Iraq 2003. Un crimine senza colpevoli

La fine della sicurezza collettiva

Vent’anni fa, il 20 marzo 2003, il governo americano, sostenuto da vari paesi europei tra cui Spagna, Regno Unito e Italia, dichiarava guerra all’Iraq. Una guerra lampo durata appena 26 giorni, ma la natura illegale di quell’operazione ha contribuito alla fine del sistema di sicurezza collettiva che era alla base della creazione delle Nazioni Unite nel 1945.

© Thierry Cauwet, 2012/Fonds de dotation Enseigne des Oudin

Nel marzo 2003, l’aggressore americano1, membro fondatore delle Nazioni Unite e membro permanente del Consiglio di Sicurezza, e la coalizione dei suoi alleati presentano delle presunte prove come fondamento giuridico a sostegno della loro offensiva contro l’Iraq. Nonostante i loro instancabili sforzi, non riescono però a mascherare la natura illegale di quell’operazione militare.

Tra i vari argomenti di natura giuridica sollevati ex post a sostegno dell’invasione, nessuno appare valido. Secondo il giurista internazionale Michael J. Glennon, ci sarebbe stato poi un unanime consenso da parte della comunità degli Stati nell’abolire la norma che vietava il ricorso alla forza. Per fortuna la sua resta una voce isolata2. I rappresentanti ufficiali dell’amministrazione Bush non si spingono fino a questo punto, ma impiegano due argomentazioni alternative altrettanto poco convincenti.

Per alcuni consulenti legali del Dipartimento di Stato, appoggiati dal Procuratore generale britannico oltre che dai rappresentanti del ministero degli Affari esteri della Gran Bretagna (Foreign Office), l’invasione dell’Iraq rientra nel quadro normativo di un’autorizzazione, ancora in vigore3, all’impiego della forza che risale al 1990, vale a dire la Risoluzione 678 del 29 novembre 1990, adottata durante la prima guerra del Golfo. Con quel testo, il Consiglio di Sicurezza concedeva l’autorizzazione a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di utilizzare ogni mezzo necessario per costringere l’Iraq al ritiro dal territorio del Kuwait. Quel testo richiedeva all’Iraq di attenersi alla Risoluzione precedente, quella del 2 agosto 1990 (la numero 660) relativa al ritiro delle truppe irachene dal territorio del Kuwait, e a tutte le successive Risoluzioni adottate.

Estendere gli effetti di quella Risoluzione 12 anni dopo, e considerare ancora valida l’autorizzazione concessa allora all’impiego della forza in modo da far applicare la Risoluzione 1441 del 2002, che chiedeva all’Iraq di accettare il ritorno degli ispettori ONU per la verifica del disarmo, era una forma di disonestà intellettuale. A parte il fatto che la Risoluzione 678 si discostava a sua volta dal ruolo e dalle responsabilità del Consiglio di Sicurezza, non aveva senso adottarla di nuovo, una volta raggiunto il suo obiettivo. Il suo scopo era solo ed esclusivamente la liberazione del Kuwait.

Altri nella cerchia ristretta del presidente Bush ritenevano legale l’intervento del 2003 in quanto esercizio del diritto di legittima difesa4. È questa la tesi, altamente discutibile, della “difesa preventiva”, che non ha però alcun fondamento giuridico. Né il diritto internazionale, né la dottrina giuridica, hanno mai conferito infatti alcuna validità a questa tesi e molti autori, anche negli Stati Uniti, hanno decretato l’illegalità di quell’operazione5.

Va citata inoltre la discutibile analisi fornita da una parte della giurisprudenza secondo la quale il Consiglio di Sicurezza avrebbe legalizzato a posteriori l’uso della forza e la conseguente invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti6. Citando le Risoluzioni 1483, 1500 e 1511, alcuni autori vi hanno visto un riconoscimento de facto dell’invasione americana, in pratica una tacita legittimazione delle operazioni militari che hanno portato a quell’occupazione. Tesi che restano isolate, mentre le osservazioni formulate nello stesso Consiglio di Sicurezza da alcuni Stati membri permettono di escludere una simile interpretazione7.

E di fronte a una questione così delicata, che riguarda la possibilità di mettere fine al divieto dell’uso della forza, considerato però un decisivo passo avanti nel diritto internazionale, tutta la dottrina giuridica europea si è opposta, stabilendo l’illegittimità dell’intervento anglo-americano in Iraq.

Ritorno alla guerra del 1991

Il diritto internazionale relativo all’uso della forza armata non è stato peraltro chiarito. In effetti, i tentativi di collegare la rischiosa operazione del 2003 a quella del 1991, che invece era legale, ci portano a soffermarci sul periodo della guerra. Un’analisi rigorosa degli eventi e del loro quadro normativo dimostra che la prima guerra del Golfo aveva già messo in crisi il sistema di sicurezza collettiva.

Il 2 agosto 1990, dopo l’invasione delle truppe irachene del Kuwait voluta da Saddam Hussein - azione condannata dalla Carta delle Nazioni Unite - il Consiglio di Sicurezza aveva tutto il diritto di intervenire in nome della sicurezza collettiva. E così ha reagito, grazie alla citata Risoluzione 660, chiedendo all’Iraq l’immediato e incondizionato ritiro delle sue forze. Tuttavia, il Consiglio non dispone di mezzi militari per la sua azione fin dalle origini della Carta. L’articolo 43 della Carta prevedeva, in realtà, che il Consiglio di Sicurezza avesse una forza militare predisposta in grado di intervenire a nome dell’ONU. E per la credibilità dell’intero organismo, era necessario che la forza fosse creata e gestita collegialmente. Ma non è mai stata creata. Le tensioni della Guerra Fredda, scoppiate poco dopo l’istituzione delle Nazioni Unite, non lo permettevano.

Il Consiglio si è dunque limitato a sollecitare gli Stati ad ogni crisi per trovare delle misure-tampone. Nei casi in cui queste soluzioni hanno assunto la forma di semplici operazioni di peacekeeping («Caschi blu») senza mandato di intervento, il sistema non è stato compromesso. Ma ogni volta che si è trattato, sotto la copertura del capitolo VII della Carta, di applicare delle sanzioni militari contro uno Stato, il fallimento del sistema è stato evidente. Com’è accaduto durante la guerra di Corea nel 1950, quando l’esercito americano è intervenuto con alcuni battaglioni di altri Stati. E così è stato anche nel 1990. Il 29 novembre, il Consiglio di Sicurezza ha poi autorizzato gli Stati membri “ad usare tutti i mezzi necessari” per far applicare la Risoluzione 660 che costringeva Saddam Hussein al ritiro dal Kuwait. Il Consiglio ha quindi dato il via libera all’uso della forza armata, chiedendo solo di essere regolarmente informato.

Sulla base di queste premesse, viene formata una coalizione di 35 paesi che dà il via, a partire dal 16 gennaio 1991, all’operazione “Tempesta nel deserto” (Desert Storm). In 5 giorni, la coalizione sbaraglia l’esercito iracheno, liberando il Kuwait. Gli americani, al comando delle operazioni, rinunciano in quel momento a portare avanti l’offensiva su Baghdad per far cadere il dittatore iracheno. Il 28 febbraio 1991 viene quindi firmato un cessate il fuoco con l’Iraq.

Un tradimento della lettera e dello spirito della Carta

Quella dell’ONU era un’operazione conforme ai criteri del sistema di sicurezza collettiva? In realtà, il Consiglio all’epoca ha violato sia la lettera che lo spirito della Carta. Alcuni in modo compiacente, nell’intento di presentare la guerra secondo un fondamento giuridico, si sono basati sull’articolo 42 del testo. Vi si legge che se le sanzioni non militari non hanno avuto effetto (come in quel caso), il Consiglio può intraprendere un’azione militare “eseguita da forze aeree, marittime o terrestri di membri delle Nazioni Unite”. Ma il testo appare poco prima del decisivo articolo (43) che in qualche modo lo esplicita, specificando che è mediante accordi speciali che le forze armate degli Stati membri devono essere messe a disposizione del Consiglio di Sicurezza.

All’articolo ne fanno seguito altri due di fondamentale importanza, che confermano la necessità, in caso di ricorso all’uso della forza per un’operazione di sicurezza collettiva, che gli Stati membri si facciano da parte a favore di un terzo membro imparziale, che dovrebbe essere lo stesso Consiglio di Sicurezza. “I piani per l’uso della forza armata sono stabiliti dal Consiglio con l’assistenza del Comitato dello Stato maggiore” (articolo 46). E questo Comitato di Stato maggiore è responsabile, “sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza, della direzione strategica di tutte le forze armate messe a disposizione del Consiglio” (articolo 47, comma 3).

Appare chiaro quindi lo spirito della Carta. Un’operazione di sicurezza collettiva che include delle sanzioni militari non può in alcun caso essere delegata ad uno Stato o ad un gruppo di Stati che agiscono liberamente con il semplice obbligo di informare il Consiglio. E se sono davvero le forze degli Stati membri a formare i contingenti della missione del Consiglio di mantenere la sicurezza collettiva, è fondamentale che queste forze siano “denazionalizzate”, cioè poste sotto il comando internazionale. Ed è proprio questo ciò che è mancato.

Sanzioni mortali

La guerra del Golfo del 1991 può essere giustificata ancor meno secondo il diritto internazionale in quanto allora c’era per la comunità internazionale uno spiraglio di manovra per superare il veto iniziale. Infatti, due anni prima, con la fine della Guerra Fredda, era stato rimosso l’ostacolo alla conclusione di accordi speciali previsti dalla Carta per la costituzione di forze realmente internazionali. L’ultimatum dato a Saddam Hussein il 29 novembre 1990, pur concedendogli una proroga, consentiva infine di mettere in atto l’articolo 43 della Carta delle Nazioni Unite che prevedeva la costituzione di forze propriamente internazionali poste sotto il comando del Comitato di Stato maggiore. Niente di tutto ciò è avvenuto, perché lo spirito del multilateralismo era già morto.

È necessario ancora una volta ricordare come il Consiglio di Sicurezza, che aveva inizialmente imposto sanzioni economiche con lo scopo esplicito di costringere l’Iraq al ritiro dal Kuwait, una volta ottenuto il risultato, ha comunque esteso quelle sanzioni sotto forma di un micidiale embargo nei confronti della popolazione. Eppure, visto che era stato raggiunto lo scopo, si sarebbero dovute revocare. Il Consiglio, invece, le ha rinnovate per altri 12 anni con Risoluzioni che elencavano le nuove condizioni che l’Iraq doveva soddisfare, soprattutto in materia di disarmo, per mettere fine all’embargo.

Va aggiunto inoltre a questa strumentalizzazione dell’ONU al servizio degli interessi di alcune grandi potenze, il fatto che in alcuni conflitti il Consiglio di Sicurezza non ha esitato a dare mandato alla NATO di svolgere operazioni militari per conto delle Nazioni Unite (in Bosnia nel 1995 o in Libia nel 2011). Anche se la NATO è un’alleanza militare difensiva, chiaramente orientata a servire gli interessi di alcuni Stati per il timore di minacce provenienti da altri Stati, per la sua natura unilaterale non poteva in nessun modo farsi carico di operazioni militari condotte a nome delle Nazioni Unite. Per essere credibili, queste operazioni devono essere condotte da un organismo che opera per un interesse comune e non per gli interessi particolari di un gruppo.

È chiaro quindi che la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq nel 2003 rientrava nella strumentalizzazione del sistema di sicurezza collettiva che ha portato alla sua rovina. Le attuali guerre in corso, nel Tigrai, nell’Est della Repubblica del Congo, in Siria, in Palestina, nello Yemen, e più vicino a noi, in Ucraina, rappresentano l’inesorabile dimostrazione del crollo di quel sistema. Una fine accettabile – per alcuni addirittura auspicabile – per rimettere in moto una corsa al riarmo per la guerra di tutti contro tutti. Ma si può anche rimpiangere il fallimento di un’utopia fondatrice, valutarne le conseguenze, soprattutto per la credibilità delle grandi potenze nei confronti degli altri Stati del mondo, e prendere in considerazione la richiesta urgente di come rilanciare quell’utopia.

1Alain Pellet, « L’agression », Le Monde, 22 marzo 2003.

2Michael Glennon, « Self-Defense in an Age of Terrorism », Proceedings of the American Society of International, vol. 97, 2003 ; p. 150-152.

3- William Howard Taft and Todd Buchwald, «Preemption, Iraq and International Law», American Journal of International Law, vol. 97, 2003; p. 557 ; - documents britanniques, International and Comparative Law Quarterly, 2003 ; p. 812-824.

4John Yoo, «International Law and the War in Iraq», UC Berkeley Public Law Research Paper No. 145, 20 febbraio 2004.

5Voir le recensement effectué par Mary O’Connell, «La doctrine américaine de l’intervention en Irak», Annuaire français de droit international, 2003 ; p. 15, note 50.

6Recensement des auteurs ayant soutenu cette thèse et analyse par Massimo Iovane et Francesca de Vittor, « La doctrine européenne et l’intervention en Irak », ibid, p. 25-26.

7Notamment les délégués de la Syrie et de la Russie (UNDOC.S/PV. 4732, p. 3).