafala, inizialmente considerata « un buon sistema, in base al quale spetta ai cittadini occuparsi dei non-cittadini » secondo le parole di un ex funzionario dell’Organizzazione internazionale del lavoro, (OIL) si è tramutata con la crescita delle economie del Golfo in un quadro giuridico che permette di mantenere i lavoratori stranieri in una condizione di vita transitoria che li esclude dai vantaggi offerti ai cittadini, in primis la redistribuzione della rendita petrolifera.

Lavoratori del Bangladesh trasportano casse di pesce per i loro datori di lavoro omaniti nel porto di Duqm

In risposta alle vivaci reazioni provocate dalla sorte riservata ai lavoratori stranieri del Golfo durante la pandemia, e in seguito a critiche pregresse — in particolare quelle dell’Organizzazione mondiale del commercio, WTO —, il Qatar, l’Oman e l’Arabia Saudita hanno annunciato l’abolizione della kafala o una modifica del sistema. Secondo l’OIL le misure promesse da Doha, e in particolare il diritto concesso ai dipendenti stranieri di cambiare lavoro o di lasciare il territorio senza previa autorizzazione dello “sponsor” locale, segnano l’inizio di una «nuova era» per il mercato del lavoro del Qatar.

Anche se le organizzazioni in difesa dei diritti umani riconoscono l’importanza di un tale cambiamento, Hiba Zayadin, ricercatrice di Human Rights Watch che si occupa del Golfo, osserva: « Non si tratta in alcun modo di un’abolizione della kafala, tant’è vero che sussistono alcuni elementi del controllo che i datori di lavoro esercitano sullo status giuridico dei lavoratori migranti. » Una sua regolamentazione dovrebbe passare infatti per la cancellazione della possibilità che hanno i datori di lavoro di dichiarare i dipendenti “in fuga” con un semplice click, anche se questi non lo sono. Si tratta di una pratica che limita di fatto il diritto di poter lasciare il paese o di cambiare liberamente datore di lavoro, soprattutto se il passaporto è sequestrato (un atto illegale, ma che rappresenta tutt’ora la norma in molte professioni).

La ricercatrice evidenzia anche che gli annunci spot non bastano: « bisogna ancora vedere se le misure vengono applicate correttamente sul campo ». Secondo Hiba Zayadin, le dichiarazioni di buone intenzioni sono prima di tutto una strategia politica mirata a conquistare prestigio sul piano internazionale. Per il regno saudita, la promessa di riformare nel 2021 una delle kafala più oppressive della regione è « uno degli strumenti » con cui il paese sta tentando di riabilitare la propria reputazione danneggiata dai numerosi scandali, in particolare l’uccisione e lo smembramento del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul nell’ottobre del 2018.

A sud-ovest di Doha, il Plaza Mall Asian Town è un luogo in cui molti lavoratori asiatici amano trascorrere il fine settimana

Manodopera usa e getta

Con o senza riforma della kafala, alcuni proprietari di piccole e medie imprese hanno scelto tuttavia di contribuire allo sforzo collettivo. « Con la pandemia abbiamo perso il 70 % del fatturato, ma io continuo a pagare i salari dei miei 55 dipendenti con i capitali dell’azienda », commenta Sayed Ali Zakir Naqvi, un imprenditore pakistano che gestisce una flotta di taxi Uber in Qatar. « Faccio del mio meglio per sostenere i miei dipendenti, perché se li licenziassi per un mio semplice vantaggio personale, scaricherei un ulteriore onere sull’economia », aggiunge.

Se la crisi del Covid-19 mette in luce le debolezze strutturali di economie ancorate alla volatilità del prezzo del petrolio, la pandemia mette a nudo innanzitutto delle società interamente fondate sulla natura « usa e getta » che la kafala attribuisce alla manodopera straniera: perdere il proprio lavoro significa dover lasciare il paese, perché il visto di lavoro è legato al datore di lavoro. Abolire la kafala comporta quindi rimettere in discussione i vantaggi offerti da una manodopera flessibile che varia in base alle incertezze dei bisogni dell’economia locale, permettendo così in caso di crisi di esportare la disoccupazione verso i paesi di origine di questi lavoratori stranieri. Inoltre, considerare questi lavoratori come una popolazione e non come una semplice forza lavoro temporanea (i paesi del Golfo non concedono accesso alla cittadinanza, se non a rarissimi privilegiati) potrebbe dar luogo a rivendicazioni sociali oggi inaccessibili, primo fra tutti il diritto alla rappresentanza sindacale o quello allo sciopero.

Un edificio della Commissione nazionale per i diritti umani del Qatar

Nell’immaginario collettivo, la kafala è spesso associata soltanto ai colletti blu originari dell’Africa o del subcontinente indiano per i quali i salari offerti nel Golfo sono abbastanza invitanti da giustificare l’espatrio, ma in realtà questo sistema di sponsorizzazione governa l’intero tessuto economico. « Io sono un uomo d’affari, a capo di tre aziende. Ho investito somme importanti, ma nel quadro della kafala, resto un semplice dipendente, sotto la sponsorizzazione di un qatariota che è azionista di maggioranza », esclama Sayed Ali Zakir Naqvi che da oltre 30 anni vive nella regione. La legge del Qatar stabilisce infatti che un cittadino del paese debba detenere come minimo il 51 % delle quote di qualunque società registrata nel paese. Secondo l’imprenditore abolire la kafala, di cui beneficiano i cittadini, darebbe però nuovo slancio all’economia locale. « Molti imprenditori vogliono investire nel Golfo, ma sono tanti quelli che poi non lo fanno, perché vogliono poter fare affari senza essere sotto la tutela di uno sponsor », osserva.

« Cosa ci offrite in cambio ? »

Oltre ad offrire agli imprenditori uno strumento pronto all’uso per la gestione della manodopera straniera, la kafala resta un elemento chiave del contratto sociale che lega le popolazioni e le famiglie regnanti. Secondo Mustafa Qadri di Equidem Research, infatti, la mancanza di libertà di espressione e l’obbligo di fedeltà a dei monarchi non eletti sono compensati da una miriade di generosi vantaggi in natura, tra cui i benefici economici e il prestigio sociale derivanti dal « noi » versus « loro » creato dalla kafala. Secondo un rapporto pubblicato alla fine del 2019 dall’Alto commissariato per i diritti umani dell’ONU, in Qatar la discriminazione razziale è sistematica. « La kafala è utilizzata per dire ai cittadini dei paesi del Golfo: voi non avete diritto di parola sulle riforme in corso, ma noi vi offriamo il potere di controllare dei lavoratori per assicurarvi una fonte di introiti relativamente facile ». Detenere la maggioranza delle quote di una società concede un diritto sugli utili; « qualunque riforma della kafala susciterà inevitabilmente una domanda legittima: cosa ci offrite in cambio ? », commenta Mustafa Qadri.

Pausa pranzo nella mensa di un campo di lavoro a Umm Salal Ali, in Qatar

Dopo decenni di sostegno incondizionato alla kafala, le classi dirigenti del Golfo cominciano però a prendere atto dei limiti di un mercato del lavoro composto per lo più da lavoratori immigrati sfruttabili a piacere, che ingabbia la manodopera locale nei lavori poco produttivi offerti dal pubblico (una manodopera non competitiva, perché in cerca innanzitutto di salari allettanti e orari di lavoro ridotti). E se in Kuwait otto cittadini su dieci sono dipendenti statali, in Arabia Saudita il programma di riforma « Vision 2030 » lanciato dal principe ereditario Mohammed bin Salman mira a rendere più attraente il settore privato, con l’intento di arginare una disoccupazione record stimata al 15 % nel secondo trimestre del 2020. Economisti ed esperti concordano nell’affermare che le sfide economiche che gli stati del Golfo stanno attraversando con la pandemia trovano le proprie radici nel logoramento delle economie di rendita minacciate dall’accelerarsi della transizione energetica.

Secondo Mustafa Qadri, i tentennamenti che ruotano attorno all’abolizione della kafala simboleggiano le sfide sociali poste dalla prospettiva di un mondo decarbonizzato, che tra le sue vittime collaterali avrà anche il modello di società sul quale la regione ha costruito la sua storia moderna: « Dal mio punto di vista gli stati del Golfo sono ancora molto fragili.»