Reportage

Jenin. “Ci hanno detto che se ci fossimo rifiutati di uscire, avrebbero bruciato le nostre case”

Alla fine di gennaio, l’IDF è entrato in diversi campi profughi palestinesi a Jenin e Tulkarem, nella Cisgiordania occupata. In pochi giorni, migliaia di famiglie sono state costrette a lasciare tutto, senza possibilità di tornare indietro. Reportage.

Strade deserte con edifici e terreni in costruzione, atmosfera grigia e cupa.
Jenin, 11 aprile 2025. L’ingresso al campo è bloccato da cumuli di terra formati dai bulldozer israeliani.
Tutte le foto sono di © Louis Witter

Dal nostro inviato speciale, con l’aiuto di Abed Qusini, giornalista e fixer palestinese

11 aprile 2025. “Non vedo la mia casa da ottantasei giorni”, sbuffa Hassan, un uomo sulla quarantina. Seduto su una delle panchine di pietra che costeggiano l’ospedale Khalil Suleiman, Hassan osserva il monticello di terra che blocca l’ingresso al campo. A Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, sono 30.000 i palestinesi che vivono qui rifugiati dagli anni ‘50, molti dei quali provenienti da Haifa.

Deux voitures garées près d'un tas de terre, bâtiments et ciel nuageux en arrière-plan.
Un cumulo di terra blocca l’ingresso al campo di Jenin.

Il 21 gennaio, l’IDF ha fatto irruzione nel campo dopo un’operazione condotta nel dicembre 2024 dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) contro i gruppi armati. Ufficialmente per “sradicare il terrorismo”, di fatto per espellere tutti i suoi abitanti. È così che ha avuto inizio l’operazione chiamata “Muro di Ferro” che, pochi giorni dopo, è stata estesa anche a Tulkarem, a ottanta chilometri di distanza. Al 14 marzo, secondo l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari ( (OCHA), l’operazione aveva già causato la morte di almeno 74 palestinesi e sfollato più di 40.000 persone.

Nelle stradine del campo risuona l’eco degli spari dell’IDF. I pazienti dell’ospedale procedono impassibili lungo la strada. “Hanno allestito questo posto di blocco una ventina di giorni fa”, continua Hassan. Appena dietro, nel primo edificio che si vede, i soldati hanno preso possesso del luogo. Il primo giorno dell’invasione dell’IDF, lui e la sua famiglia sono stati cacciati via dal loro quartiere. “Non sono neanche riuscito a prendere le mie cose”, dice, “e ora viviamo in quindici in un appartamento preso in affitto ad Al-Yamun”.

Homme assis, regard sérieux, ambulances et voiture en arrière-plan. Une silhouette s'éloigne.
Hassan, seduto su una delle panchine di pietra che costeggiano l’ospedale Khalil Suleiman. Sul muro dietro, si può vedere un disegno della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio 2022 a Jenin dall’esercito israeliano.

A Jenin, i bulldozer dell’IDF continuano il loro lavoro, distruggendo casa per casa gli stretti sobborghi del campo. Ma per le migliaia di famiglie che vivevano qui, la fine di gennaio è stata l’inizio di un lungo peregrinare. Venerdì 11 aprile, è a Zababdeh, dodici chilometri dal centro del campo, che sono finiti gli abitanti sgomberati nelle ultime settimane.

Vue d'un quartier urbain avec des bâtiments modernes et un ciel nuageux.
A Zababdeh, nell’edificio dell’Arab American University dove 300 persone del campo di Jenin hanno trovato rifugio.

Nel campus dell’Arab American University-Palestine (AAUP), molti edifici sono stati trasformati in fretta in punti di accoglienza. Ai piedi di uno di questi, le auto depositano sacchi pieni di coperte e viveri. Hussam, con una bombola del gas in mano, scarica in fretta e furia delle valigie e sale a due a due le scale del palazzo.

Vue aérienne d'une cour encombrée de déchets et de personnes, avec des voitures garées.
All’esterno di uno dei palazzi, delle auto depositano sacchi pieni di coperte e viveri.

Al quinto e ultimo piano, Nazmeh spalanca la porta della stanza che condivide con la sua famiglia da questa mattina.

Chambre simple avec lit, fenêtre ouverte sur un paysage urbain et ciel nuageux.
Vista dalla finestra della stanza di Nazmeh.

Sul pavimento, sono disposti cinque lettini in una stanza di appena dieci metri quadrati. “Dal 1948, ci cacciano via dalle macerie delle nostre case”, attacca l’uomo, che ha un braccio ingessato. Poi si accende una sigaretta, guardando fuori dalla finestra:

Al terzo giorno dell’invasione dell’esercito, è toccato a noi. Eravamo dieci fratelli a vivere nello stesso quartiere. Trentacinque bambini in tutto. Quando i soldati ci hanno intimato di andarcene, ci siamo rifiutati.

Un homme avec une barbe, regard pensif, se tient dans une pièce simple.
Nazmeh, nella stanza che divide con la sua famiglia.

Quel giorno c’era l’esercito, ma non sono stati i soldati ad entrare in contatto diretto con Nazmeh e i suoi fratelli. “Per ore, sono stati i droni a sorvolare le nostre strade e le nostre case. Abbiamo parlato con loro. Sono i droni che ci hanno dato l’ordine di andare via”, racconta. A lui, come alla maggior parte dei membri della sua famiglia, non è stato permesso di prendere lo stretto necessario. “L’ultima volta che il drone ha sorvolato, ci hanno detto che se ci fossimo rifiutati di uscire, avrebbero bruciato le nostre case”. In gruppo, al freddo, si sono fatti avanti fino alla fine della strada, dove li attendevano i soldati:

Ho provato a portare con me delle borse con cappotti e vestiti, ma mi hanno imposto di aprirle per vedere se dentro nascondevo qualcosa. Una volta sottratte, non mi hanno permesso di riprenderle costringendomi a continuare a camminare lungo la strada. Dentro, c’era anche una buona parte dei soldi che cercavo di mettere in salvo dalla demolizione.

Una volta fuori, le ruspe hanno cominciato a distruggere il suo quartiere.

Noi camminavamo nel fango guardando intorno a noi l’inizio delle demolizioni. Con noi c’era anche io figlio Thaer che ha trent’anni ed è disabile. Abbiamo spinto a fatica la sua sedia a rotelle lungo la strada perché non ci hanno permesso di prendere la carrozzina elettrica. Ormai è stata sicuramente distrutta...

Da quella mattina, Nazmeh ha provato varie volte a tornare a casa.

Dopo l’irruzione nel campo, ho cercato una decina di volte di entrare per andare a cercare i nostri documenti, i certificati di nascita dei miei figli, le nostre carte d’identità. Ma ogni volta, l’esercito mi ha impedito di entrare.

Un homme et une femme avec un enfant, devant un bâtiment, en train de discuter.
Nazmeh e la sua famiglia in fondo all’edificio che occupano a Zababdeh.

È andato peggio, negli ultimi giorni, quando gli spari l’hanno quasi raggiunto. “Ieri mattina sono stato rilasciato dopo una notte in una base militare. Il giorno prima, mentre cercavo di tornare a casa, un soldato ha iniziato a sparare”. Mentre i proiettili si conficcavano nel muro lungo il quale stava camminando, Nazmeh ha riconosciuto l’ufficiale israeliano che gli aveva bloccato la strada nei giorni precedenti. Al momento dell’arresto, l’ufficiale gli ha chiesto: “Non ti sei stancato di tornare”. E la sua risposta è stata: “Noi non ci stancheremo mai”.

Deux hommes et une fille souriante devant un bâtiment, un autre homme les observe.
Nazmeh e la sua famiglia ai piedi dell’edificio che occupano a Zababdeh.

Da quando l’esercito ha invaso il campo, Nazmeh prova una grande rabbia. In primo luogo, contro gli israeliani:

Sappiamo il motivo per cui stanno distruggendo il campo. È perché vogliono farla finita con l’idea stessa dei rifugiati del 1948, mettendo fine alla nostra resistenza. Ma noi naturalmente resistiamo, perché nessuno di noi è di Jenin.

Ma prova rabbia anche contro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che, a suo parere, sta abbandonando famiglie come la sua al loro destino:

Cosa stanno facendo per noi? Niente. Siamo andati al governatorato di Jenin e glielo abbiamo detto! Quando l’esercito se ne andrà, torneremo a sederci sulle rovine delle nostre case.

Deux hommes assis sur un lit, l'un souriant, l'autre regardant par la fenêtre.
Nazmeh con suo nipote Ahmad.

Accanto a lui, Ahmad ha trovato un posto comodo sulla coperta del letto di suo zio. Diciotto anni, il ragazzo avrebbe dovuto finire il liceo quest’anno prima di iniziare l’università. “L’esercito ha distrutto il campo, le nostre case, ma anche i suoi sogni”, dice Nazmeh, avvilito. Anche Ahmad è rammaricato:

Quando siamo usciti dalle case, i soldati ci hanno costretto a camminare senza fermarci. Man mano, prelevavano le persone considerate sospette, mentre noi non potevamo fermarci. Dopo qualche settimana, abbiamo trovato un alloggio nei pressi di Jenin, in un istituto per ciechi, dove c’era corrente elettrica e acqua, ed io potevo studiare sul mio cellulare. Ma qui, invece, non c’è energia elettrica, e non sappiamo in che modo ce la caveremo.

Già nel 2002, il campo di Jenin aveva subito numerosi attacchi da parte dell’IDF. Per Nazmeh: “L’intento dell’esercito era quello di far dimenticare alle giovani generazioni la resistenza. Ma uccidendo i loro padri, hanno trasformato quei bambini in combattenti della resistenza”. Un fruttivendolo cinquantenne, che è stato nelle carceri israeliane per più di sei anni ed è stato rilasciato durante gli accordi di Oslo, non intende gettare la spugna. “Ventitré anni fa siamo tornati a casa. Abbiamo montato delle tende e le abbiamo ricostruite. Anche lo faremo anche questa volta”.

Un enfant regarde une pile de déchets et d'objets devant une maison.
La piccola della famiglia, all’esterno del palazzo.

Il 9 aprile, Israele ha annunciato l’intenzione di estendere la sua operazione “Muro di Ferro” ad altre città della Cisgiordania occupata. Per diversi giorni, il campo di Balata, a est di Nablus, è stato circondato dai militari. Alla fine, l’esercito ha lasciato il campo la mattina del 10 aprile, ma la preoccupazione era palpabile. Gli abitanti temono che toccherà anche a loro abbandonare le loro case.

Dalla fine del cessate il fuoco a Gaza deciso da Israele lo scorso marzo, i ministri estremisti del governo Netanyahu hanno intensificato gli sforzi per accelerare il loro progetto di annessione della Cisgiordania occupata. Il 6 gennaio, il suprematista Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze israeliano e responsabile dell’amministrazione che gestisce i 500.000 coloni in Cisgiordania, ha persino paragonato il destino dei territori palestinesi a quello di Gaza. “Nablus e Jenin devono assomigliare a Jabalya”, ha minacciato, riferendosi al campo a nord dell’enclave, oggi ridotto in cenere e macerie dai raid israeliani.

Une rue avec des fils électriques, une voiture bleue et des bâtiments en arrière-plan.
Davanti l’ospedale Khalil Suleiman di Jenin.

Sulle rampe dell’edificio dove hanno trovato rifugio le famiglie di Jenin, una donna sta correndo giù per le scale. Un bambino, tutto felice, segue i suoi passi pestando i piedi. Con un misto di rassegnazione e sfinimento, dice:

Quando ci diranno di andare via un’altra volta? E per andare dove? Non ne possiamo più di essere continuamente sfollati!