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La Turchia tra islamizzazione e laicità

Il presidente Erdoğan viene spesso presentato come colui che ha cancellato lo stato laico in Turchia. Se, da un lato, è vero che sta spingendo la società turca verso “l’islamizzazione”, dall’altro, questo non è che l’ultimo atto di un processo iniziato nel 1923. Ma di quale islamizzazione stiamo parlando esattamente?

Ankara, 29 gennaio 2019. Recep Tayyip Erdoğan parla al quartier generale dell’AKP, davanti alla propria gigantografia e a quella di Mustafa Kemal.
Adem Altan/AFP

Il 24 luglio 2020, milioni di musulmani convergono verso Santa Sofia, nel cuore di Istanbul. L’edificio che Kemal Atatürk ha trasformato in un museo per celebrare la laicità del suo paese è stato appena riconvertito in moschea da colui che chiamano il raïs, Recep Tayyip Erdoğan. È lì che si svolge la prima preghiera sotto gli auspici del presidente, che sancisce così il ritorno in primo piano dell’Islam nella politica e nella società turca. Tuttavia, anche se Erdoğan ha spinto fino al culmine il processo di “islamizzazione”, ossia il ritorno della religione nella sfera pubblica, non lo si può considerare l’unico artefice. L’islamizzazione della Turchia rientra in una corrente che risale a molto tempo prima, portata avanti da varie organizzazioni della società civile e consacrata da alcuni esponenti politici.

Una religione di Stato in un paese laico?

Con l’istituzione della Repubblica turca nel 1923, Mustafa Kemal intende ricostruire il paese su nuove fondamenta dopo la caduta del multietnico Impero ottomano. L’ambizione è quella di modernizzare la Turchia, avvicinandola alla civiltà occidentale, giudicata superiore. Kemal accusa l’Islam di essere responsabile del ritardo del paese e della sua crisi profonda. Si impegna di conseguenza ad escludere il più possibile l’Islam dall’ambito pubblico in nome della laicità: abolizione del califfato, riduzione dell’autonomia delle istituzioni religiose, divieto delle confraternite, ecc. Sono riforme attuate a tamburo battente da un’élite urbana e occidentalizzata, lontana dalle religiosissime campagne anatoliche e curde. Kemal Atatürk (“il padre dei Turchi”) governa come un autocrate, mentre il regime fonda la comunità politica su un nazionalismo turco fortemente esclusivo. La “turchità”, fondata sulla lingua turca, diventa la prima condizione d’appartenenza alla nazione. I discorsi ufficiali ne celebrano la grandezza, mentre le culture minoritarie (curda, greca e armena) vengono screditate. Il nazionalismo e la laicità, visti come strumenti della modernizzazione, diventano i pilastri del regime kemalista.

Non si tratta però di una laicità rigida, vale a dire di una separazione netta tra sfera statale e religiosa. Già dopo la creazione della Repubblica, l’Islam aveva giocato un ruolo di primo piano nella formazione dell’identità nazionale. Atatürk è cosciente dell’importanza di coniugare Islam e “turchità”: “Perché, grazie a Dio, siamo tutti turchi, dunque tutti musulmani, noi potremo e dovremo essere tutti laici” . Non sarà diverso il discorso di Turgut Özal, primo ministro dal 1983 al 1993: “È lo Stato che è laico, non la nazione”. È per questo che possiamo considerare il sunnismo come la “religione di Stato non ufficiale” , ma relegata alla sfera privata. Il potere però presta ascolto solo all’Islam sunnita per la sua rappresentazione nella Diyanet, la Presidenza degli Affari Religiosi, da cui sono esclusi cristiani ed aleviti.

Inoltre, anche se è vero che le Costituzioni turche del 1923, del 1961 e del 1982 affermano la separazione totale della politica e della religione, quest’ultima rimane soggetta al controllo diretto dello Stato attraverso la Diyanet. I dirigenti religiosi che ci lavorano sono funzionari stipendiati dallo Stato. A partire dal 1961, anche il Gran Muftì presidente della Diyanet è nominato dal presidente della Repubblica. È uno dei motivi per cui l’istituzione religiosa non è affatto indipendente dallo Stato e le sue competenze restano relegate alla gestione dei luoghi di culto e del personale religioso. Un controllo della religione giustificato dai kemalisti col fatto che gli “islamisti” potrebbero minacciare lo Stato. In ogni caso, il potere si piega ben presto alle resistenze che provengono dalla società civile.

Resistenze della società civile

Per quanto siano drastiche le riforme di Atatürk, la popolazione è libera di continuare a praticare il proprio credo, anche se solo in maniera clandestina. Nelle campagne, il potere kemalista chiude un occhio sugli insegnamenti religiosi per non urtare la sensibilità delle popolazioni locali. Nel 1925, la situazione degenera con la rivolta dello sceicco Saïd, un predicatore curdo che reclama la restaurazione del califfato e del sultanato, oltre al ritorno della sharia. Il suo movimento fa molti proseliti e arriva fin nelle campagne e nelle piccole città della Turchia, rimaste ostili al kemalismo, ma l’esercito lo reprime con violenza. Nel 1930, la storia si ripete. Dietro queste due rivolte si cela in realtà la confraternita Naqshbandiyya, un’organizzazione tradizionalista sufi – una corrente mistica dell’Islam – che oggi raduna più di 50 milioni di musulmani nel mondo. All’epoca di Atatürk, la confraternita diventa il punto di riferimento per i tanti turchi che lottano contro l’occidentalizzazione e la secolarizzazione, impartendo ad esempio lezioni di religione nelle campagne e nei villaggi. La Naqshbandiyya, con lo sviluppo della sua diffusa rete culturale, diventerà un sostegno importante per i cosiddetti politici “islamisti”. Alcuni esponenti fanno parte anche della confraternita, formati dallo sceicco Kotku (1897-1980).

Le scuole İmam Hatip fanno parte di un’organizzazione religiosa molto influente. Istituite in origine per formare il personale religioso sotto il controllo dello Stato, queste scuole statali forniscono oggi un insegnamento diversificato ed intriso di valori islamici, che permettono l’accesso agli stessi percorsi di studio dei licei statali. Molti esponenti del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) provengono dalle scuole İmam Hatip.

Il movimento fondato da Fethullah Gül prospera a partire dagli anni ’80 con una rete di uomini d’affari, mezzi di comunicazione e scuole religiose, i cui valori sono vicini alla confraternita Naqshbandiyya. Grazie al sostegno del movimento, Erdoğan, una volta al potere, sistema i suoi membri nei posti chiave dell’amministrazione, ma temendo l’influenza crescente del movimento, decide di epurarli dopo il mancato colpo di Stato del 2016. Sono gruppi che provengono dalla società civile, ma che hanno una forte influenza sul potere politico.

I partiti religiosi al potere

Il successore di Atatürk, İsmet İnönü, inaugura nel 1946 una fase di pluralismo politico per la Turchia. In quel momento, sono molti i partiti che reclamano un ritorno della religione nella sfera pubblica. Sono tre gli uomini che segnano questo processo: Adnan Menderes, Necmettin Erbakan et Turgut Özal.

Adnan Menderes diventa Primo ministro nel 1950 alla testa del Partito Democratico (DP), che riunisce una coalizione eterogenea di elettori, la cui preoccupazione principale è quella di prendere le distanze dall’ordine sociale kemalista. Dentro ci sono piccoli commercianti, contadini dell’Anatolia e, più in generale, i gruppi islamici sopra menzionati. Il Partito Democratico si concentra su due obiettivi: l’abbandono dell’economia pianificata statalista e il ritorno dell’Islam nella sfera pubblica. La chiamata alla preghiera del muezzin può di nuovo echeggiare – e per di più in arabo -, a scuola vengono proposti corsi di religione e numerose moschee vengono edificate. Tuttavia, mentre una crisi economica e politica attraversa il paese, nel 1960 l’esercito destituisce e condanna a morte Menderes. L’esercito prende il potere e rafforza le sue competenze costituzionali, senza tuttavia ritornare sulla politica religiosa molto popolare dell’ex Primo ministro.

Gli anni ’70 vedono l’ascesa di un uomo che vuole passare da un “Islam culturale” ad un “Islam politico”, Necmettin Erbakan. Favorevole all’istaurazione della sharia in Turchia, anti-occidentale e nostalgico dell’Impero ottomano, Erbakan critica le grandi imprese che avrebbero dimenticato l’etica islamica avvicinandosi al capitalismo occidentale. Il suo successo si deve soprattutto ai suoi programmi sociali destinati agli abitanti delle baraccopoli (gecekondu), vittime della modernizzazione agricola di Menderes. Contrariamente a quest’ultimo, Erbakan aspira all’abolizione della separazione tra politica e religione, oltre ad un riorientamento della Turchia verso i paesi islamici. È lui a promuovere delle manifestazioni di massa per trasformare Santa Sofia in moschea. Il golpe militare del 1980 mette fine però alla sua ascesa.

Turgut Özal, vincitore delle elezioni politiche del 1983, è l’anello di congiunzione tra la politica economica liberale e la volontà d’islamizzare la sfera pubblica, come Menderes aveva cercato di fare prima di lui. Durante il suo mandato, lo sviluppo del commercio e l’afflusso di capitali stranieri favoriscono la comparsa di una nuova classe media in Anatolia, favorevole al ritorno della religione nella società. L’insegnamento religioso – musulmano sunnita – a scuola diventa obbligatorio per tutti. Özal fa sfoggio in pubblico dei suoi valori musulmani. Ma diversamente da Erbakan, non rompe con le radici occidentali della Turchia, né con la sua Costituzione laica. Spinge inoltre il suo paese verso l’adesione alla Comunità Economica Europea (CEE) e cerca di risolvere il problema curdo. Muore nel 1989, in piena crisi economica.

Erbakan sale al potere nel 1996, ma l’esercito spinge per le sue dimissioni nell’estate del 1997. Dopo questo fallimento, il Partito del Benessere (RP) viene sciolto, prima di rinascere una prima volta con un altro nome (Fazilet Partisi, “Il Partito della Virtù”) poi una seconda volta diviso in due partiti (AKP e Saadet Partisi, “Il Partito della Felicità”) che incarnano due tendenze: l’ala religiosa intorno ad Erbakan e un’ala riformista, più pragmatica e maggiormente orientata sulle questioni economiche che riguardano il sindaco di Istanbul Recep Tayyip Erdoğan, che sarà eletto Primo ministro nel 2003, quando è a capo dell’AKP e una crisi economica si abbatte sul paese.

È così che si spiegano i due fattori del successo dei cosiddetti partiti “islamici”: un’economia solida e la cultura islamica. È così che una nuova classe media anatolica di piccoli commercianti e di contadini, che si è opposta alle riforme delle élite urbane occidentalizzate kemaliste, va a formare l’elettorato di questi partiti. Identità nazionale turca ed Islam sono legati in quello che si chiama “islamo-nazionalismo”. Attraverso l’integrazione dei gruppi religiosi nel sistema elettorale, la democrazia e la legittimità dello Stato vengono consolidati. L’islamizzazione si fa senza rimettere in causa né la separazione della religione e dello Stato, né le radici europee della Turchia: ed è il motivo per cui, avendo sostenuto un Islam politico, Erbakan non è mai stato acclamato.

L’esercito, “guardiano della Costituzione?”

L’esercito, che si considera come il “guardiano della Costituzione” kemalista, non ha esitazione ad intervenire quando si tratta di contrastare potenziali minacce agli ideali laici: 1960, 1971, 1980. Ogni volta, l’esercito frena le velleità d’islamizzazione del potere politico di turno. Con Erdoğan però la situazione cambia. Dopo aver indebolito l’esercito per soddisfare i criteri di adesione all’Unione Europea (UE), Erdoğan effettua delle massicce purghe dopo il mancato colpo di Stato del 2016. Tra i suoi obiettivi, c’è quello di colpire la schiera del suo avversario Fethullah Gülen. L’esercito oggi è più in linea con il potere politico ed è stato islamizzato: anche qui si è affermata la pratica religiosa sunnita. Adesso gli studenti delle scuole İmam Hatip sono autorizzati a presentarsi ai concorsi dell’esercito, anche se quest’ultimo resta diviso tra i sostenitori del kemalismo e i nuovi arruolati, più in linea con l’ideologia dell’AKP.

Dopo aver mandato molti segnali d’apertura all’Unione Europea, alla minoranza curda e alla società civile, l’AKP è ricaduto in un islamo-nazionalismo autoritario, da una parte glorificando la passata grandezza dell’Impero ottomano, dall’altra lanciando nuovi attacchi alla democrazia. Erdoğan è riuscito laddove altri hanno fallito: ha mantenuto la sua influenza, avviando un’islamizzazione di lunga durata della società attraverso un populismo esacerbato che ha compromesso la democratizzazione del paese. È così che cerca di estendere la propria influenza sulla sua diaspora europea attraverso il Diyanet.

Dopo questa panoramica, è evidente che la comparsa dell’Islam non è avvenuta alla morte di Atatürk, ma ha contraddistinto da sempre la società e la sfera pubblica, in modo diverso a seconda delle epoche, con un’islamizzazione che si è andata rafforzando negli anni 2000. Come possiamo del resto affermare che è sempre stato il potere politico a strumentalizzare la religione, e non il contrario.