Il presidente dell’Ufficio politico di Hamas è apparso vestito in maniera sobria come al solito con una camicia bianca e una giacca impreziosita da una spilla a forma di bandiera palestinese. Ha tenuto un discorso molto controllato, lontano dalle farneticazioni di alcuni predicatori o capi militari, anche se il tono si è fatto più duro verso la fine. Ha anche variato il registro linguistico utilizzato, passando dall’arabo classico che domina il discorso al dialetto palestinese quando si è trattato di evocare le sofferenze del popolo di Gaza, o le sorti dei prigionieri, una questione che ha un forte valore emotivo e affettivo. Sullo sfondo, una vista di Gerusalemme con la Cupola della Roccia che dà l’idea della doppia dimensione del conflitto, nazionale e religiosa.
Noi li avevamo avvertiti…
Il discorso è tornato a più riprese sulle origini della recente escalation, imputata sia all’atteggiamento aggressivo di Israele che all’indifferenza della comunità internazionale di fronte al dramma dei palestinesi. Hamas non voleva questa guerra ma è stata costretta a farla. Il testo evoca l’imminente pericolo e i rischi che mettono in discussione la sopravvivenza stessa della Palestina. È proprio il contesto che avrebbe costretto Hamas ad agire, con Israele rimasto sordo ai suoi ripetuti avvertimenti. Hamas fa ricadere esplicitamente le responsabilità dell’attacco contro Israele sulla comunità internazionale e, indirettamente, sui regimi arabi della regione.
Per dimostrare che la pazienza è al limite e che “quel troppo è troppo”, ritorna più volte l’espressione “Quante volte...” per scandire il discorso.
La paura dell’isolamento
Mettendo a nudo la debolezza e i fallimenti degli israeliani, l’operazione lanciata da Hamas mostra i limiti di un’alleanza con Tel Aviv. Il riferimento è chiaro: si tratta degli Accordi di Abramo firmati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain il 15 settembre 2020, sotto il patrocinio americano. Poi, sono state poste le basi per estendere l’alleanza al Marocco e al Sudan, attratti da altre considerazioni.
Incapace di garantire la propria protezione, Israele potrà dare ancora meno garanzie ai suoi nuovi alleati. Haniyeh punta il dito – e non è il solo – sul fallimento dell’intelligence e sui dispositivi di sicurezza israeliani:
Dovete sapere che un’entità che non è in grado di proteggere sé stessa dai nostri combattenti non è in grado di fornirvi sicurezza o protezione. L’intero processo di normalizzazione e riconoscimento, tutti gli accordi che sono stati firmati [con Israele] non potranno mai porre fine a questo conflitto.
Il pericolo da cui i paesi arabi cercano di proteggersi avvicinandosi a Israele è ovviamente l’Iran. Il messaggio del leader di Hamas si rivolge in particolare all’Arabia Saudita, che negli ultimi tempi aveva fatto grossi passi avanti sulla strada della normalizzazione. È chiaro, infatti, che l’adesione del nuovo peso massimo della scena regionale agli Accordi di Abramo avrebbe dato il colpo di grazia al sostegno già molto misurato degli arabi alla causa palestinese. Sull’abbandono della causa, il tono si fa accusatorio: “Oggi Gaza cancella dalla Comunità arabo-musulmana la vergogna delle sconfitte, la vergogna dell’accettazione e dell’inazione”.
Nel corso del discorso, molto presto viene toccata la questione della normalizzazione tra Israele e alcuni Stati arabi, Haniyeh ci ritorna ancora verso la fine, il che dimostra la sua importanza. Un’insistenza che può, in effetti, far pensare al ruolo svolto dagli iraniani nell’operazione di attacco, come fa un articolo del Wall Street Journal datato 8 ottobre 20231. È ovvio che il riavvicinamento tra Riyadh e Tel Aviv darebbe un colpo molto duro agli iraniani, rafforzandone l’isolamento.
Un appello alla comunità arabo-musulmana
Nel suo intervento, Haniyeh torna sull’embargo insostenibile imposto alla popolazione di Gaza:
Gaza subisce un embargo da quasi vent’anni2 durante i quali ci sono state quattro o cinque guerre3 che hanno causato decine di migliaia di martiri e feriti, case distrutte. Gaza sta vivendo una tragedia umanitaria, è una gigantesca prigione che rinchiude oltre 2 milioni di famiglie palestinesi.
Evoca anche il crescente peggioramento della situazione dei palestinesi negli ultimi mesi: i raid israeliani in Cisgiordania, le morti di civili innocenti, le profanazioni dei luoghi santi, le limitazioni imposte ai palestinesi nell’esercizio del loro culto presso la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, e alla tomba dei patriarchi (moschea di Ibrahim) a Hebron, così come le estorsioni dei coloni. Haniyeh accenna anche alle gravi minacce contro la Cisgiordania, dove “due milioni” di coloni sarebbero pronti a stabilirsi, e ai luoghi santi musulmani di cui gli israeliani si apprestano a prendere il controllo.
E come d’obbligo per il movimento islamista, il discorso si apre sulle solite formule religiose. Il tono generale è quello generalmente usato dalle organizzazioni islamiche combattenti, con un ricorso all’iperbole e a una retorica altisonante e trionfalistica. Inoltre, è costellato da otto riferimenti al Corano. La questione dei luoghi santi viene affrontata più volte, per evocare la loro profanazione o il rischio di vedere i musulmani espropriati dei loro luoghi di culto. La questione chiarisce anche il nome dell’operazione lanciata contro Israele, a doppia connotazione religiosa: “Diluvio di Al-Aqsa”. La scelta dell’immagine di sfondo ha lo stesso registro.
L’invito di Haniyeh ai popoli arabo-musulmani è quello di sostenere i palestinesi:
Gaza è la punta di diamante della Resistenza che ha lanciato l’attacco, ma trattandosi di una guerra che riguarda la terra di Palestina e Gerusalemme e Al-Aqsa, è l’intera battaglia dell’Umma4 Ecco perché invito tutti i figli di questa Umma, ovunque si trovino nel mondo, ad unirsi, ognuno a modo suo, a questa guerra, senza indugi e senza voltarsi.
Con questo precetto, Haniyeh intende ovviamente rafforzare la portata dell’offensiva. Si tratta anche di indurre i leader arabi a commettere passi falsi nei confronti delle loro popolazioni, e di mostrare che il riavvicinamento con Israele è ampiamente respinto.
Il destino dei prigionieri
Il testo vuole anche essere di portata universale: chiede di essere solidali con i palestinesi e invita a una mobilitazione generale. L’appello è rivolto ovviamente ai palestinesi, a tutti i palestinesi ovunque si trovino (in Palestina, in Israele, in diaspora), che devono difendere la loro terra. La guerra in corso non riguarda solo Hamas, anche se la comanda, ma è parte delle Brigate al-Qassam, e si estende ad altre fazioni della Resistenza e a tutti i palestinesi. Qui si pone l’accento sull’unità. L’operazione s’iscrive nelle lotte dell’Intifada, completandone il ciclo. Riguarda anche, al di là dei popoli arabi e musulmani, tutti gli uomini di buona volontà che vogliono combattere l’ingiustizia.
Il destino dei prigionieri, che secondo il leader di Hamas ammonta a circa 6000, e lo stallo dei negoziati per la loro liberazione è di particolare importanza nel suo discorso. Per la popolazione palestinese, questo è un punto cruciale e quindi un elemento di legittimità per Hamas. Haniyeh indica il nome del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir come il principale artefice della tensione, per l’inasprimento delle condizioni di detenzione. È anche l’unico responsabile israeliano citato nel testo. Sul suprematista israeliano sono anche piovute critiche per il flop delle forze di sicurezza israeliane al confine con Gaza, per averle indebolite ed esposte spostando il personale in Cisgiordania, per sostenere i coloni. Ma queste accuse non porranno necessariamente finea alla sua carriera politica.
La mancanza di volontà da parte degli israeliani in merito alle richieste di liberazione giustifica la cattura di prigionieri e ostaggi israeliani per costringerli a riprendere le trattative. Anche su questo punto, più volte c’erano già stati avvertimenti.
La possibilità di un regolamento politico
Ascoltando attentamente il discorso, si può vedere che Ismail Haniyeh non chiude la porta a una possibile soluzione politica. Innanzitutto, il nemico non è stigmatizzato come non musulmano, non è identificato come ebreo, ma come israeliano. L’esistenza di Israele non è quindi messa in discussione, il che riflette l’evoluzione di Hamas rispetto alla carta fondativa del 1988 che chiedeva la scomoarsa dello Stato ebraico e l’istituzione di uno Stato islamico, sostenendo il jihad contro gli ebrei. Un nuovo statuto pubblicato nel 2017 ha già adottato una posizione più realistica.
Haniyeh non chiede la distruzione di Israele come aveva fatto ad esempio il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nel 2005. Anche se proprio Haniyeh aveva dichiarato nel 2012 a Teheran che Hamas non avrebbe mai riconosciuto Israele, qui si accontenta di chiedere l’allontanamento degli israeliani dalle terre palestinesi, la stessa sorte che loro avevano riservato ai palestinesi. Ma rimane piuttosto vago sulla sua visione della Palestina, lasciando di fatto la porta aperta alla soluzione dei due stati. Non è più il tempo in cui il movimento ambiva a ripristinare la Palestina “dal Mediterraneo al Giordano”. Quando il capo di Hamas parla dei territori occupati nel 1948, è soprattutto per denunciare la discriminazione di cui sono vittime i palestinesi all’interno dei territori: “Quante volte vi abbiamo avvertito di ciò che avete commesso e perpetrato nei territori occupati nel 1948, oltre ai vostri tentativi di separare il nostro popolo?”.
Allo stesso modo, i versetti coranici scelti non sono di chi che chiede la lotta contro “gli infedeli”, ma piuttosto di insorgere contro l’ingiustizia a testimonianza del coraggio e della dignità dei credenti. Si allude persino ai tre libri sacri: la Torah, il Vangelo e il Corano. Il tema della dignità è molto presente e ritorna molte volte. Si tratta di cancellare la vergogna, di insorgere contro la “una dell’impotenza e della disperazione”.
Alcuni obietteranno che un discorso dal tono relativamente moderato è solo un inganno e che di certo non riflette in alcun modo le posizioni di Mohamed Deif, il capo delle Brigate Ezzedine al-Qassam, con il quale Haniyeh si dichiara solidale. Deif, responsabile delle operazioni sul campo, è senza dubbio in parte responsabile delle violenze contro i civili, anche se ha chiesto, nel discorso che ha pronucniato, di risparmiare gli anziani e i bambini. Tuttavia, con l’iscrizione di Hamas nell’elenco delle organizzazioni terroristiche allo stesos modo del suo braccio armato che era già nella lista, una parte della comunità internazionale ha respinto tutti i rappresentanti dell’organizzazione nella categoria degli infrequentabili. Nel 2003, quando si è posto il problema, la Francia si è dimostrata riluttante, ritenendo che fosse necessario mantenere il dialogo con Hamas. Ma nel complicato contesto della seconda Intifada, ha finito per cedere alle pressioni dei suoi partner europei.
Riaprire le trattative?
L’analisi del discorso di Haniyeh fa emergere due punti essenziali. Il primo è la volontà di dissuadere gli stati arabi, e in particolare l’Arabia Saudita, dal continuare a negoziare il riavvicinamento con Israele. Il canale scelto non è casuale: Al-Jazeera si è specializzata nel sostenere la causa palestinese. Mentre il Qatar ha pagato diversi anni di isolamento per la sua vicinanza ai Fratelli Musulmani – obbedienza a cui si ricollega Hamas – e il suo entusiasmo per le “primavere arabe”, è stato più o meno reintegrato nel 2021 nella “famiglia golfista”.
Trasmettendo il discorso di Haniyeh dal suo ufficio di Hamas impiantato a Doha nel 2016, il piccolo emirato continua a sostenere la causa, trasmettendo la voce dei popoli arabi di fronte ai loro leader. Un impegno che forse può essere recepito con fastidio, soprattutto dai sauditi. Proprio i sauditi hanno in ogni caso ben percepito la critica: il principe ereditario Mohamed Ben Salman ha reagito ai recenti eventi dichiarando che il Regno “è sempre stato al fianco del popolo palestinese per far valere il loro legittimo diritto a una vita dignitosa, alla realizzazione delle loro speranze e aspirazioni e alla finalizzazione di una pace giusta e duratura”. Il comunicato stampa del Ministero degli Affari Esteri sauditi chiede di nuovo – anche se in maniera piuttosto fiacca – la soluzione dei due stati. Un richiamo quasi obbligato al quale avevano sacrificato almeno a parole gli Emirati Arabi Uniti al momento degli Accordi di Abramo. Non è sicuro, tuttavia, che dopo la crisi, Riyadh non riprenderà la strada di Tel Aviv.
Paradossalmente, e questo è il secondo punto, l’offensiva scatenata da Hamas forse ambisce a riaprire i negoziati. Non è una coincidenza che l’attacco sia stato lanciato il giorno dopo la celebrazione della guerra del Kippur del 1973. Haniyeh traccia anche un parallelo parlando di “attraversamento” (“oubour”) per definire lo sfondamento delle linee israeliane, secondo la terminologia dell’epoca, di fronte alla traversata delle truppe egiziane del Canale di Suez. Prendendo l’iniziativa dell’attacco, il presidente Sadat aveva poi ripristinato una forma di equilibrio con il nemico permettendogli di avviare negoziati e un processo di normalizzazione con Israele, senza essere in una posizione di inferiorità e senza perdere la faccia. Il leader islamista lo dice esplicitamente: gli israeliani hanno sottovalutato i palestinesi. I palestinesi rimangono ancora degli interlocutori di peso e si non si può essere aggirare una futura risoluzione della questione palestinese che rimane il prerequisito indispensabile perché si arrivi alla pace nell’intera regione, mettendo fine al ciclo di violenze e di morti.
Contrariamente a quanto ci si aspettava, i fatti – in particolare i massacri dei civili israeliani – ha fortemente compromesso il sostegno alla causa palestinese nel mondo occidentale. Resta da vedere se la guerra in corso infiammerà la regione con rivolte popolari o se, una volta finita l’ondata emotiva e il bilancio delle vittime, la storia riprenderà il suo corso, relegando ancora di più ai margini la questione palestinese. Se dovesse verificarsi un tale scenario, Hamas avrebbe perso la sua scommessa.
Nato nel 1963 nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh aderisce ad Hamas fin dalla creazione del Movimento della Resistenza Islamica durante la prima Intifada nel 1987. Imprigionato e poi espulso in Libano dagli israeliani, è tornato a Gaza nel 1993, anno degli accordi di Oslo, rifiutati dal movimento. Dopo il ritiro degli israeliani dalla Striscia di Gaza e la vittoria degli islamisti alle elezioni legislative del 2006, Haniyeh esercita per breve tempo la carica di primo ministro prima di essere destituito dal presidente Mahmoud Abbas. Hamas prende quindi il potere a Gaza, dissociandosi dalla Cisgiordania rimasta sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Nel maggio 2017, Haniyeh è stato eletto a capo dell’Ufficio politico di Hamas. Considerato un pragmatico, è un vero uomo politico. Il discorso pronunciato il 7 ottobre 2023 lo testimonia, non solo per ciò che dice ma anche per ciò che è possibile leggere tra le righe.
1Summer Said, Benoit Faucon, Stephen Kalin, “Iran Helped Plot Attack on Israel Over Several Weeks”, Wall Street Journal, 8 ottobre 2023.
2Sedici anni per l’esattezza, da quando Hamas ha preso il potere nel 2007 [Ndr].
32008, 2012, 2013, 2014, 2021 [Ndr].
4Nel Corano, la comunità dei credenti. [NdT].