Elezioni presidenziali

Libano. Ultimi colpi di coda prima di uscire dalla crisi?

Il parlamento del Libano si è riunito il 14 giugno per la dodicesima volta per eleggere il capo dello Stato. Due i candidati in lizza: Suleiman Frangieh, sostenuto dal tandem sciita, e Jihad Azour, favorevole alle riforme economiche, ma vista la situazione di stallo si prevede una mediazione per raggiungere finalmente un accordo.

Beirut, 28 settembre 2022. L’urna per la prima tornata delle elezioni presidenziali in Parlamento
AFP

Con tutta la dovuta cautela in un paese imprevedibile e fuori controllo, sembra finalmente vicina una soluzione alla lunga e sfaccettata crisi del Libano, che dura da ormai cinque anni, con l’auspicata nomina di un nuovo presidente, ruolo vacante da nove mesi. Allo stato attuale, il paese è guidato da un governo, con un premier dimissionario, che prende decisioni solo su questioni di ordinaria amministrazione, mentre l’economia sta attraversando la peggiore recessione dall’indipendenza con un tasso di inflazione che sfiora il 300%.

Giovedì 8 giugno 2023, il portavoce del FMI ha dichiarato, con un grido di allarme, che il Libano deve avviare con urgenza delle riforme economiche di ampia portata per evitare “conseguenze irreversibili” proprio mentre Jihad Azour, direttore del Dipartimento del Medio Oriente e l’Asia centrale del FMI, è candidato alla massima carica.

Certo, nessuno può sentirsi sicuro rispetto all’attuale situazione di stallo se non viene raggiunta la maggioranza in Parlamento, dove si terrà il voto presidenziale. Le elezioni di maggio 2022 non hanno espresso alcuna maggioranza alla Camera, che oggi si ritrova frammentata e divisa. Per vincere al primo turno, un candidato deve avere una maggioranza qualificata di due terzi, cioè 86 voti su 128. In caso contrario, si andrà al ballottaggio. Viene eletto il candidato che ottiene i voti della maggioranza assoluta, cioè 65 voti. Se necessario, si terranno ulteriori sessioni elettive fino a quando uno dei candidati non avrà la maggioranza.

Per ora la partita si gioca tra un leader cristiano, capo della corrente filo-siriana, Suleiman Frangieh (58 anni), nipote di un ex presidente, sostenuto dall’asse sciita Amal-Hezbollah, e Jihad Azour (57 anni), aperto sostenitore delle riforme economiche. Forte delle sue competenze finanziarie, Azour potrebbe essere il candidato ideale per far uscire il Libano dalla peggiore crisi della sua storia, mentre i negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI) sulle riforme sono in una fase di stallo, per volontà politica dei suoi leader a capo di un sistema corrotto e ormai logoro.

Una possibile soluzione alla crisi politica che sembra cadere in qualche modo dal cielo in un paese che crede ancora nei miracoli. Alla fine di maggio, il patriarca maronita mons. Béchara Boutros Raï, capo della comunità maronita, si è recato in Vaticano e a Parigi dove è stato ricevuto, dietro sua richiesta, dal presidente Emmanuel Macron nel tentativo di designare un “presidente di consenso”. In Libano la presidenza della Repubblica è assegnata a un cristiano maronita, quella del Consiglio dei ministri a un musulmano sunnita mentre a capo del Parlamento c’è un musulmano sciita. Ma, a parte questo, il paese è governato da una potente oligarchia, oggetto di forti critiche per corruzione, che controlla qualsiasi attività, tenuto conto dello stretto legame con il potere politico ed economico.

La strana scelta di Emmanuel Macron

Che ci fa Emmanuel Macron in questo circo politico? Sono secoli che la Francia è un’alleata dei cristiani (in particolare dei maroniti) del Libano. “Nostra madre Francia”, come dicono ancora oggi, pur riconoscendo il ruolo onnipresente che sta svolgendo l’Iran attraverso il fronte sciita Hezbollah nella gestione, ai loro occhi intollerabile e pericolosa, del paese.

In realtà, il presidente francese si è recato due volte in Libano nei momenti peggiori della crisi, incontrando tutti i protagonisti nel tentativo di trovare una soluzione, ma senza riportare alcun successo. Quanto al patriarcato maronita, il suo ruolo politico risale all’epoca della divisione del Medio Oriente per il ruolo fondamentale giocato nella creazione di un Libano indipendente. Da allora, sono entrati in questo complesso gioco politico la Siria, Israele, l’Iran e altri. È così che, negli anni, il paese dei Cedri è diventato sempre meno indipendente.

Il prelato maronita ha quindi presentato al presidente francese una controproposta, quasi unanime, che però non sembra almeno per ora soddisfare l’Eliseo che, a maggio, aveva proposto in via ufficiosa, nella sorpresa generale, la candidatura del leader cristiano Suleiman Frangieh, insieme a Nawaf Salam (73) nel ruolo di possibile primo ministro. Salam è una figura di spicco del mondo sunnita, molto rispettato per la sua integrità morale. Forte sostenitore delle riforme assolutamente necessarie per far uscire il paese dalla crisi con l’aiuto del FMI, il giurista ha ricoperto, negli ultimi anni, anche il ruolo di giudice presso la Corte internazionale di giustizia (CIG), mentre in passato è stato Ambasciatore straordinario e plenipotenziario, oltre a ricoprire la carica di Rappresentante Permanente del Libano presso le Nazioni Unite dal 2007 al 2017.

Frangieh, invece, appartiene a una delle grandi famiglie politiche del nord del Libano ed è stato ministro in diverse legislature. È il nipote di un ex presidente ed è considerato uno stretto alleato della Siria (e di Hezbollah), cosa che gli è valsa l’ostilità di altri movimenti riformisti, in particolare dei partiti cristiani come le Forze Libanesi.

In questo contesto, la domanda è: perché proporre una coppia così eterogenea in un gioco di equilibrismo i cui rischi sono temuti un po’ da tutti? Tanto più da quando Parigi è entrata in contrasto con il governo siriano, e che si dà il caso sia tra chi si dichiara contrario alla revoca delle sanzioni internazionali contro il governo di Damasco. Sostenere un alleato di Damasco? Nonostante gli analisti si stiano scervellando, la risposta è tutt’altro che semplice. “Un mistero e un amaro retroscena: per quale motivo l’Eliseo si ostina a sostenere Frangieh?” chiede l’analista politico Joseph Bahout dell’Università americana di Beirut (AUB)1. Realpolitik? Ragioni economiche? Contesto geostrategico a seguito dell’accordo tra Riyad e Teheran per limitare le tensioni in Medio Oriente?

Secondo Samir Geagea, leader delle Forze libanesi (milizie ex cristiane), la posizione di Parigi sulle elezioni presidenziali in Libano si deve a “considerazioni economiche legate all’estrazione del gas, ai servizi pubblici e ai porti di Beirut e Tripoli”. È la ragione per cui “la Francia sostiene il candidato di Hezbollah”, aggiungendo che, a suo avviso, le elezioni presidenziali non si decideranno a breve termine.

Ancora nessuna fumata bianca

“La linea politica francese sulla crisi in Libano, e soprattutto sulla questione presidenziale, è molto diversa dalla posizione della Chiesa maronita. C’è una corrente ai vertici della politica francese che ha una visione del Libano e del suo futuro che non ci convince”, è quanto sostenevano ad aprile fonti vicine al patriarca. E non sembra che ci sia stata un’improvvisa fumata bianca dopo la visita di Béchara Raï all’Eliseo.

La candidatura di Frangieh, sostenuta dal tandem Amal-Hezbollah, resta una “scelta realistica in assenza di alternative”, secondo quanto riferito da una fonte diplomatica francese al sito di notizie Ici-Beyrouth. “Parigi non ha un candidato di riferimento e, pertanto, non può porre alcun veto su” chi aspira alla massima carica. “La Francia è pronta a collaborare con qualsiasi presidente” che abbia come obiettivo quello di attuare le riforme necessarie, da quanto riferisce la stessa fonte. In questo senso, Parigi si unisce ad altre capitali arabe (Riyad, Doha) che hanno un peso effettivo, ma si astengono dal sostenere apertamente un candidato in particolare.

Il braccio di ferro tra Frangieh e Azour è appena iniziato, perché Azour non ha ancora annunciato ufficialmente la sua candidatura, che dovrebbe avvenire a breve o in attesa che si chiariscano le posizioni politiche, come ad esempio quella del druso Jumblatt, leader del partito socialista, che può contare su 8 seggi. Ma resta ancora l’incognita delle scissioni, oltre al mancato numero legale in parlamento. Anche per questo, la situazione rimane poco chiara. Secondo Bahout, “Frangieh non è riuscito ad andare oltre il suo zoccolo duro […]. La cosiddetta opposizione è riuscita in parte a raccogliere la sfida schierando un candidato (Azour) capace di fare da contrappeso” senza però avere la certezza della vittoria. Alla fine, il duo sciita potrebbe aggrapparsi a Frangieh, che si presenta come colui che può ufficialmente tirare fuori il paese fuori dalla crisi, secondo l’analisi di Bahout, col rischio di scontrarsi con le parti internazionali.

Trovare un candidato unitario

Extrema ratio sarebbe infine quella di ricorrere a una mediazione, come nel caso del Qatar, che si sta impegnando a fondo per trovare un “terzo uomo”, in grado di raccogliere un vasto consenso. Il nome che è rispuntato fuori è quello del generale Joseph Aoun. Per il momento Hezbollah, alleato di Damasco e Teheran, ha ridotto le proprie ambizioni, anche se il patriarca maronita si è mostrato disponibile a intavolare una discussione al rientro dalla sua visita a Parigi.

Domenica 4 giugno 2023, il deputato di Hezbollah Hassan Fadlallah ha dichiarato che Jihad Azour, candidato ora sostenuto dall’opposizione e dalla Corrente patriottica libera (Cpl, partito politico fondato dall’ex presidente Aoun) alla presidenza del Libano, rappresenta un “atto di sfida e di scontro”, ma che “non arriverà” alla presidenza, e che Hezbollah “impedirà all’opposizione di raggiungere i suoi obiettivi”. Fadlallah ha poi aggiunto una frase sibillina ad effetto: “Non ci sarà il nuovo candidato di sfida e di scontro, ma siamo aperti al dialogo”2.

1Da un’intervista di Joseph Bahout fatta durante la stesura dell’articolo.

2“Fadlallah: Azour “n’atteindra pas la présidence”, L’Orient-Le jour, 4 giugno 2023.