Crisi ucraina

Olivier Roy. Per il mondo arabo “un conflitto tra potenze”

Se la guerra in Ucraina segna una svolta nella politica internazionale, non viene però percepita allo stesso modo nel mondo occidentale e in quello arabo. Intervista con il politologo Olivier Roy.

Un carro armato ucraino percorre una via principale in direzione diIrpin, alla periferia di Kiev, 8 marzo 2022.
Aris Messinis/AFP

Khadija Mohsen-Finan. Dalla seconda guerra mondiale, nessuna guerra ha avuto ripercussioni così rilevanti. Come spiega l’entità di questa mobilitazione in Europa e nel mondo?

Olivier Roy. È una mobilitazione che si spiega per l’atteggiamento radicale di Vladimir Putin. Essenzialmente perché non offre alcun margine di trattativa: solo la resa incondizionata, senza aver mai fissato limiti alla sua azione. Poteva dichiarare che il suo intento era quello di annettere il Donbass e il Donetsk, le due repubbliche autoproclamate; chiedere il riconoscimento da parte dell’Occidente dell’annessione della Crimea o la rinuncia all’entrata dell’Ucraina nella NATO. Ma adesso avanza senza dire dove va, visto che ha un nemico e un obiettivo senza una direttiva precisa, ed è proprio questo ciò che spaventa gli europei.

Molti osservatori ed esperti di relazioni internazionali sostengono che gli sia stato lasciato campo libero in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014, e ora non ha alcun motivo per fermarsi. È una tesi molto diffusa e non errata, tanto più che c’è giocoforza un suo atteggiamento radicale. Per alcuni Putin è un pazzo, un megalomane; un fattore da non trascurare. Ha creato un sistema in cui è il solo a prendere decisioni. È circondato da esecutori senza alcun controllo esterno al suo operato, per lui ciò che conta è solo l’equilibrio del potere, un rapporto di forze da risolvere a suo favore. All’improvviso ha annunciato il possibile utilizzo di testate nucleari. Quindi non c’è niente da negoziare.

Alla luce della sua azione e del suo comportamento, chi può proteggere l’Europa se non la NATO? E a ragione visto che il presidente Joe Biden ha preso una decisione molto difficile. Non sappiamo cosa avrebbe fatto il suo predecessore Donald Trump, ma con la decisione di Biden c’è il ritorno all’epoca sovietica nel corso della quale la deterrenza in teoria doveva prevenire la guerra, il che significava che sarebbe stata necessariamente una guerra a carattere limitato o locale. Putin però non dice questo, ma dice: “Raggiungeremo i nostri obiettivi”, senza specificare quali siano questi obiettivi. Come quando dichiara: “Il nostro obiettivo è de-nazificare Kiev”. L’opinione pubblica europea non è così ingenua, lo sanno tutti che a Kiev non ci sono nazisti e che il governo del presidente Volodymyr Zelensky non è nazista, visto che è ebreo come il suo Primo ministro.

Putin viene visto come un pazzo. E lo è. Il mondo intero è spaventato dalla sua follia. I polacchi e i moldavi si sentono minacciati, gli ungheresi sono un po’ più lontani. Svedesi e finlandesi si stanno rendendo conto che stare fuori dalla NATO non li protegge, anzi. È da parecchi anni che c’è la pressione russa sugli svedesi. Putin è riuscito però a rimettere insieme l’Europa, e in particolare l’Europa militare. La grande svolta riguarda i tedeschi che l’hanno fatta decidendo per il riarmo.

La cosa può sembrare paradossale, perché da un lato c’erano i paesi accomunati dai valori dell’Europa occidentale (l’Europa di Bruxelles), e dall’altro i regimi illiberali come la Polonia e l’Ungheria. Il paradosso è che la Polonia, sul piano dell’illiberalismo, è molto più vicina a Putin (con idee conservatrici quali la criminalizzazione dell’omosessualità, ecc.), ma in termini strategici, i polacchi sia di destra che di sinistra sanno che la Russia è il loro nemico per eccellenza. Quindi Putin sta in un certo senso costringendo i polacchi a trovare un accordo con Bruxelles.

A Mosca, non c’è più alcuna direzione collettiva

K. M. F. Come si definisce il nemico allora ?

O. R. Per Putin il nemico è chi si oppone alla ricostituzione dell’impero russo. E coloro che si oppongono sono quelli che l’hanno distrutto. Il grande trauma di Putin è il crollo del muro di Berlino. Così mette in atto la sua rivincita contro quell’epoca, non parlando di quale fosse lo spazio del Patto di Varsavia, ma dal momento in cui ricompone uno spazio russo non c’è alcun motivo per cui non debba ricreare anche degli Stati cuscinetto per allontanare il più possibile gli occidentali. Sia attraverso la neutralizzazione o la “finlandizzazione” degli Stati vicini. Uno schema che può essere visto come un passo indietro, ma le differenze con il passato sono rilevanti. Oggi Putin è solo, è lo zar, mentre il sistema sovietico era collettivo: in passato c’era un politburo, Nikita Chruščëv è stato messo da parte per l’insuccesso nella gestione della crisi di Cuba, Mikhail Gorbačëv è stato nominato nella speranza di riuscire a salvare la situazione. Il vantaggio di avere un partito politico, anche dittatoriale, ideologico, era quello di avere un organo collegiale. Oggi il Consiglio di sicurezza è composto da Putin e una decina di persone che non hanno alcun peso, mentre nel partito comunista c’erano fazioni regionali, alleanze, personalità forti... Dopo Iosif Stalin, non ci sono stati dittatori, l’uomo forte di un regime era guidato da un’élite. Non c’è più alcun collettivo al vertice del potere.

K. M. F. A quanto pare oggi stiamo scoprendo la brutalità di Putin, eppure lo abbiamo visto all’opera in Cecenia, Crimea, Siria... Qual è la novità? Sta portando il suo paese verso quello che alcuni definiscono un «suicidio storico»?

O. R. Le violente guerre condotte da Putin e il massacro delle popolazioni civili sono state rivolte contro i musulmani, sia in Cecenia che in Siria. Di conseguenza, poteva sembrare che fossero parte della «guerra al terrorismo» propugnata dall’amministrazione Bush.

Inoltre, Putin è stato finora coinvolto in guerre che erano già in corso. C’era stata una prima guerra in Cecenia e i combattimenti in Siria erano già iniziati. Per questo non appariva come un guerrafondaio, ma come chi stava intervenendo per uscire da un’impasse, anche attraverso tecniche di combattimento radicali, vale a dire con l’annientamento di intere città attraverso attacchi aerei e di terra. È così che ha distrutto Grozny e Aleppo. Mentre oggi in Ucraina, è lui che ha dato inizio alla guerra, con l’uccisione di russi, europei, slavi, persone che lui stesso definisce russe. Inoltre, sta avviando una guerra su larga scala anche se non c’è stato alcun evento particolare dopo la secessione del Donbass.

Un modello occidentale contestato

K. M. F. Ciò che stiamo vivendo con l’Ucraina ha cambiato la nostra visione di un mondo dominato dall’Occidente, un mondo senza guerre che prevede dei governi democratici, un modello che pensavamo sarebbe stato esportato o adottato da un numero crescente di paesi. Ora, vediamo una potenza nucleare dispiegare il suo potenziale militare per attaccare un paese europeo e conquistarne il territorio, ma anche per modificarne il regime politico. Siamo ad un punto di svolta nelle relazioni internazionali?

O. R. Non so se siamo a una svolta, dal momento che ogni decennio assistiamo a delle svolte, ma è una tappa molto importante, e in ogni caso tutto dipende dall’esito di questa guerra.

Ma esiste anche un’eccessiva semplificazione quando si parla di «modello occidentale» e di «democrazia», visto che è un modello contestato da circa vent’anni all’interno dello stesso Occidente da parte dei populisti che sono convinti che bisogna uscirne. Il governo polacco e quello ungherese affermano esplicitamente che la democrazia è il caos e che si deve uscire da questo sistema. La visione che abbiamo avuto, dalla caduta del muro di Berlino fino all’intervento in Iraq, è stata quella di un Occidente come rullo compressore che ha imposto i suoi valori al mondo intero, e se necessario con la forza: democrazia, liberalismo, state building… Ma dal 2005 non è più così. Ci sono quindi due fenomeni: da un lato, l’ascesa del populismo che mette in evidenza una contestazione all’interno dell’Europa ai famosi valori della democrazia. E dall’altro, il ritiro statunitense dal mondo, il che significa che gli americani non sono più spinti dalla voglia di esportare un eventuale modello occidentale.

Tutto è cominciato nel 2011 con la morte di Osama Bin Laden. Gli americani hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq per vendicare l’11 settembre, i neoconservatori hanno ideato un modello ideologico volto a combattere il terrorismo, instaurare la democrazia, oltre al riconoscimento dello stato d’Israele dalla sua creazione... un’ideologia che poi è crollata. Soprattutto quando Barak Obama – che non condivideva tale ideologia – è salito al potere. Con l’uccisione di Bin Laden, ha considerato compiuta la sua missione in quanto l’obiettivo della guerra nel 2001 era la distruzione di Al-Qaeda.

Per dieci anni, gli americani hanno continuato per inerzia ad occupare l’Afghanistan. Lo stesso è avvenuto con lo Stato Islamico (Daesh), anche lì gli americani hanno ritenuto compiuta la loro missione. Si sono trovati così con il fardello dell’Afghanistan, pensando: «Cosa ci facciamo qui?». La loro presenza non aveva più nulla a che vedere con la lotta al terrorismo. Hanno quindi cominciato a negoziare il loro ritiro con i talebani. Il presidente Biden ha proseguito sulla linea di Trump. Gli Stati Uniti hanno voluto ripiegare sui loro interessi, vale a dire Cina e Pacifico (cosa che era cominciata già ai tempi di Obama).

Concentrati sui loro nuovi obiettivi, gli occidentali non si sono resi conto di cosa stava succedendo nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino. Hanno girato a vuoto, senza alcuna strategia, in Medio Oriente e in Mali. Combattere il terrorismo in Mali, va benissimo, impedire la caduta di Bamako è giusto, ma per fare cosa dopo? Non si fa né state building né contro-guerriglia. E si chiede agli Stati africani di farsene carico, mentre si assiste ai colpi di stato militari.

Non appena gli occidentali si sono resi conto che la guerra in Iraq era stata un fiasco, hanno pensato che l’instaurazione della democrazia non fosse più un loro problema. Hanno scelto il ritiro, pur continuando a parlare di diritti umani, stato di diritto, costruzione dello Stato, buon governo...

All’interno di questo contesto, Putin ha pensato che i russi nel 1991 avessero rinunciato a tutto senza aver ricevuto nulla in cambio, il che non è falso. Oggi la crisi dell’Occidente gli ha aperto una finestra d’opportunità. Ma Putin è un uomo del XIX secolo, con una visione territoriale del potere, mentre per gli americani la cosa più importante è la forza di proiezione, la capacità di intervenire da lontano. Per loro, il potere non si misura in termini di conquista di territori.

Quel che è certo è che la sensazione di essere minacciati da Putin è condivisa da tutti i governi e dall’opinione pubblica mondiale. Solo persone come Eric Zemmour (ma c’è un interesse elettorale) possono dire che la Russia di Putin non rappresenta una minaccia.

In Medio oriente, Mosca non rimette in discussione lo status quo

K. M. F. Si ha la sensazione che nel mondo arabo ci sia una certa riluttanza a far parte di una crociata contro la Russia di Putin. Alla luce delle notizie apparse sulla stampa e sui social, si evince addirittura che sono in molti a mettere sullo stesso piano la violenza di Putin con l’arroganza e il cinismo dell’Occidente. L’idea è che l’«etica della responsabilità» manchi da entrambe le parti. Cosa ne pensa?

O. R. Gli arabi considerano ciò che sta accadendo in Ucraina come un conflitto tra potenze, non come una minaccia regionale. Per loro, la presenza della Russia in Medio Oriente non è una minaccia, poiché Putin persegue una politica di prossimità. I russi non sembrano voler mettere in discussione lo status quo, e vanno in aiuto di Bashar al-Assad. Più in generale, gli arabi non vogliono ritrovarsi invischiati in un conflitto globale che sentono lontano, come gli israeliani del resto. C’è poi la volontà di non inimicarsi i russi, ma di stare alla finestra per osservare attentamente con chi agiscono e chi sostengono.

Si rendono anche conto, a ragion veduta, che negli ultimi vent’anni gli interventi americani in Medio Oriente sono stati molto più invasivi degli interventi russi. Non c’è paragone tra gli attacchi russi molto localizzati, anche se molto violenti, nel nord-ovest della Siria, o la presenza del Gruppo Wagner in Libia, con l’invasione americana in Iraq. Naturalmente, gli americani hanno ucciso molti meno civili dei russi, ma è un’argomentazione che non viene presa in considerazione all’interno dell’opinione pubblica araba. È anche vero che gli americani hanno sostenuto regimi liberali e democratici, ma anche questo non è un argomento che funziona. Non bisogna dimenticare che l’opinione pubblica nel mondo arabo resta fortemente «antimperialista». Molti arabi non hanno capito che gli Stati Uniti sono cambiati profondamente negli ultimi vent’anni. Nel mondo arabo c’è sempre stata l’idea che la lotta al terrorismo nascondesse altri interessi. Nel 2003, molti pensavano che gli americani fossero andati in Iraq per la questione del petrolio. In quel caso non era così. Non si è tenuto conto dei traumi dei diversi paesi, credendo che fossero tutti all’interno di strategie geopolitiche coerenti.

K. M. F. Sì, ma gli arabi stanno assistendo anche, tra l’altro, ad una differenza di trattamento tra i profughi di questa guerra e quelli siriani. Inoltre, si stanno rendendo conto che intere regioni sono amministrate da Stati al di fuori delle regole del Diritto internazionale. Quale credibilità possono avere ai loro occhi gli Stati Uniti o le Nazioni Unite?

O. R. Certo, c’è una differenza di trattamento tra profughi, e possiamo vederlo chiaramente ai confini dell’Ucraina, dove arabi e neri vengono respinti, mentre gli ucraini sono accolti a braccia aperte, soprattutto dai polacchi. È proprio perché gli ucraini ci somigliano e sono geograficamente vicini che questa guerra spaventa l’Occidente. Quando si è trattato dei ceceni, c’è stato solo il sostegno in Europa e in Francia da parte degli attivisti dei diritti umani. Per l’opinione pubblica in fondo non era affar loro. La stessa cosa è avvenuta in Siria.

La fine dello «scontro di civiltà»

K. M. F. Lei sostiene che con l’intervento della Russia in Ucraina non funzioni lo schema dello «scontro di civiltà» caro a Samuel Huntington, e che dopo il crollo del blocco sovietico non è detto che si vada irrimediabilmente verso uno scontro tra cristianesimo e islam.

O. R. In Occidente, Putin è stato visto da parte dei populisti di estrema destra come il difensore dell’Occidente contro la minaccia islamica, e questo era vero fintanto che si trattava di ceceni e siriani. Ma ora sta distruggendo un popolo cristiano e slavo. Tutti gli attacchi che ha compiuto al di fuori della Siria e della Cecenia hanno preso di mira i cristiani: in Georgia, in Armenia dove Putin ha deliberatamente lasciato vincere l’Azerbaigian; e poi ha invaso l’Ucraina con dei musulmani ceceni tra le sue truppe. In Siria, Putin si presenta come il difensore dei cristiani, mentre in Ucraina attacca i cristiani con dei mercenari musulmani. Tutto ciò rende impossibile qualsiasi lettura di questa guerra in termini religiosi. Inoltre, gli ucraini ci tengono a mostrare il loro nazionalismo: sono ucraini, punto. Quando Putin ha combattuto ferocemente la Cecenia, è stato perché era l’unico territorio all’interno della Russia a chiedere l’indipendenza, quando era solo una repubblica autonoma all’interno della Federazione Russa. Mentre l’Ucraina è una repubblica socialista sovietica teoricamente indipendente.

Il grande paradosso è che ci troviamo ancora nello schema delle due Guerre mondiali. Oggi, come diceva il generale francese Hubert Lyautey, ministro della guerra nel 1917 e ufficiale durante le guerre coloniali — il tipico colonialista, spinto dall’idea della missione civilizzatrice —, «una guerra nel cuore dell’Europa è una guerra civile». Agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica araba, questa guerra è un conflitto europeo. Ed è anche l’opinione di molti populisti europei che pensano, come ha detto Zemmour, che questo conflitto distolga l’attenzione dal “vero” problema: l’Islam, naturalmente.