“L’egemonia è antica quanto l’umanità”. Tendendo fede alla massima dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il politologo Zbigniew Brzezinski, sulla capacità americana di governare il mondo1, è stato nel giugno 2006, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Tel Aviv con il Primo ministro israeliano Ehud Olmert, che il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha usato per la prima volta in pubblico il termine “nuovo Medio Oriente”. Un concetto destinato a tracciare i confini di una futura spartizione della regione, un progetto che gli Stati Uniti, impegnati in più di 130 guerre dal 1775, pensavano di poter controllare.
La ripresa della nozione di “destino manifesto”
Senza ulteriori indugi, il 12 luglio 2006, dopo le parole di Condoleezza Rice, Ehud Olmert lanciò un’offensiva su larga scala contro il Libano con il pretesto della cattura da parte di Hezbollah di soldati israeliani sul suolo libanese. Al momento del cessate il fuoco, il paese dei Cedri lamentava più di 1.000 vittime tra i civili, il 30% dei quali bambini sotto i 12 anni di età, più di 1 milione di rifugiati (in un paese di meno di 5 milioni di abitanti), numerose infrastrutture distrutte, quartieri a sud di Beirut gravemente danneggiati e una marea nera nel Mediterraneo a seguito della fuoriuscita di petrolio. Per non parlare delle operazioni condotte dall’esercito israeliano nei villaggi a sud del Libano, definiti come crimini di guerra da Amnesty International. Nel corso di quei 33 giorni di intensi scontri, il Segretario di Stato americano dichiarò in una nuova conferenza stampa: “(ciò che) vediamo qui [la distruzione del Libano da parte degli attacchi israeliani], in un certo senso, è un “nuovo Medio Oriente” che sta nascendo – le doglie che precedono il parto – e qualunque cosa faremo, dobbiamo essere sicuri che ci stiamo muovendo verso il nuovo Medio Oriente [e] non possiamo tornare indietro a quello vecchio”2.
L’operazione israeliana faceva seguito all’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 sulla base di un progetto noto come “Medio Oriente allargato” – termine che sarebbe poi stato sostituito da “nuovo Medio Oriente”. Quei due attacchi dovevano essere l’inizio di un rimodellamento della regione con l’ambizione dichiarata di esportare la democrazia. Ma, stando alle dichiarazioni del 1999 di Dick Cheney, allora amministratore delegato della compagnia petrolifera Halliburton e futuro vicepresidente di George W. Bush: “Uno dei posti nel mondo con le maggiori riserve di petrolio è sotto il controllo delle nazioni del Medio Oriente – Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iraq e Iran. Il problema è che queste riserve di petrolio sono controllate dai governi”. Alla fine il tentativo delle autorità statunitensi di portare la libertà ai popoli si riduceva a una volgare impresa di appropriazione delle risorse petrolifere dei paesi interessati e a una tutela del loro governo.
Per portare a compimento l’attacco, gli Stati Uniti, assistiti dal Regno Unito e da Israele, decisero di impiegare forze militari al fine di creare un “caos costruttivo” per intimidire i recalcitranti. Nel 2003, con il falso pretesto del possesso di “armi di distruzione di massa” da parte di Saddam Hussein, considerato anche il mandante degli attentati suicidi dell’11 settembre 2001, l’Iraq divenne il primo campo di sperimentazione di questa teoria politica predatoria.
Sostenuto dai neoconservatori al potere a Washington, l’intervento guerrafondaio rilanciò la nozione calvinista di una nazione americana investita da un “destino manifesto” – un termine coniato nel 1845 da John L. O’Sullivan, un giornalista di New York, per incitare gli Stati Uniti ad annettere il Texas, a quell’epoca un possedimento messicano. Con l’armatura di questa teogonia messianica, l’imperium militiae nordamericano avrebbe dovuto avere, in qualsiasi momento e in ogni luogo, la responsabilità di creare un nuovo ordine mondiale.
Al fine di prepararsi a quello che sarebbe stato uno sconvolgimento catastrofico dichiarato e poi realizzato, l’amministrazione statunitense acquisì una mappa approntata da Ralph Peters, un luogotenente colonnello in pensione. Pubblicata sull’Armed Forces Journal nel giugno 2006 con l’inequivocabile didascalia “Confini di sangue: che aspetto avrebbe un Medio Oriente migliore”, questo documento strategico rimetteva in discussione gli accordi Sykes-Picot del 19163 e cancellava la linea Durand tracciata nel 1893 dagli inglesi per separare l’Afghanistan dal Pakistan.
Il luogotenente colonnello Peters aveva composto la nuova mappa riprendendo schizzi cartografici sviluppati nel 1920 sotto la presidenza di Woodrow Wilson,4 alla fine della prima guerra mondiale. Sebbene non ufficiale, il documento venne presentato agli alti ufficiali della NATO Defense College nel settembre 2006 a Roma e alla National War College degli Stati Uniti. Pur rappresentando l’acme economico, strategico e militare di ciò che statunitensi, britannici e israeliani (per i quali, in questo contesto, era prevista l’adesione al Patto Atlantico) potevano sperare, la sua realizzazione presupponeva un’accettazione volontaria dell’Arabia Saudita e della Turchia mentre, per gli altri paesi interessati, andava bene una guerra totale come in Iraq o in Afghanistan.
Un “caos costruttivo” nel cielo delle idee
Una volta terminata la guerra condotta da George W. Bush in Iraq, il paese sarebbe stato diviso in tre entità: sunnita a nord, curda a nord-est e sciita a sud con un’estensione verso la parte orientale dell’Arabia Saudita e il sud-ovest dell’Iran, delimitando così un accerchiamento del Golfo Persico, un tratto di mare che contiene le più grandi riserve di idrocarburi del pianeta.
Inoltre, si trattava di attuare quella che gli Stati Uniti pensavano fosse la rivendicazione nazionalista di un vasto stato curdo che raggruppava il Kurdistan turco e iraniano con quelli di Siria e Iraq (entrambi ricchi di petrolio), con l’aggiunta di Kirkuk (il grande centro petrolifero iracheno) e Mosul (che è anche ricco di risorse petrolifere) oltre a pezzi di Armenia e Azerbaigian.
Nonostante il fatto che né la Siria, né la Turchia (che protestò subito alla presentazione della mappa a Roma alle autorità della NATO), né l’Iran intendevano essere privati di una porzione di territorio, i curdi stessi erano andati oltre la nozione di Stato-nazione, illusi dal Trattato di Sèvres del 1920, per rivendicare solo delle autonomie politico-culturali nei quattro paesi a cui erano stati assegnati.
Nella sua ricerca tra le minoranze etniche, la Casa Bianca contava sull’indipendenza dei beluci5 un popolo diviso dal Raj britannico6 tra Afghanistan, Iran e Pakistan. La creazione di un “Belucistan libero” sarebbe diventato realtà inglobando l’Iran sud-orientale, parte dell’Afghanistan sud-occidentale e una striscia di terra a ovest del Pakistan, dove i beluci rappresentano il 6% della popolazione.
Armenia e Azerbaigian, drasticamente ridotti a favore di un Grande Kurdistan, non avevano più un confine con la Turchia, che doveva rassicurare gli armeni sui loro contenziosi con i turchi dopo i massacri del 1915. Al contrario, i think-tankers di Washington avevano trascurato il fatto che gli azeri – che si dichiarano etnicamente vicini ai turchi sunniti, malgrado siano in prevalenza sciiti – non avrebbero gradito quell’isolamento geografico.
Un perdente, l’Arabia Saudita
Paradossalmente, a perdere maggiormente in questa mappa ridisegnata era però l’Arabia Saudita, storico alleato degli Stati Uniti. Il paese veniva tagliuzzato a tutto vantaggio della Giordania, Stato arabo sciita di origine irachena, e dell’espansione dello Yemen e, come ciliegina sulla torta, di una strana creazione: uno “Stato sacro islamico”, comprendente i luoghi santi della Mecca e Medina, una sorta di Vaticano nell’Hegiaz7.
Un altro paradosso: mentre l’amministrazione americana si è comportata con cautela, a dir poco, ogni volta che Israele, dopo il 1967, ha esteso il suo dominio sugli insediamenti della Palestina occupata, questo Stato ha dovuto aspettare fino al completamento del consolidamento territoriale per ottenere la sua parte. Nel frattempo, gli Stati Uniti stavano progettando la creazione di una Grande Giordania, che riuniva la Cisgiordania, l’attuale Giordania e una parte dell’Arabia Saudita sul versante nord-occidentale. Quanto al Libano, che si riversa sul suo vicino siriano, Ralph Peters gli prospettava un futuro chiamandolo “la rinata civiltà fenicia”.
Passando in esame tutte queste elucubrazioni, è difficile non pensare alla scena del Grande dittatore di Charlie Chaplin (1940) dove l’attore, nei panni di un dittatore sosia di Adolf Hitler, gioca con un mappamondo prima che gli scoppi in faccia. Perché, naturalmente, non si è verificato nulla di ciò che la tecnocrazia politico-militare di Washington aveva immaginato.
Il fallimento di una distopia
Al momento, gran parte del Vicino Oriente è alle prese con difficili sconvolgimenti, e chi aveva sperato di influenzare la sua storia a proprio vantaggio ha perso la sua superbia. Il “destino manifesto” è stato relegato negli scaffali del vecchie ideologie. Nessuno dei tanto strombazzati propositi si è realizzato. I confini definiscono ancora gli stessi spazi geografici – ad eccezione della Turchia, che si è concessa tre volte un’aggressione militare con una presenza permanente nel nord della Siria.
Nel luglio 2021, dopo 18 anni di occupazione e 2 anni di gestione diretta del paese da parte di Paul Bremer, un proconsole incompetente, le forze statunitensi si sono ritirate dall’Iraq senza onore né gloria. Un mese dopo, dopo vent’anni di guerra inutile, hanno lasciato l’Afghanistan nelle mani dei Talebani.
La conclusione non lascia adito a dubbi: nessuno dei tentativi di dare forma a questo “nuovo Medio Oriente” è riuscito, lasciando gli Stati Uniti in una situazione di decadenza sociale e morale, di disastro finanziario. Una prospettiva (che, secondo Zbigniew Brzezinski, doveva essere seguita da una balcanizzazione dell’Eurasia) che ha dimostrato solo l’approccio imperialista e neocolonialista di chi aveva elaborato quei progetti.
Non è detto che questo eccesso di arroganza sia totalmente scomparso anche se, oggi, si esprime in forme meno presuntuose.
1The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geo-Strategic Imperatives, Basic Books, New York, 1998. Trad. it. La grande scacchiera, Milano, Longanesi, 1998
2Briefing speciale sui viaggi in Medio Oriente e in Europa del Segretario di Stato Condoleezza Rice, Washington DC, 21 luglio 2006. (state.gov.)
3L’accordo Sykes-Picot è un trattato segreto stipulato nel maggio 1916 tra il governo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e quello della Repubblica francese, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale. [NdT].
4Alla fine della Prima Guerra Mondiale, Woodrow Wilson, 28° presidente degli Stati Uniti, unì a queste ipotesi di raggruppamento delle nazioni tre principi: l’autodeterminazione dei popoli, la libertà e la pace.
5I beluci, popolo iranico, sono gli abitanti della regione del Belucistan, in Asia sud-occidentale, nella zona che comprende l’area orientale dell’Iran e le zone meridionali di Afghanistan e Pakistan. I beluci parlano la lingua beluci, una lingua iranica, e sono prevalentemente musulmani.[Ndt].
6Il British Raj (dall’hindi rāj, che significa regno) è il regime coloniale britannico che il subcontinente indiano ha vissuto dal 1858 al 1947.
7Regione nord-occidentale della Penisola araba, oggi parte dell’Arabia Saudita. Le sue città hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita e lo sviluppo del primo Islam. [NdT].