Con oltre 200 droni e un centinaio di missili lanciati contro Israele nell’attacco nella notte tra il 13 e il 14 aprile, l’Iran ha mandato un segnale chiaro. Se gli attacchi israeliani contro il suo esercito, i suoi centri militari e le catene di approvvigionamento in Siria non sono affatto una novità, il raid che ha colpito la sede diplomatica del consolato – protetto dalle Convenzioni di Vienna del 1961 e 1963 – viene considerato una linea rossa. È questa la ragione formale della risposta militare iraniana, senza poterne escludere altre, più elaborate nel caso, condotte direttamente dalla Repubblica Islamica o attraverso gli alleati regionali o le milizie lealiste in Iraq, Siria, Libano e Yemen.
A latere dell’attacco, l’Iran ha però espressamente dichiarato di voler evitare una guerra totale con Israele, e ovviamente con il suo alleato americano. Annunciata con largo anticipo, la ritorsione iraniana non aveva lo scopo di infliggere a Israele ingenti danni, né perdite umane tali da giustificare un nuovo conflitto. Tel-Aviv, Washington e i loro alleati hanno avuto il tempo di abbattere la maggior parte dei 300 droni e missili – come previsto tutti identificati – lanciati dal territorio iraniano. Dopo questa serie di rappresaglie, l’Iran sta quindi cercando di tornare alle regole di ingaggio1, i cui termini sono stati violati durante il raid contro il consolato. L’Iran ha risposto con una dimostrazione di forza nello spazio aereo della regione, ma senza infliggere perdite agli israeliani.
Cautela da parte americana
Da parte sua, Israele sta cercando di approfittare della situazione per distogliere l’attenzione dalla guerra genocida in corso a Gaza e dai crimini commessi in Cisgiordania. Il governo israeliano spera così di mobilitare un nuovo sostegno occidentale, che i recenti eventi hanno in parte intaccato, o almeno non è più unanime. Resta il fatto che dopo l’attacco, Tel-Aviv rischia di vedere drasticamente ridotta la sua libertà di movimento nella regione – vale a dire, al di fuori della Palestina –, mentre prima gli attacchi militari venivano condotti senza alcun timore di rappresaglie. Si profila quindi un nuovo scenario che dovrebbe spingere Israele a rafforzare il suo coordinamento con il governo americano prima di sferrare nuovi attacchi contro Teheran.
Questo ci porta a un’altra considerazione: gli Stati Uniti, vogliono scongiurare un’escalation regionale su larga scala proprio nell’anno delle elezioni presidenziali americane e in un contesto internazionale già di per sé molto teso. Il governo americano ha dimostrato sul campo di essere pronto a difendere la “sicurezza di Israele”. Tuttavia, gli annunci ufficiali di Biden a Netanyahu sono la prova che Washington non ha intenzione di partecipare a un prossimo contrattacco israeliano. La Casa Bianca ha chiesto a Tel-Aviv di non reagire, cercando di non coinvolgere gli Stati Uniti. Le raccomandazioni americane sono di mantenersi entro i limiti dello scontro che hanno portato all’attacco al consolato, oltre che di prevedere le conseguenze delle prossime operazioni militari.
La situazione attuale mette anche Hezbollah, principale alleato dell’Iran, in una posizione molto delicata, mentre sta conducendo una guerra, dall’8 ottobre 2023, contro Israele al confine sud del Libano. Proprio come il suo alleato, il partito sciita libanese non vuole arrivare a una guerra totale, evitando quindi di impiegare la sua artiglieria pesante, destinata esclusivamente alla propria difesa e al programma nucleare iraniano – che non costituisce una minaccia per nessuno oggi –, per non provocare devastanti risposte israeliane. La ragione è che il crollo economico, le tensioni e le divisioni politiche interne fanno sì che né il Libano, né la base del “partito di Dio” nel sud siano nelle condizioni di scatenare una nuova guerra contro Tel-Aviv, analoga a quella del 2006. Israele però sta progressivamente intensificando i suoi attacchi e ciò rischia di intaccare il potere deterrente di Hezbollah, fin qui garantito dai suoi missili e dalla sua preparazione militare, trascinando le milizie verso uno scontro inevitabile.
La scelta della Giordania
L’ultima analisi riguarda la Giordania che ha visto il suo spazio aereo attraversato da una serie di droni e missili iraniani. Le forze aeree del regno hashemita hanno partecipato insieme ad americani, francesi e inglesi all’intercettazione di decine di droni lanciati dall’Iran. Al di là dell’indignazione popolare che una tale azione può suscitare nella regione, l’iniziativa giordana è riconducibile di una possibile trasformazione del suo spazio aereo in una zona aperta allo scontro israelo-iraniano. Soprattutto se l’Iran affiderà alle milizie irachene il compito di lanciare droni dal confine iracheno-giordano. Un’eventualità che potrebbe influire sulla capacità di Amman di mantenere un margine di autonomia nel suo ruolo diplomatico in regione, in qualità di alleato degli occidentali e “difensore dei luoghi santi musulmani e cristiani” a Gerusalemme. Un ruolo che potrebbe anche minacciare la sua sicurezza in un momento in cui la monarchia esprime preoccupazione per quanto che sta accadendo in Cisgiordania e per i piani dell’estrema destra israeliana di deportare i palestinesi nel suo territorio. Contestualmente, persistono legittimi dubbi sulla capacità e la volontà di Amman di attaccare gli aerei israeliani, qualora dovessero entrare nel suo spazio aereo per bombardare l’Iran o i suoi alleati iracheni.
Al momento non è chiaro se Israele rispetterà o meno le “raccomandazioni” americane nei prossimi giorni e settimane. Risponderà all’attacco iraniano andando oltre ciò che è ritenuto “accettabile” per riprendere l’offensiva? E, in tal caso, come reagirà l’Iran?
Le questioni sono complesse e gli obiettivi delle diverse parti restano contrapposti. Da un lato, c’è la destra suprematista del governo di Netanyahu che vuole estendere la guerra per consentire all’esercito e ai coloni di aumentare il numero dei crimini e delle espulsioni contro i palestinesi nei territori occupati. D’altro, il premier israeliano che intravede nella situazione attuale un’opportunità per indebolire l’Iran e Hezbollah. A sua volta, Washington sta facendo pressione per arginare la guerra, limitando i danni nella regione, ma non nella Striscia di Gaza. Infine, Teheran e i suoi alleati (soprattutto Hezbollah) saranno costretti a rispondere agli attacchi israeliani se dovessero superare un certo limite, senza però correre il rischio di trasformare la situazione in una guerra totale. Tenendo conto di tutti questi elementi, non si può escludere il rischio che il conflitto dilaghi oltre le congetture e le reazioni misurate.
Quel che è certo è che siamo in una fase in cui la violenza e gli scontri – sotto varie forme – proseguiranno ancora a lungo, determinando il corso degli eventi, sia nei paesi direttamente coinvolti che in tutto il Medio Oriente.
1Una serie di direttive emanate da un’autorità militare designata alle forze impegnate in un’operazione all’estero per definire le circostanze e le condizioni in cui tali forze armate possono usare la forza. [Ndr].