Il 4 maggio scorso, è stato vietato l’ingresso in territorio francese al chirurgo palestinese Ghassan Abu Sittah, che avrebbe dovuto partecipare a una conferenza al Senato francese, indetta dalla senatrice dei Verdi Raymonde Poncet Monge. Secondo la versione del medico palestinese, le autorità tedesche, che hanno richiesto il divieto1, cercavano di impedire la sua testimonianza davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI). La notizia della sua detenzione all’aeroporto Charles de Gaulle è arrivata quando è giunta anche quella della morte, forse sotto tortura, di un altro medico palestinese, Adnan al-Bursh, arrestato a Gaza dalle forze israeliane e poi detenuto in territorio israeliano. Inoltre, dopo il ritiro delle forze armate israeliane dall’ospedale al-Shifa e dall’ospedale Nasser, sono state scoperte numerose delle fosse comuni che testimonierebbero esecuzioni sommarie di massa di pazienti e operatori sanitari da parte delle forze israeliane. Una scoperta che ha provocato forti reazioni, dando la spinta all’apertura di un’indagine da parte della CPI. Le esecuzioni sommarie sono solo uno degli aspetti della guerra di Israele contro Gaza. Ma, al di là dei mandati d’arresto contro il primo ministro Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Galant e il capo di Stato maggiore Herzi Halevi, gli investigatori della Corte sembrano operare bene sulla situazione degli ospedali a Gaza.
Guerra alle cure mediche e genocidio
Nell’ultimo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese, si ricorda che gli ospedali e altri luoghi di assistenza medica sono soggetti a una protezione speciale ai sensi del diritto che regola i conflitti armati. Attaccare un ospedale è un crimine di guerra in qualsiasi tipo di conflitto. A maggior ragione, costituiscono una violazione le devastazioni e l’abbattimento di infrastrutture essenziali. Rappresenta un crimine di guerra anche l’uccisione o il maltrattamento inflitto a operatori sanitari o feriti, sia civili che militari.
Ma gli attacchi contro gli ospedali o il personale presente all’interno delle strutture possono anche essere considerati un crimine contro l’umanità. La giurisprudenza internazionale fornisce un precedente in tal senso: quello del cosiddetto caso dell’ospedale di Vukovar, in cui le forze serbe avevano, durante l’assedio della città nel novembre 1991, arrestato all’interno dell’ospedale e poi giustiziato all’esterno quasi 200 soldati croati. Per questo caso giudicato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2009, è stato adottato il termine di crimine contro l’umanità, poiché l’esecuzione dei soldati rientrava in un attacco più vasto contro la popolazione civile2. A Gaza, l’attacco agli ospedali avviene in maniera sistematica e dev’essere collegato all’embargo sulla consegna di medicinali e attrezzature essenziali. Viene spesso riportata la notizia, ad esempio, di medici costretti ad operare amputazioni senza anestesia, perfino sui bambini.
Per quanto riguarda Gaza, il ricorso al termine genocidio può essere preso in seria considerazione anche alla luce, soprattutto, degli attacchi sistematici, della loro finalità nel quadro di una più ampia offensiva contro la popolazione civile. Nel corso di questi lunghi mesi, il bombardamento delle zone abitate ha causato oltre alle morti civili anche lesioni fisiche molto gravi. La scelta senza precedenti di colpire soprattutto gli ospedali, al di là del fatto che rappresentano luoghi organizzati della vita civile palestinese oltre che di rifugio fin dall’inizio dell’offensiva israeliana, è la dimostrazione di una volontà di impedire qualsiasi forma di assistenza e cura. Un divieto alle cure che, a fronte di lesioni gravi, condanna il ferito alla morte o all’invalidità permanente. Ma c’è anche la questione di “sottoporre deliberatamente un gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale” (come recita l’articolo II della Convenzione sul genocidio) con l’intenzione di distruggerlo.
L’impatto dei mandati d’arresto sui leader israeliani
È proprio la guerra all’assistenza medica e alle cure ad essere finita sotto inchiesta da parte della CPI, che potrebbe facilmente portare all’arresto dei leader israeliani che hanno ordinato gli attacchi contro ospedali, operatori sanitari, pazienti e famiglie rifugiate all’interno delle strutture. Un’ipotesi probabile dato il livello di organizzazione dell’esercito israeliano, che è sotto il controllo del governo. Anche l’arresto del personale sanitario, tra cui rientra anche quello del dottor Adnan al-Bursh, e la conseguente detenzione in Israele ne sono un chiaro segno. La guerra al ricorso alle cure mediche non è stata condotta quindi da elementi indisciplinati o dalla decisione spontanea di qualche battaglione, ma si tratta di una politica deliberata. I leader potrebbe essere ritenuti responsabili penalmente sulla base della loro posizione di comando, militare o civile. L’incapacità di prevenire o punire i reati è quindi una misura sufficiente a prendere in considerazione le loro responsabilità.
Alla luce della riluttanza della CPI ad aprire una commissione d’inchiesta sulla condotta di Israele dal 2009, la notizia dei mandati d’arresto contro gli alti vertici israeliani è stata accolta con un certo scetticismo dagli osservatori3. La reazione israeliana è stata chiaramente orchestrata dal premier Netanyahu, con conseguenti minacce rivolte alla CPI e all’Autorità Palestinese.. Gli Stati Uniti hanno seguito a ruota, sostenendo soprattutto l’incompetenza della Corte, una tesi giuridicamente poco convincente dal momento che ne accettano la giurisdizione sul caso della Russia, uno Stato che non fa parte dello Statuto di Roma istitutivo della CPI, come Israele. In seguito, alcuni politici negli Stati Uniti hanno minacciato l’approvazione di sanzioni contro la CPI. Le precedenti, adottate sotto l’amministrazione di Donald Trump, sono state attuate in risposta all’inchiesta sulla condotta dell’esercito americano in Afghanistan, ma anche per l’attenzione rivolta dalla Corte alla situazione in Palestina. Le sanzioni sono poi state revocate sotto la presidenza di Joe Biden, mentre Washington ha cominciato a fornire il proprio sostegno a un’indagine sulla Russia, senza diventare però Stato parte dello Statuto di Roma.
La veemente reazione alla possibilità che siano emessi mandati di arresto ha dato origine a una dichiarazione del 3 maggio 2024 da parte dell’ufficio del Procuratore, in cui si denunciano le minacce e le intimidazioni contro il Tribunale e il suo personale. Anche molti Relatori speciali del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso la loro “costernazione” di fronte alle dichiarazioni dei vertici israeliani e statunitensi. Tuttavia, non è chiaro se si tratti di indiscrezioni o se la Corte stia effettivamente indagando sui leader israeliani. È anche vero che la Corte può mantenere il segreto sui mandati d’arresto, ma, nel 2023, ha deciso di rendere pubblici i mandati contro alcuni alti responsabili russi, “nell’interesse della giustizia” e al fine di “prevenire nuovi crimini”4. D’altra parte, lo Statuto di Roma consente anche allo Stato, i cui dirigenti sono oggetto d’indagine, di entrare in contatto con l’ufficio del Pubblico Ministero. Infatti, il cosiddetto principio di “complementarità” riconosciuto dallo Statuto di Roma consente a qualsiasi Stato, anche se non parte dello Statuto, di sottrarsi alla giurisdizione del Tribunale qualora tale Stato intenda indagare e conoscere esso stesso i reati individuati. Considerando l’esistenza di probabili scambi tra Israele e il Procuratore della Corte, oltre all’atteggiamento passivo della Corte nei confronti delle azioni di Israele, si può presumere che l’emissione dei mandati contro i leader israeliani resti ancora molto incerta.
Se la Corte emettesse i mandati, ci sarebbe un impatto legale e simbolico molto rilevante. Da un lato, tutti gli Stati parte dello Statuto di Roma, compresi molti Stati europei che sostengono Israele, sarebbero tenuti ad arrestare le persone oggetto del mandato presenti sul loro territorio. Nel caso specifico del premier israeliano, che gode di un’immunità dal punto di vista del Diritto internazionale che ne rende complesso l’arresto, gli Stati parte dello Statuto della Corte potrebbero trovarsi in un conflitto di vincoli, poiché l’obbligo di arresto sulla base del mandato entrerebbe in conflitto con la norma internazionale dell’immunità. Resterebbe in piedi però il rischio di arresto. D’altra parte, identificare come responsabili di crimini internazionali i leader israeliani avrebbe un effetto politico molto importante.
Propaganda israeliana e censura occidentale
Ma le voci relative ai mandati potrebbero anche rientrare nella propaganda israeliana, che sta prendendo di mira i tribunali internazionali5. L’importante ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) del 26 gennaio 2024, che comporta l’obbligo per Israele di adottare misure cautelari dato il rischio di genocidio a Gaza, è stata descritta come una sentenza emanata da un “tribunale antisemita” secondo il ministro israeliano Itamar Ben Gvir6. L’ordinanza è stata prontamente oscurata anche dalle eclatanti accuse di Israele contro l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA). Una volta smentite queste fake news – e con il ribaltamento delle accuse da parte dell’UNRWA che ha rivelato come il proprio personale fosse stato detenuto e torturato da Israele – l’importanza dell’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia è emersa di nuovo.
A questo punto è stato sostenuto un elemento inedito a favore di Israele: un’intervista con l’ex presidente della Corte Internazionale di Giustizia, Joan Donoghue, in cui sostiene che la Corte non avrebbe riconosciuto alcun “caso plausibile di genocidio” (“plausible case of genocide”). Va qui ricordato che, nell’ordinanza del 26 gennaio 2024, la Corte ha dichiarato che il diritto dei palestinesi a essere protetti da atti di genocidio è plausibile (§§ 36, 54), e che esiste un’urgenza, cioè “un reale e imminente rischio” di pregiudizio irreparabile ai diritti reclamati (§ 61, 74). Si tratta infatti di un rischio di genocidio, anche se la Corte non usa l’espressione “caso plausibile di genocidio”. I media si sono subito lanciati sulle dichiarazioni ambigue dell’ex presidente Donoghue per ridimensionare il senso dell’ordinanza, confutando l’uso del termine “genocidio”.
Un caso che riporta alla pubblica sconfessione nel 2011 dell’importante rapporto della missione d’inchiesta su Gaza ad opera del suo stesso Presidente, il giurista Richard Goldstone7. Le posizioni pubbliche di Joan Donoghue, proprio come quelle di Goldstone, lasciano pensare alle forti pressioni esercitate da Israele e dai suoi alleati.
Più in generale, sono evidenti delle forme di intimidazione e censura sulle valutazioni di carattere giuridico nei paesi occidentali.
Emerge ormai un quadro sempre più chiaro della situazione a Gaza, pur se accompagnato dalla repressione delle proteste studentesche contro le politiche dei loro Stati o delle loro università, negli Stati Uniti come in Europa. È il motivo per cui la Relatrice Speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Irene Khan, ha dichiarato di recente che la situazione a Gaza ha dato origine a una crisi globale della libertà di espressione. Sottolineando un pregiudizio mediatico nei confronti dei manifestanti pro-Palestina, la Relatrice ha ricordato anche che, alla luce del Diritto internazionale sulla libertà di espressione, le critiche alle politiche di Israele sono assolutamente legittime8.
1Un tribunale tedesco ha poi ribaltato la decisione delle autorità il 14 maggio.
2Hervé Ascensio e Rafaëlle Maison, con la collaborazione di Chloé Bertrand, “L’activité des juridictions pénales internationales (2008-2009)”, Annuaire français de droit international, 2009, pp. 377-379.
3Si veda ad esempio l’analisi di Richard Falk, “War on Gaza: The ICC must seize this moment to hold Israel accountable”, Middle East Eye, 6 maggio 2024.
4Comunicato stampa del 17 marzo 2023
5Per un’analisi sul lungo periodo della comunicazione israeliana, si veda John Quigley, The international diplomacy of Israel’s Founders, Deception at the United Nations in the Quest for Palestine, Cambridge University Press, 2016. Sulla posizione israeliana negli Stati Uniti, si veda John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La lobby israeliana e la politica estera degli USA, Asterios, 2007.
6Sam Sokol, “Un ‘déshonneur’ pour la CIJ: réactions israéliennes suite au verdict de La Haye”, The Times of Israel, 26 gennaio 2024.
7Su questo episodio, si veda Norman G. Finkelstein, Gaza, An Inquest into its Martyrdom, University of California Press, 2018, pp. 117-132.
8“Criticizing Israel is perfectly legitimate under international lawe “there is a bias against pro-palestinian support” ”.
Sul punto, si veda anche la risoluzione del Consiglio dei diritti umani del 5 aprile 2024, secondo la quale “bisogna stare attenti a non confondere le critiche alla violazione del Diritto internazionale da parte di Israele con l’antisemitismo” (punto 24) )