Iraq

Nuove alleanze sullo scacchiere iracheno

Dall’invasione americana nel 2003, la vita politica irachena è stata scandita dallo scontro confessionale tra sunniti e sciiti, esacerbato dalla presenza statunitense e dalla vicinanza iraniana. Tuttavia, le alleanze emerse all’indomani delle ultime elezioni legislative delineano nuovi equilibri politici, soprattutto con l’entrata in scena di attori regionali come Qatar, Turchia ed Emirati Arabi Uniti.

Manifesto di Muqtaba al-Sadr a Sadr City (Bagdad), 17 ottobre 2021.
Ahmad Al-Rubaye/AFP.

Il 30 marzo, il leader del movimento sciita sadrista Muqtada al-Sadr, ha scritto su Twitter che preferisce “lo stallo politico” piuttosto che “un governo d’intesa in cui spartirsi la torta”, riferendosi in particolare alle forze del “Quadro di coordinamento”, un gruppo politico formato dai rappresentanti dei partiti sciiti che hanno contestato i risultati delle elezioni prima che fossero ratificate dalla Corte Suprema Federale alla fine dello scorso anno.

La reazione di Sadr arriva dopo che la sua coalizione “Salvare la patria” ‒ che riunisce il movimento sadrista da lui guidato, il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) guidato da Masud al-Barzani e l’alleanza “Sovranità” guidata dal presidente del Parlamento Mohammed al-Halbusi ‒ ha fallito per la seconda volta nell’organizzare una sessione di voto in Parlamento per l’elezione del presidente della Repubblica.

Oggi – a sei mesi dalle elezioni legislative del 10 ottobre 2021 ‒ Sadr non è ancora riuscito a formare il governo “di maggioranza nazionale” da lui auspicato, perché la sua coalizione ha bisogno di almeno 25 deputati. Composta dal movimento sadrista (73 seggi su 329), dal Partito Democratico del Kurdistan (PDK) guidato da Masud al-Barzani (37 seggi) e dall’alleanza “Sovranità” guidata da Mohammad al-Halbusi (37 seggi) – la coalizione “Salvare la patria” è la prima nel suo genere in Iraq poiché riunisce sunniti, sciiti e curdi. Tuttavia, gli oppositori sciiti di Sadr la considerano uno strumento per escluderli e formare un governo in cui Sadr sia l’unico rappresentante della comunità sciita.

Sadr avverte un sentimento di sconfitta nonostante la forza politica, popolare e armata di cui gode. Questo soprattutto se si considera che i suoi oppositori sciiti sono riusciti, durante le sessioni parlamentari del 26 e 30 marzo, a impedire il raggiungimento del quorum (che è di 220 deputati) per ostacolare l’elezione di Rebar Ahmed Khalid, candidato del PDK, alla carica di presidente della Repubblica.1 Il problema è che la formazione del governo risulta paralizzata senza l’elezione del presidente. È quest’ultimo, infatti, a dover nominare, entro quindici giorni dalla sua elezione, il nuovo premier, scegliendolo nel gruppo parlamentare più numeroso, che a sua volta formerà il governo. Finora, però, è stato soltanto possibile rinnovare il mandato di Halbusi come presidente del Parlamento.

Da alcuni mesi l’Iraq si trova in una fase di stallo politico a causa dei disaccordi tra le fazioni curde per aggiudicarsi la carica di presidente della Repubblica, a cui aspira sia il PDK di Masud Barzani che l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) di Bafel Talabani, figlio dell’ex presidente Jalal Talabani. Il partito di Barzani vuole a tutti i costi imporre il proprio candidato ed estromettere così il partito della famiglia Talabani, che detiene la carica dal 2005.

La controversia non è nuova e rientra nella logica dei conflitti regionali. Il PDK, infatti, è accusato di essere vicino agli Stati Uniti e ai suoi alleati regionali, compreso Israele, mentre l’UPK è accusato di vicinanza con l’Iran e i suoi alleati a Baghdad. Pertanto, la contesa sulla carica di presidente supera i confini nazionali, poiché l’Iran, restio a lasciarla nelle mani del partito di Barzani, continua, insieme ai suoi alleati a Baghdad, ad appoggiare la rielezione del presidente attualmente in carica, Barham Salih, affiliato all’UPK.

Un membro dell’UPK ha riferito a Orient XXI: “La carica di presidente della Repubblica non può essere assegnata al partito di Barzani che già detiene quella di presidente e di primo ministro della Regione del Kurdistan (rispettivamente nelle mani di Masud Barzani e di suo figlio Masrur)”. Dal canto suo, Barzani la considera una lotta non tra due partiti bensì tra due famiglie. In effetti, tutti i candidati da lui presentati per la carica di presidente sono membri della sua famiglia e, da quando la Corte Suprema Federale ha bocciato la candidatura dello zio materno ‒ Hoshyar Zebari, ex ministro delle Finanze ‒ egli appoggia un altro familiare, Rebar Ahmed Khalid.

Ankara, elemento unificatore dei partiti sunniti

Lo scenario politico iracheno è cambiato dopo le manifestazioni iniziate a ottobre 2019, quando decine di migliaia di iracheni sono scesi in piazza per denunciare la corruzione, le milizie armate e il malgoverno. Un’ondata di proteste durata quasi un anno, che alcuni considerano un momento di svolta per il sistema politico formato e sostenuto dagli Stati Uniti da aprile 2003. Appoggiate dalla più alta autorità sciita d’Iraq, l’ayatollah Ali al-Sistani, queste manifestazioni senza precedenti nella storia moderna del paese hanno portato alle dimissioni del primo ministro Adil Abd al-Mahdi, appoggiato dall’Iran, e alla nomina di Mustafa al-Kadhimi, considerato laico.

C’è chi parla di un prima e un dopo le proteste di ottobre 2019. Difatti, dal 2004 al 2018, i governi sono stati formati su base consensuale distribuendone i portafogli tra i tre gruppi principali – sciiti, sunniti e curdi – ognuno dei quali costituiva una propria coalizione. Oggi invece, sebbene persista la convenzione di distribuire ciascuna delle tre presidenze a questi tre grandi gruppi, i meccanismi di assegnazione delle cariche sono cambiati così come la logica delle alleanze.

Negli ultimi due anni, infatti, sono emerse nuove influenze nella politica irachena. Oltre a quelle di Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, si osserva l’influsso sempre più importante dell’alleanza turco-qatariota e la vigorosa entrata in scena degli Emirati Arabi, che subentrano ai sauditi. In cambio, si assiste a una ritirata dell’Iran dopo la sconfitta dei suoi alleati nelle ultime elezioni.

Sempre negli ultimi due anni, Ankara ha mostrato particolare interesse per l’Iraq attraverso il capo dell’intelligence turca, Hakan Fidan. In tal modo la Turchia è riuscita a federare diversi partiti sunniti, per anni divisi e in contrasto tra loro, all’interno di un’unica coalizione, l’alleanza “Sovranità”. Ankara è inoltre riuscita a preparare il terreno per gli elettori sunniti in vista delle elezioni. Ciò grazie all’intervento del presidente turco che a ottobre 2021, una settimana prima delle elezioni, ha ricevuto separatamente i due principali leader sunniti, Mohammad al-Halbusi e Khamis al-Khanjar. Così, Erdogan ha riconciliato due personalità irachene che erano state a lungo in relazioni tese, ed ha unificato per la prima volta tutti i partiti sunniti. Secondo fonti dirette di Orient XXI, in quell’occasione Erdogan avrebbe suggerito che Halbusi conservasse la carica di presidente del Parlamento e che Khanjar fosse nominato vicepresidente della Repubblica. Ed effettivamente, Halbusi è tuttora in carica.

L’Iran perde colpi

Il ravvicinamento tra Turchia ed Emirati Arabi Uniti ha giocato un ruolo altrettanto importante nel ridefinire lo scenario politico iracheno. Se prima, infatti, i sunniti erano divisi tra l’asse Qatar-Turchia e l’asse EAU-Arabia Saudita, oggi si trovano unificati, sebbene alcuni leader del partito islamista iracheno – ovvero l’ala irachena dei Fratelli Musulmani - rimangano vicini all’Iran, per non dire suoi alleati.

Pur essendo riuscito nell’ultimo decennio a dividere le fila politiche sunnite e a conquistarne alcune personalità, l’Iran deve oggi far fronte alla loro riunificazione attuata dalla Turchia, un duro colpo che va a sommarsi alla sconfitta subita dai suoi alleati durante le elezioni, per non parlare delle divisioni sorte all’interno della compagine politica sciita.

Teheran, principale sostenitore dei partiti sciiti e dei loro gruppi armati, non è più in grado di mantenere nella sua sfera di influenza tutte le componenti sciite. Perciò, dopo la vittoria di Sadr e la sua alleanza con Barzani e Halbusi, la Repubblica Islamica si è sentita in grave pericolo e ha intimato ai leader curdi e sunniti di non unirsi al movimento sadrista.

Oggi l’Iran rischia di assistere alla scissione dei partiti sciiti, tanto più che alcuni di questi si sono avvicinati agli Stati Uniti o ai paesi del Golfo, senza considerare le divergenze che li oppongono riguardo alla formazione del governo. Per tutta risposta, Teheran e i suoi alleati iracheni accusano la coalizione tripartita “Salvare la patria” di essere sostenuta da Stati Uniti, Emirati e Israele.

Questi cambiamenti hanno riacceso il conflitto tra l’ex primo ministro Nuri al-Maliki e il suo acerrimo nemico, Muqtada al-Sadr, poiché il primo è tornato in campo dopo aver ottenuto 34 seggi in Parlamento, rispetto ai 25 delle elezioni del 2018. Questa vittoria ha ristabilito l’equilibrio nelle fila politiche sciite, di cui Sadr vorrebbe essere l’unico leader o per lo meno il principale. Cosa che però non accettano né le milizie sciite né gli altri partiti, rappresentati da personalità come Maliki e Ammar al-Hakim, leader del movimento nazionalista “La Saggezza”.

1[Per convenzione, dal 2003 in Iraq il presidente della Repubblica deve essere curdo, il primo ministro sciita e il presidente del Parlamento sunnita