Siria e Libano. Due paesi che navigano a vista tra ingerenze straniere e miseria.

Libano e Siria sono in agonia e le due popolazioni stanno pagando a caro prezzo le colpe di regimi che hanno come unico scopo quello di arricchirsi e continuare a sopravvivere. Privi di legittimità, i governi si aggrappano a sistemi ridotti alla bancarotta, nell’indifferenza o con la complicità delle grandi potenze.

11 ottobre 2021. Beirut senza luci dall’autostrada Charles Helou, nei pressi del porto, durante un blackout.
AFP

Più passa il tempo, più il Libano regredisce,
Annienta i nostri giorni, divora le nostre vite e ci spinge all’esilio.

Amal Makarem, scrittrice e giornalista libanese

Oggi il Libano è praticamente un paese senza Stato, mentre la Siria è ridotta a uno Stato frammentato in territori autonomi. Sono le ombre di regimi che continuano a sopravvivere, per di più privi di legittimità, inefficaci e già falliti agli occhi del loro popolo e del mondo. “La differenza tra questi “intimi sconosciuti”, per usare le parole della sociologa Élisabeth Picard, è che in Libano la gente può almeno esprimere la propria rabbia, mentre in Siria si finisce in galera”, spiega un uomo d’affari libanese-siriano che vive tra i due paesi.

Dopo essere sopravvissuto senza troppe difficoltà a dieci anni di conflitto siriano, il paese dei Cedri attraversa da tre anni un succedersi di crisi, una peggio dell’altra. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un governo che non si riunisce, delle elezioni legislative e un’elezione presidenziale cruciali prevista fra tre mesi, ma ancora in dubbio, una moneta che si svaluta ogni giorno, quattro tassi di cambio paralleli, carenze di ogni genere e l’impoverimento di una fetta sempre più ampia di popolazione.

Vivere nel buio

Qui, vivere al buio non va inteso solo in senso metaforico. L’energia elettrica continua a essere notevolmente razionata (come in Siria), e così il Libano è sprofondato per la prima volta nel buio totale l’8 gennaio 2022, a quanto pare a causa di un sabotaggio ad opera di un gruppo di manifestanti. Un atto che ha portato a “un blackout completo in tutto il territorio libanese”, come ha specificato in seguito l’azienda pubblica Elettricità del Libano (EDL), la cui cattiva gestione unita alla corruzione endemica è costata più di 40 miliardi di dollari (35,36 miliardi di euro) dalla fine della guerra civile (1975-1990). Il paese è ancora in attesa di trovare soluzioni alla crisi, mentre una delle principali priorità del Fondo monetario nei suoi negoziati – di cui si ignora l’esito – con i funzionari libanesi è la riforma troppo a lungo rinviata del settore elettrico e di altri servizi pubblici.

Il Libano ha tuttavia negoziato nell’autunno del 2021 con Egitto e Giordania il trasporto di gas ed elettricità attraverso la Siria, mentre il movimento sciita Hezbollah ha annunciato diversi rifornimenti di carburante iraniano per far fronte alla crisi. Intanto, la bolletta elettrica media di una famiglia che utilizza un generatore privato supera il salario minimo di 675.000 libbre (meno di 20 euro), a causa del crollo della moneta libanese.

Scioperare anche se non si lavora quasi più

La libbra libanese (LBP) di fatto continua a scendere e ha perso un quarto del suo valore in meno di tre mesi, passando da 20.000 a 30.000 LBP per un dollaro (contro i 1.507 LBP prima dell’ottobre 2019) prima di recuperare leggermente a metà gennaio, cosa che ha contribuito alla rabbia dei libanesi che hanno indetto una giornata di astensione dal lavoro alla vigilia del fine settimana dell’8 gennaio 2022. Uno sciopero in un paese dove non si lavora quasi più...

È grottesca anche la situazione degli impiegati del servizio pubblico che avevano deciso, nell’ottobre 2021, di scioperare proprio nel momento in cui lavoravano solo un giorno a settimana. “In queste condizioni, Provateci voi a portare avanti dei dossier importanti bloccati da dipendenti pubblici”, lamenta Antoine Mansour, esperto del settore immobiliare e geografo, un operoso don Chisciotte libanese.

In realtà, il paese è in bancarotta. Anche il governatore della banca centrale Riad Salameh, sospettato di appropriazione indebita di fondi pubblici e riciclaggio di denaro, è stato coinvolto in un’inchiesta giudiziaria. Contro di lui sono state avviate indagini, anche in Europa. Per anni alla guida di questo istituto, Il governatore aveva ricevuto le lodi da parte di colleghi e instituti internazionali per la sua gestione.

Ripresadei negoziati con il FMI

Il Libano potrebbe probabilmente uscire dalla crisi se il governo riuscisse a concludere un accordo con l’FMI e ad avviare così le riforme a trecentosessanta gradi a cui l’oligarchia politica sembra allergica. Martedì 25 gennaio 2022 c’è stata la ripresa delle riunioni del governo. Staremo a vedere. Perché con un governo che non dialogava da tre mesi (ultima assurdità, visto che si è formato a settembre 2021!), il compito non sarà affatto facile. Tanto più che, alla vigilia di questo incontro, l’ex premier e principale leader sunnita Saad Hariri ha annunciato la volontà di ritirarsi dalla vita politica dopo aver invitato “lo schieramento politico all’interno della Corrente del Futuro a seguire il mio esempio”, chiedendo al principale partito sunnita di non presentare candidati alle prossime elezioni legislative. Anche se prevedibile, il ritiro di Hariri rappresenta un punto di svolta importante. Per tre volte primo ministro, dopo l’assassinio del padre nel 2005, Hariri ha più volte denunciato “l’influenza iraniana” nel paese e le “divisioni interne” che privano il Libano di ogni “opportunità positiva”. Su questa decisione hanno pesato anche i suoi cattivi rapporti con il leader saudita Mohammed bin Salman (MbS).

È in questo contesto che sono stati avviati il 24 gennaio, in videoconferenza, i negoziati con l’FMI. Sono già iniziate le discussioni tecniche ma autorevoli con gli esperti, sotto la guida del vicepremier Saadeh al Shami e in particolare del ministro delle finanze Youssef Khalil, che hanno come obiettivo prioritario quello di salvare il sistema bancario e finanziario, che sta collassando con perdite stimate intorno ai 70 miliardi di dollari, ovvero circa 62 miliardi di euro. Le trattative tra Libano e FMI erano state sospese lo scorso anno, in parte a causa dell’incapacità della Banca centrale del paese, delle banche e dei responsabili politici libanesi di concordare con il precedente governo sull’entità delle perdite nel sistema finanziario. Un piano di ripresa del Fondo monetario aveva individuato una perdita di 90 miliardi di dollari (77,7 miliardi di euro). È previsto anche un audit fiscale della Banca del Libano (BDL) e delle banche commerciali, ritenute responsabili della perdita, senza sapere se e quando verrà istituito, in quanto le parti interessate non hanno trovato un accordo in merito alla procedura e ai parametri da seguire. Sono tutte questioni su cui “c’è una totale assenza di trasparenza”, ammette Nasser Saidi, ex vicegovernatore della BDL ed ex ministro delle Finanze.

Le tensioni con l’Arabia Saudita

Lo stato delle finanze e il collasso del sistema bancario sono tali che i correntisti libanesi non hanno più libero accesso al proprio conto in banca. A complicare la situazione, sono state le monarchie arabe, dove lavorano molti libanesi, che hanno deciso in autunno, sotto la spinta dell’Arabia Saudita, di interrompere i rapporti commerciali con il Libano, per decenni una sorta di fratello minore da viziare. Il regno wahhabita è arrivato fino al punto di porre fine alle relazioni diplomatiche con il Libano nell’ottobre 2021.

Attraverso queste azioni punitive, i “fratelli arabi” hanno deciso di far pagare al Libano il suo “crimine”: quello di accettare che Hezbollah sciita filo-iraniano faccia parte del governo e sia considerato un “normale” partito politico, cosa che alcuni contestano in ragione del suo arsenale militare. Il governo di Najib Mikati, un ricchissimo sunnita, è in stallo soprattutto a causa delle diverse tensioni politiche tra pro e anti-Iran e anche tra gli stessi cristiani. Restano sullo sfondo i casi giudiziari irrisolti (tra cui l’esplosione nel porto di Beirut nell’agosto 2020 che ha causato un gran numero di vittime civili) che hanno assunto un carattere politico.

È chiaro quindi che il salvataggio del paese dipende da un complicato accordo con l’FMI, che richiede un deciso consenso politico all’interno di un governo diviso tra fazioni contrapposte, e un sistema ormai obsoleto agli occhi della maggior parte degli interlocutori. Nell’ipotesi che l’accordo vada in qualche modo in porto e se ci saranno i giusti propositi (e le tasche dei responsabili politici saranno abbastanza piene al momento delle urne), solo allora si potrà andare a votare a maggio – Si potrà quindi andare a votare a maggio, sempre che le elezioni abbiano luogo. Ma questo, nessuno è in grado di prevederlo.

Più della metà dei siriani vive nell’insicurezza alimentare

A sua volta, anche la Siria è un paese dissanguato, dilaniato dopo un conflitto interminabile che ha causato centinaia di migliaia di vittime. Oggi, sotto le sanzioni internazionali, il paese è lungi dal riprendersi. Ma al presidente Bashar al-Assad, al potere dalla morte del padre ad inizio secolo, interessa davvero?

“A prescindere da quello che faremo, non vediamo più alcun segno di speranza. Vivevamo meglio all’epoca dei combattimenti”, arriva a dire Nabil Antaki, medico e cofondatore dell’associazione umanitaria “I Maristi blu”, che aiuta gli abitanti di Aleppo. “La bomba della povertà è realmente esplosa dopo la guerra, e l’80% delle persone vive al di sotto della soglia di povertà, mentre l’insicurezza alimentare colpisce il 60% della popolazione”, spiega a Orient XXI, precisando che il reddito medio mensile è di circa 20 euro. C’è una grave mancanza di denaro e con il freddo invernale, “manca il gasolio per il riscaldamento, così gli abitanti fuggono dalla città per trovare rifugio altrove, in Turchia o in Europa”.

“Nel solo mese di agosto – continua il medico ospedaliero – 16.000 lavoratori sono partiti per altre destinazioni mentre molti commercianti e industriali sono fuggiti in Turchia e soprattutto in Egitto, dove si sono stabiliti per lavorare”. Il dottor Antaki, cristiano di Antiochia, si rammarica anche dell’esodo dei suoi correligionari da Aleppo, e lamenta inoltre che “dei 200.000 cristiani presenti prima del conflitto ne siano rimasti appena 30.000”.

Finanziamento allo stremo

Il brusco capovolgimento di situazione ha portato alla recente epurazione di una decina di uomini d’affari, considerati dei pilastri del sistema, con la conseguente confisca o messa sotto sequestro dei loro beni. Con il pretesto della lotta alla corruzione, questi imprenditori, al centro dell’attenzione per la loro caduta in disgrazia, sono vittime di un regime finanziariamente allo stremo e che non esita a esercitare ogni tipo di pressione per ottenere ciò che vuole. È toccato anche al ricco uomo d’affari Samer Foz, 48 anni, al culmine della sua fortuna durante gli anni della guerra con la benedizione del clan Assad. Aveva acquisito una serie di società, soprattutto nel settore immobiliare, tra cui anche l’emblematico Four Seasons Hotel di Damasco. Oggi Foz ha ceduto il suo quattro stelle, e non è più nelle grazie del potere.

Ora il nuovo uomo forte sembra essere Yasser Ibrahim, che controlla un vasto conglomerato di società. Tutti credono che sia protetto dalla potente moglie del presidente. Originaria di una famiglia sunnita di Homs, Asma Assad è nata a Londra e ha lavorato per una grande banca d’affari americana. “Asma è chiaramente oggetto di critiche. C’è una significativa concentrazione di risorse economiche nelle mani della coppia presidenziale, e questo provoca grande malcontento. Si parla tanto di Asma, ma non bisogna dimenticare Maher, il fratello minore di Bashar, che è molto influente”, osserva Jihad Yazigi, esperto di economia e fondatore del sito Syria Today. Questo alternarsi di uomini d’affari sullo sfondo di accordi illeciti e del rafforzamento del potere è raccontato in maniera molto dettagliata in una lunga inchiesta pubblicata nel dicembre 2021 dal Washington Post1.

Tra Russia e Iran

Sul piano internazionale, sono la Russia e l’Iran a sostenere, aiutare e proteggere il regime, mettendo inoltre le mani su pezzi strategici del paese e riducendo al minimo la ricchezza dello stato. Il porto strategico di Tartus nel nord-ovest è diventato il primo avamposto della Russia nel Mediterraneo, e non è cosa di poco conto dopo il ritiro americano dal paese. Questa base permanente si aggiunge dall’inizio della guerra al dispiegamento di batterie di difesa antiaerea S-300. Più a nord, Mosca possiede la base aerea di Khmeimim, vicina al porto commerciale di Latakia (feudo della famiglia Assad). Oltre a questi asset strategici, la Russia ha messo le mani negli ultimi anni anche sull’estrazione e lo sfruttamento di fosfati nella regione di Palmira e sulle fabbriche di fertilizzanti nella regione di Homs, attraverso una partnership tra una società del settore privato russo e lo stato siriano.

Così facendo, Damasco paga parte del suo debito all’alleato russo, intervenuto in misura massiccia, a partire dal 2015, per salvare il regime dal collasso. Ma ci sono intere regioni, seppur messe in sicurezza dall’esercito e dalle forze ausiliarie, che restano instabili e sono ogni tanto ancora bersaglio di attacchi da parte di elementi dello Stato islamico (IS), ufficialmente sconfitti, ma che continuano a imperversare in tutto il paese . Ma soprattutto, le principali fonti di reddito prima della guerra, petrolio e gas, si trovano prevalentemente al di fuori delle zone controllate dal regime, nei governatorati di Deir el-Zor e al-Hasaka, due province instabili dove gli americani mantengono una presenza militare.

In questo modo, la Siria è stata concretamente ridotta a due terzi del suo territorio dall’inizio del conflitto nel 2011. Ma anche qui, bisogna avere una certa cautela. Giovedì 20 gennaio, un commando dello Stato islamico ha compiuto un’azione spettacolare contro una prigione dove erano detenuti alcuni miliziani nella zona curda nel nord-est del paese, provocando numerose vittime.

Nel nord, ci sono un’area di influenza turca (dove si sono ammassati centinaia di migliaia di sfollati spesso soggetti a maltrattamenti), soprattutto nella zona di Idlib, e un’area curda sotto l’influenza americana a est, dove le Forze Democratiche Siriane (FDS, una coalizione di milizie arabo-curde a guida curda) dettano le regole. Le FDS controllano la maggior parte dei giacimenti di petrolio della regione. Una situazione che porta il paese a dipendere ancora di più da Teheran. Da un anno all’altro, l’Iran ha aumentato del 42% le sue esportazioni di petrolio verso il suo alleato arabo, secondo il sito economico Syria Report.

Negli ultimi anni, sono centinaia i contratti firmati tra i due paesi in diversi settori che vanno dalle infrastrutture all’edilizia residenziale, del resto gli iraniani colgono l’occasione per infiltrarsi sempre più in interi comparti della società siriana. Oltre ai russi e all’Iran, anche la Cina sembra avere interessi in questo paese, come dimostra un recentissimo accordo nell’ambito della Via della Seta tra Pechino e Damasco.

Lasciando da parte il protettorato de facto della Turchia nel nord del paese, anche Israele interviene laddove ritiene che siano in gioco i suoi interessi. È così che, il 27 dicembre, ha condotto un attacco aereo senza precedenti che ha colpito il porto di Latakia. Israele è solito spadroneggiare nei cieli del Libano e della Siria, ma questi raid contro i depositi di Hezbollah nel principale porto commerciale siriano hanno lasciato il segno, A tal punto che l’agenzia di stampa siriana Sana ha parlato di “significativi danni materiali”. “I rumori delle esplosioni, dovuti all’impatto dei missili, sono stati avvertiti fino a Tartus, 60 km più a sud”, ha riferito l’emittente pubblica al-Akhbariya, mostrando un video di un enorme incendio. Si tratta del secondo raid israeliano nel porto di Latakia dal 7 dicembre 2021.

Quanto al Golan siriano, oggi è un’area occupata e l’attuale governo israeliano ha deciso di raddoppiare la popolazione ebraica nel territorio.