Tutto ha inizio nel 2009, all’indomani dell’operazione israeliana «Piombo fuso» nella città di Gaza (2008-2009). La Palestina lancia un’offensiva diplomatica: rivendica la propria sovranità statale e con una dichiarazione inviata alla CPI s’impegna ad accettare la giurisdizione della Corte, a patto che quest’ultima avvii un’inchiesta per i crimini commessi dall’esercito israeliano1. Tale atto ha come scopo quello di determinare in primo luogo se la Palestina sia uno Stato a tutti gli effetti, poiché solo uno Stato riconosciuto è autorizzato a far parte dello Statuto di Roma2.
2009-2014 : il riconoscimento dello Stato Palestinese
Presa in carico la questione, è l’Ufficio del procuratore (OTP) della Corte penale internazionale ad avanzare la richiesta di contribuire con pubblicazioni e studi per poter risolvere questo complicato problema di diritto internazionale. Ne arrivano decine da parte di ONG, università o giuristi che vengono trasmessi e pubblicati sul sito della CPI. Intanto, la Palestina è diventata membro dell’Unesco (ottobre 2011) ed ha intrapreso azioni presso l’ONU per diventare uno Stato membro poi, di fronte al veto degli Stati Uniti, «Stato osservatore». La richiesta andrà a buon fine solo nel novembre 2012 per il voto della risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale.
La decisione dell’Ufficio del procuratore non arriverà che nell’aprile del 2012, vale a dire più di tre anni dopo la presentazione della richiesta palestinese. Il procuratore ritiene che la questione dello status giuridico della Palestina sia incerto e che non spetti a lui risolverlo, e che solo una posizione chiara adottata dall’Assemblea degli Stati-parte che aderiscono alla CPI o dall’Assemblea generale dell’ONU potrebbe portare ad una risoluzione. È a dir poco singolare che ci sia voluto un tempo così lungo per dare una risposta tutto sommato elementare. È un documento che non arriva a due pagine e in sostanza criticabile in molti punti, tra cui il fatto che non sia stata neppure menzionata l’ammissione della Palestina all’Unesco, sebbene questa costituisca una prova inconfutabile che la maggior parte degli stati riconosca la Palestina come Stato.
Inizio della seconda stagione: dopo l’operazione «Margine Protettivo», condotta dalle forze di difesa israeliane nella Striscia di Gaza nell’estate del 2014, il ministro palestinese della Giustizia tenta di «riapplicare» la dichiarazione fatta nel 2009, basandosi sulla posizione di Stato osservatore della Palestina all’ONU, accordata in seguito alla decisione presa dal procuratore nell’aprile 2012. Anche quest’azione resterà però senza alcun esito. Nella dichiarazione del 2 settembreé 2014, la nuova procuratrice Fatou Bensouda specifica che l’Ufficio «ha esaminato le implicazioni giuridiche di questa modifica [il nuovo status assunto presso l’ONU] ed ha concluso che se questo cambiamento non avvalorava retroattivamente la dichiarazione del 2009, annullata in precedenza perché depositata senza il requisito necessario, la Palestina poteva a questo punto aderire allo Statuto di Roma».
Una posizione che ha sollevato parecchi interrogativi di natura giuridica. La decisione del procuratore nell’aprile del 2012 non ha «invalidato» la dichiarazione, quanto piuttosto sembra solo averla «sospesa» in attesa d’ottenere un chiarimento sullo status giuridico della Palestina. Quest’ultimo è arrivato in un secondo momento con il voto dell’ONU, aprendo la strada ad una futura adesione della Palestina alla CPI, dal momento che i dubbi sul suo status giuridico sembrano essere stati accantonati.
2015-2019 : la «situazione della Palestina»
Inizia qui una terza fase, con l’adesione formale della Palestina allo Statuto di Roma nel gennaio del 20153, accompagnata da una dichiarazione che riconosce la giurisdizione della CPI per i presunti crimini commessi «nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, a partire dal 13 giugno 2014»4. Poco dopo, la procuratrice apre un «esame preliminare» sulla «situazione della Palestina»5, per verificare se siano presenti tutte le condizioni per la giurisdizione della Corte e per stabilire se siano stati commessi crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidi.
Questa fase preliminare del procedimento, prima dell’apertura di una vera e propria inchiesta, durerà... cinque anni, una durata che ha suscitato ancora una volta dubbi sulla reale volontà della CPI di occuparsi del caso palestinese, in uno scenario in cui molti stati alleati d’Israele, compresi quelli europei, non hanno nascosto il proprio dissenso di fronte alle iniziative palestinesi.
Alla fine, nel dicembre 2019, l’ufficio del procuratore ha annunciato di aver chiuso l’esame preliminare e di essere pronto ad aprire le indagini, ritenendo che la Palestina abbia regolarmente aderito allo Statuto della CPI e che la Corte abbia la competenza per poter giudicare i crimini commessi sul suo territorio, comprese la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Il procuratore ha individuato quattro categorie principali di crimini di guerra su cui intende indagare:
➞ i crimini commessi da Hamas e da altre fazioni palestinesi durante la guerra nella Striscia di Gaza del 2014, che riguardano in particolare i lanci di razzi contro civili israeliani;
➞ i crimini commessi nello stesso contesto dall’esercito israeliano, che riguardano specialmente l’uccisione di civili palestinesi, oltre alla distruzione di edifici ed abitazioni civili;
➞ i crimini commessi dall’esercito israeliano durante la « Marcia del ritorno» del 2018, in cui i soldati hanno aperto il fuoco ed ucciso circa 200 civili palestinesi, oltre a causare numerosi feriti;
➞ in ultimo, i crimini commessi nel corso della politica di colonizzazione, in particolare l’insediamento della popolazione civile israeliana.
Ribadire le frontiere del 1967
Ma ecco un nuovo colpo di scena: il procuratore chiede che una «Camera preliminare» si pronunci sull’estensione della giurisdizione territoriale della Corte, tenuto conto del perdurare dei dubbi in proposito, anche per rendere più solida ogni inchiesta futura. Segue un ulteriore proroga di più di un anno, quindi arriva il pronunciamento della sentenza della Camera nel febbraio scorso. Tuttavia, l’attesa non è stata vana perché la Camera preliminare conferma la posizione dell’Ufficio del procuratore: viene deciso che la Corte ha la giurisdizione su tutti i crimini commessi nell’intero territorio palestinese occupato, compreso quello di Gerusalemme Est, a partire da giugno 2014, aprendo in tal modo la strada ad una procedura svolta nel modo corretto.
La Camera stabilisce per prima cosa che la Palestina sia considerata come uno «stato membro dello Statuto di Roma», dopo il riconoscimento del suo status di «stato non membro osservatore delle Nazioni Unite» nel 2012. Inoltre, può esercitare la competenza della CPI, in particolare la sua giurisdizione territoriale, e presentare un deferimento (un reclamo) all’Ufficio del procuratore, cosa che ha fatto nel 2018.
Il secondo punto cruciale è determinare l’estensione precisa dei territori su cui la Corte possa esercitare la sua giurisdizione penale. Per stabilire la giurisdizione che includa tutti i territori palestinesi, la camera si basa principalmente sul diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, come stabilito in innumerevoli risoluzioni della assemblea generale dell’ONU. In particolare, la risoluzione 67/19 che concede alla Palestina lo status giuridico di Stato osservatore e che «riafferma il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla indipendenza del proprio Stato della Palestina sul territorio palestinese occupato dal 1967». In ultima istanza, la Camera considera che gli accordi di Oslo, che sottraggono i cittadini israeliani alla competenza penale dell’Autorità Palestinese, non abbiano alcun effetto sulla decisione della giurisdizione territoriale della Corte.
Nonostante quanto sancito, le questioni decise dalla Camera vanno al di là del ristretto ambito del procedimento dinanzi alla Corte penale internazionale e comportano una dimensione giuridica e simbolica più ampia. I giudici si sono basati su testi dalla portata molto generale, che possono appunto per questo essere considerati una prova giuridica in diritto internazionale dello Stato di Palestina e dei confini a cui ha diritto. Da questo punto di vista, le difficoltà legate all’effettivo rispetto di queste osservazioni dimostrano quindi che più che una questione di diritto il problema è la mancanza di volontà politica nel rispettarlo, come è chiaro dal rifiuto continuo della maggior parte degli Stati europei a riconoscere lo Stato di Palestina.
Un’inchiesta sotto pressione
Non sorprende allora che Israele abbia accusato la Corte penale internazionale (CPI) di « puro antisemitismo» e gli Stati Uniti abbiano rifiutato la decisione della Camera. A loro si sono aggiunti altri paesi occidentali come il Canada, l’Australia, l’Ungheria e perfino la Germania, che ha dichiarato su Twitter che «la Corte non è competente per l’inesistenza di uno Stato palestinese così come richiesto dal diritto internazionale»6.
Queste sono alcune delle reazioni e dei silenzi imbarazzati delle altre diplomazie occidentali che dimostrano come il prosieguo del procedimento non sarà verosimilmente esente da pressioni e che un compito delicato spetterà al nuovo procuratore designato Karim Khan, che entrerà in carica a giugno prossimo.
In effetti, l’inchiesta formale che è stata aperta dall’Ufficio del procuratore il 3 marzo, sarà lunga e piena d’insidie, e non è facile prevederne l’esito. In linea di principio, dovrebbe permettere di determinare con precisione quali crimini sono stati commessi e chi ne è stato responsabile, il che presuppone un esame fattuale dettagliato e delle prove materiali. Questo compito sarà senza dubbio più agevole rispetto ai sospetti palestinesi, dal momento che la Palestina ha l’obbligo di cooperare in quanto stato membro dello Statuto. Israele, invece, non ha alcun obbligo a collaborare e anzi probabilmente farà di tutto per ostacolare il lavoro degli inquirenti.
Il procuratore dovrà anche stabilire se prendere in considerazione altri crimini o altre definizioni. Nel documento presentato alla Camera preliminare, sono stati mantenuti solo i crimini di guerra, mentre la politica d’occupazione e di colonizzazione è stata considerata nel suo insieme, ma potrebbe lo stesso accertare, data la sua natura sistematica e discriminatoria, crimini contro l’umanità, in particolare il crimine d’apartheid, una definizione adottata in due recenti rapporti da parte di ONG israeliane (Yesh Din, B’tselem).
Il diritto internazionale in atto
Altro prossimo punto dolente sarà la valutazione da parte della CPI dell’applicazione del principio di «complementarità», secondo cui la Corte dovrà astenersi dal portare avanti un caso se questo è già oggetto di procedure d’inchiesta e di procedimenti penali nello Stato competente. È in questo modo che lo Stato d’Israele è solito aprire le indagini sugli «incidenti» che coinvolgono le forze armate israeliane, in genere per chiuderle senza esito qualche settimana dopo. È quindi notevole il lavoro di verifica che attende l’Ufficio del procuratore sulla «credibilità» delle procedure condotte in Israele.
Ma le accuse più gravi imputate ai responsabili israeliani riguardano i metodi specifici del conflitto o la politica di colonizzazione che rappresentano l’attuazione delle dottrine ufficiali assunte e, come tali, mai state oggetto d’inchiesta. Per questi crimini, il fatto che manchino procedure penali interne dovrebbe facilitare il compito e il principio di complementarità potrebbe essere facilmente evitato. La prova di questo genere di crimini dovrebbe essere più agevole, in quanto è basata su documenti e decisioni pubbliche in un contesto di politica statale consolidata e con una catena di responsabilità debitamente accertata.
C’è ancora molta strada da fare prima che si arrivi ad aprire dei dossier individuali sulla base di accuse specifiche, emettendo nell’ipotesi dei mandati di cattura, per non parlare dei processi, ben sapendo che non possono tenersi che in presenza degli accusati. In ogni caso, la sentenza emessa dalla Camera costituisce già una grande vittoria giuridica, sia come tappa verso la messa in discussione delle responsabilità penali per i crimini commessi nel contesto dell’occupazione israeliana, e più in generale, per il fatto di tener conto del diritto internazionale per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Portare alla luce i crimini internazionali commessi in maniera sistematica dai leader israeliani potrebbe così aiutare a fare pressione sugli stati occidentali affinché mettano in discussione le loro relazioni privilegiate con Israele, proprio come è avvenuto con il Sudafrica negli anni ’80.
1Government of Palestine, Declaration Recognizing the Jurisdiction of the International Criminal Court, 29 janvier 2009.
2Lo Statuto di Roma è il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale (CPI). Stipulato a Roma nel luglio del 1998, definisce in particolare i crimini internazionali su cui la Corte ha un potere giurisdizionale: genocidi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità oltre ai crimini d’aggressione.
3«Lo Stato di Palestina ratifica lo Statuto di Roma», 7 gennaio 2015, ICC-ASP-20150107-PR1082.
413 giugno 2014”, 5 gennaio 2015, ICC-CPI-20150105-PR1080.
516 gennaio 2015, ICC-OTP-20150116-PR1083.
6« Germany, Hungary back Israel in opposing ICC ruling on war crimes probe », Times of Israel, 10 février 2021.