Inchiesta

In Libano cresce il disamore verso l’Occidente

L’erosione dell’egemonia occidentale si espande in Libano, dove da decenni la popolazione subisce la minaccia israeliana e vive al ritmo dei massacri compiuti a Gaza. C’è grande indignazione per la carta bianca data a Israele da Washington e i suoi alleati. Le critiche dilagano ormai anche negli ambienti più “occidentalizzati” del paese.

L'immagine mostra un cartello posizionato su una recinzione, con il volto di una persona ritratta in bianco e nero. Sotto l'immagine ci sono delle parole scritte con pennarelli colorati: "COMPLICE" e "FREE PALESTINE". Il contesto sembra essere un evento di protesta, con altri cartelli visibili in background e una folla di persone. L'atmosfera è quella di un'espressione di dissenso e di richiesta di libertà per la Palestina.
16 ottobre 2023. Dei manifestanti passano accanto a una foto del presidente francese Emmanuel Macron, durante un raduno davanti all’ambasciata francese a Beirut per esprimere la loro solidarietà con il popolo palestinese.
JOSEPH EID/AFP

Con la presenza di 250mila rifugiati e la postura di “resistenza” adottata da Hezbollah da trent’anni a questa parte, la questione palestinese è stata spesso oggetto di strumentalizzazione in Libano. Tuttavia, da ottobre 2023, i sondaggi indicano che gode di una solidarietà più unanime. Secondo il Centre arabe de recherche et d’études politiques (Carep) con sede in Qatar e fondato da Azmi Bishara, la percentuale “di libanesi per i quali la questione palestinese riguarda tutti gli arabi e non solo la Palestina” è passata dal 60% l’anno scorso all’84% a gennaio 20241. Secondo l’analisi del suo direttore Al-Masri, “le atrocità commesse a Gaza, la reazione di Israele che rifiuta il cessate il fuoco, ma anche quella delle potenze occidentali, hanno fatto convergere i libanesi al di là delle loro differenze socioeconomiche e confessionali. L’opinione pubblica libanese incontra quella degli altri paesi arabi nella percezione delle cancellerie occidentali”.

“Per noi l’Occidente erano le leggi, i diritti umani, la democrazia”

Difatti, l’appoggio quasi totale a Israele da parte dei paesi occidentali suscita una certa disillusione nei libanesi, che si dichiarano per l’89% psicologicamente affetti dalla guerra a Gaza2. L’ipocrisia di chi dovrebbe mantenere l’ordine internazionale, che si indigna per la violenza verso taluni per poi legittimarla nei confronti dei palestinesi, causa rabbia e disappunto. “La mia visione della politica occidentale è completamente cambiata. La loro unica linea direttiva è la protezione di Israele”, dice Steven Ghoul, un meccanico di Roumieh. Nawal, una negoziante libanese di sessant’anni residente a Parigi, afferma: “Per noi l’Occidente erano le leggi, i diritti umani, la democrazia…”.

Ebbene, “il genocidio in corso a Gaza ha fatto emergere i limiti di alcuni valori come la libertà di espressione”, osserva Rana Sukarieh, professoressa di sociologia all’Università americana di Beirut (AUB) specializzata nei movimenti di solidarietà con la Palestina. Ne è prova la repressione delle manifestazioni di sostegno al popolo palestinese in atto nelle strade, nelle università e nei mezzi di informazione.

Di conseguenza – sottolinea – si va sviluppando nei libanesi un atteggiamento sempre più critico verso l’Occidente, ritenuto complice del genocidio e del colonialismo, ma anche verso l’ipocrisia di questa libertà di espressione selettiva. Chi non era politicizzato, o non si esprimeva, è diventato molto più virulento nelle proprie critiche.

La stragrande maggioranza (97%) dei libanesi giudica “sbagliata” la risposta americana al conflitto e l’80% ha un’opinione della politica statunitense più negativa rispetto a prima di ottobre 20233.

Anche Germania e Francia attirano le critiche. C’è chi riponeva maggiori aspettative in Parigi che, nemmeno vent’anni fa, si distingueva ancora per la sua “politica araba”.

Queste contestazioni vanno al di là della semplice riflessione e si riversano nella vita privata, fino a causare a volte litigi in famiglia e la fine di alcune amicizie. Tra i libanesi intervistati, in tanti parlano di rilettura del passato e decostruzione dei racconti egemonici volti a propagare una visione del mondo che occidentalizza i diritti umani.

Israele e il suo ancoraggio a un ordine coloniale

Queste testimonianze concordano nell’iscrivere la politica di Israele in un ordine coloniale che “legittima” i massacri a Gaza, una “violenza falsamente necessaria” che ha fatto dell’Occidente la forza dominante del sistema internazionale. Perciò, tra le frange intellettuali e militanti, la battaglia per la Palestina rientra in un continuum di lotte mondiali contro l’imperialismo, al pari della resistenza algerina, delle lotte autoctone e della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Secondo Youssef, regista e montatore, “quello che accade in Palestina è lo scontro con un progetto europeo, coloniale e imperialista, iscritto in una lunga storia di oppressione”. Hadi, uno studente ventenne, aggiunge:

Lo stesso Libano, come entità entro confini ben delimitati, è un’idea dell’Occidente, un’entità creata dalla colonizzazione. Dobbiamo decolonizzare le nostre menti e i nostri territori dal Nord globale, costruire un immaginario politico di solidarietà tra i popoli.

Viene messa in discussione la dipendenza economica e militare del paese. Youssef cita l’esempio della Nestlé, che ha rilevato il marchio di acqua minerale libanese Sohat: “Si appropria delle risorse per rivenderle a caro prezzo, e questo causerà carenze e inquinamento del suolo”.

Simili discorsi hanno trovato eco nelle pagine del principale quotidiano in lingua francese della regione, Orient-Le Jour. In una tribuna aperta del 20 gennaio, l’ex diplomatico egiziano nonché premio Nobel per la pace Mohamed El-Baradei afferma:

Una rottura imminente si profila tra l’Occidente e il mondo arabo-musulmano [che] ha perso fiducia in quelle che percepisce come delle norme occidentali: diritto internazionale e istituzioni mondiali, diritti umani e valori democratici.

E in un articolo pubblicato il 27 aprile, la giornalista franco-siro-libanese Soulayma Mardam Bey denuncia la “criminalizzazione” del sostegno alla causa palestinese, vista come “un’apologia del terrorismo”, e ribadisce che c’è “qualcosa di marcio nel regno di Francia”4.

Tuttavia, queste critiche non portano a rifugiarsi nel campo avversario né ad allinearsi con paesi come l’Iran. La perdita del monopolio della ragione morale da parte dell’Occidente può avvenire a vantaggio di Stati come il Brasile e il Sudafrica, la cui istanza presentata davanti alla Corte internazionale di giustizia è celebrata senza troppe illusioni. Sono in tanti a pensarla come Lina, che lavora per una ONG: “Ha un suo valore simbolico vedere un paese del Sud globale che prende la parola e addita come responsabili dei paesi occidentali, ma dubito che porti a qualcosa”.

In tutt’altro registro, già da una decina di anni, la Russia ha consolidato la sua immagine presso una parte della popolazione libanese favorevole al regime siriano, intervenendo militarmente a sostegno di quest’ultimo (al fianco di Hezbollah). Dall’inizio dei bombardamenti israeliani a Gaza, la propaganda pro-russa si è addirittura amplificata5.

McDonald’s e Starbucks a corto di clienti

A queste prese di distanza si accompagna il boicottaggio di prodotti delle aziende elencate dalla campagna Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e identificate con l’app No Thanks. Sebbene meno pronunciato che in Giordania e negli Emirati arabi uniti (EAU), il movimento prende sempre più piede. Secondo Rana Sukarieh:

Si può osservare una decisa avanzata di [queste] pratiche nei confronti di aziende americane o comunque note per la loro complicità con il colonialismo israeliano. Prendete per esempio McDonald’s o Starbucks: alcune loro sedi sono completamente vuote.

Si fa strada la volontà di consumare prodotti libanesi, una sfida difficile in un paese dove l’80-90% dei beni di consumo è importato. Così, l’azienda produttrice di soda, Cedars Premium, vede aumentare il proprio fatturato da ottobre, poiché rifornisce i ristoranti di Beirut che hanno deciso di sostituire Pepsi e Coca-Cola con prodotti alternativi come Jalloul e Zee Cola. Alcuni libanesi parlano degli sforzi che compiono per cambiare le proprie abitudini di consumo: evitano tutta una serie di articoli anche molto diversi tra loro, tra cui film hollywoodiani, prodotti L’Oréal e Pantene e certi marchi di abbigliamento.

Per i gestori del ristorante Mezyan, mitica istituzione nel cuore del quartiere di Hamra [a Beirut], l’attualità ha solo accelerato un processo di promozione dei prodotti libanesi iniziato già da alcuni anni, soprattutto per via della crisi. Sul lato opposto della strada, i muri della libreria Barzakh sono tappezzati di manifesti che invitano al boicottaggio scansionando un codice QR che permette di conoscere l’origine dei prodotti. Tuttavia, per Mansour Aziz, co-gestore di entrambi i luoghi, “il boicottaggio è un segno di solidarietà, ma metterlo in pratica può risultare difficile. Per molti articoli, solo una piccolissima parte proviene da aziende occidentali o israeliane complici”. Mansour ha cercato di convincere altri negozi ad abbandonare i prodotti occidentali a vantaggio di quelli locali, ma è stato inutile.

Nel mirino di questa grammatica di azione ci sono anche alcuni mezzi di informazione europei, accusati di una copertura “criminale del genocidio”.

Un atteggiamento paternalista

Sebbene i social rappresentino la matrice primaria della contestazione, come del resto negli altri paesi arabi della regione, gli assembramenti prosperano anche nelle strade. “Il 7 ottobre ha innescato un’ondata di mobilitazioni anti-coloniali”, testimonia Hadi, lui stesso attivo in un sindacato studentesco. Il loro obiettivo non sono le autorità libanesi le quali non coltivano relazioni diplomatiche con Israele, a differenza di paesi come il Marocco la cui normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico è oggetto di aspre critiche. Le manifestazioni colpiscono i simboli del potere occidentale.

Il 17 ottobre, mentre iniziano i bombardamenti israeliani sull’ospedale Al-Ahli Al-Arabi, i cortei si dirigono spontaneamente verso le ambasciate di Stati Uniti e Francia, ma anche verso quelle di Germania e Unione europea. Dei manifestanti sventolano slogan in solidarietà con la Palestina durante un incontro tra la ministra degli affari esteri tedesca Annalena Baerbock e il suo omologo Abdallah Abou Habib. Sindacati, militanti di associazioni e partiti di sinistra organizzano regolarmente manifestazioni che radunano diverse decine o centinaia di persone a seconda delle giornate, represse dalle forze di sicurezza interna e dall’esercito, oltre che dai servizi di sicurezza dell’ambasciata americana, tramite misure di custodia cautelare, arresti e interrogatori.

Si va peraltro accentuando un sentimento di frustrazione verso l’atteggiamento paternalista delle istituzioni occidentali, le quali tendono a imporre le proprie “soluzioni” al paese e a monopolizzare attività che potrebbero essere svolte dalle organizzazioni libanesi, più esperte del territorio. Hadi ha partecipato alla perturbazione di eventi organizzati dalla Fondazione Konrad-Adenauer all’Università Saint-Joseph a Beirut.

L’8 marzo 2024, un centinaio di manifestanti si è riunito davanti all’ufficio delle Nazioni Unite per la tutela delle donne, nel quartiere di Sin El-Fil a Beirut, per denunciare il silenzio dell’agenzia sui massacri perpetrati da Israele a Gaza e quello “strumento asservito agli interessi imperialisti, bianchi, liberali e capitalisti [che] contribuisce a opprimere, aggredire e assassinare le donne a Gaza e in Palestina”. Nei libanesi stipendiati da queste organizzazioni che “parlano la lingua dell’oppressore”, tale situazione causa delle “contraddizioni emotive”, si sfoga Lina.

Stesso discorso per la cultura, che spesso dipende dai finanziamenti europei. Nour, che lavora nel cinema, ammette di avvertire

una tale energia proveniente dal mondo arabo. Il che rafforza il sentimento di appartenere a una nazione che si ribella, che si sveglia. Facciamo pur sempre parte di un continente al quale voltiamo completamente le spalle. Guardiamo solo cosa succede sull’altra sponda del Mediterraneo!

Dalia, una fotografa molto critica verso il cosiddetto Western gaze6, che dilaga nel suo campo, afferma di “voler indirizzare i [suoi] messaggi al Libano, non all’Occidente”.

Altri artisti hanno abbandonato collettivi americani come Women Photograph o Diversify Photo per la mancanza di solidarietà con la Palestina, mentre un timido movimento di boicottaggio delle manifestazioni culturali europee si è abbozzato lo scorso inverno, soprattutto nei confronti del festival cinematografico della Berlinale. “Anziché aspettare che ci escludano, decidiamo noi di non andarci più”, conclude Nour.

1“Arab public opinion about the Israeli war on Gaza”, Centre arabe de recherche et d’études politiques (Carep), 10 gennaio 2024.

2“Arab public opinion about the Israeli war on Gaza”, op. cit.

3“Arab public opinion about the Israeli war on Gaza”, op. cit.

4Soulayma Mardam Bey, “Au Royaume de France, la Palestine muselée”, L’Orient-Le Jour, 27 aprile 2024.

5Zeina Antonios, “Qui se cache derrière les affiches de soutien à Vladimir Poutine à Beyrouth”, L’Orient-Le Jour, 9 marzo 2024.

6Sguardo occidentale che veicola stereotipi e preconcetti nella rappresentazione di persone non occidentali, soprattutto tramite temi come la povertà, la sofferenza e la violenza.