Reportage

Tunisi, retroguardia dei media libici indipendenti

Buco nero dell’informazione, la Libia è diventata per i giornalisti uno dei paesi più pericolosi al mondo. Costantemente minacciati dai gruppi armati, la maggior parte di loro finisce a lavorare per i nuovi media che difendono le fazioni armate. Eppure, il giornalismo indipendente, nato con la rivoluzione del 2011, non è scomparso. Si è trasferito nella vicina Tunisia. Reportage.

Ahmed Senoussi, direttore di Tabadul e presentatore del programma «Flousna».
© Ariane Lavrilleux, marzo 2022

Nel bel mezzo di un quartiere d’affari di Tunisi costellato da centri commerciali impersonali, gli studi di Tabadul (“Scambio”) hanno scelto la discrezione. Il primo piano di un modesto edificio cubico bianco, senza logo né bandiera, ospita due dei media più popolari di tutta la Libia. Nell’open space, una decina di giornalisti alimenta sia il sito di informazione economica sada.ly sia l’emittente Tabadul TV, che produce talk show e reportage in collegamento con alcuni corrispondenti stabiliti in Libia. Occhiali rotondi, barbetta e camicia rosa abbinata allo sfondo del suo studio televisivo, Ahmed Senoussi è il fondatore e il volto di Tabadul.

Dopo essere stato il presentatore del primo, effimero canale televisivo economico libico insediato in Giordania, questo ex pubblicitario si fregia di essere il primo a “porre l’economia sotto i riflettori”. D’altra parte la concorrenza è limitata nel panorama audiovisivo locale, offuscato da lotte di potere che non hanno niente a che vedere con la vita quotidiana di 7 milioni di libici. Il suo programma principale, Flousna (“I nostri soldi”), affronta la corruzione negli ospedali, le debolezze del settore privato di fronte a un’amministrazione pletorica e le conseguenze dei ripetuti blocchi dei terminal petroliferi. Pur non comparendo mai nel titolo, la guerra fa sempre da sfondo.

Focus economia

“Ci focalizziamo sull’economia, perché il denaro è la principale causa degli scontri tra libici che vogliono innanzitutto controllare la manna finanziaria del paese”, spiega questo imprenditore trentasettenne che ambisce a “cambiare la mentalità delle giovani generazioni, che dovrebbero smettere di aspettarsi dal governo una casa e un’auto come ai tempi di Gheddafi”. Il che equivale a guidare una seconda rivoluzione in un paese dove per 42 anni un unico uomo si è accaparrato i proventi del petrolio per comprare la pace sociale. Sebbene oggi il paese sia fin troppo frammentato per essere corrotto su scala globale, il metodo gheddafiano pare essersi moltiplicato. Ogni fazione alimenta infatti determinate frange della popolazione, milizie e media, per delimitare o sperare di allargare il proprio terreno di influenza.

Tabadul tenta di sfuggire a questa logica facendo firmare ai suoi sponsor una dichiarazione in cui promettono di non intervenire nella linea editoriale. Ma la cosa non è piaciuta a un “grosso inserzionista” che ha rapidamente tagliato i fondi. La “neutralità totale” che Ahmed Senoussi rivendica “persino nell’ultima guerra omicida di Tripoli” - scatenata dal maresciallo Khalifa Haftar nel 2019 e che ha causato quasi 2.000 morti - limita l’espansione della nascente azienda. La quale riesce appena a far quadrare i conti, secondo quanto riferisce il suo dirigente che preferisce non fare i nomi dei suoi sostenitori. Tra i suoi primi mecenati ci sarebbe il miliardario Husni Bey, a capo di una delle poche multinazionali libiche.

In quanto a clienti, la società vende i suoi programmi soprattutto al canale Wasat TV (WTV), che ha anch’esso trasferito parte dei suoi uffici da Beirut a Tunisi, conservando alcuni reparti al Cairo. Meno caotica del Libano e meno cara di Amman, la capitale tunisina a un’ora di volo da Tripoli permette anche di accedere facilmente ai decisori e agli ambienti d’affari libici, che proprio a Tunisi hanno tutti un punto di appoggio. Il proprietario del canale è Mahmoud Shamam, ex ministro dell’Informazione del Consiglio nazionale di transizione che ha amministrato la Libia post-Gheddafi nel 2011. Dopo aver appoggiato per un po’ l’offensiva del maresciallo Haftar contro gli islamisti, il suo gruppo ha finito per incorrere nelle ire del piccolo tiranno di Bengasi, il quale ha fatto chiudere la sua stazione radio nel 2017. Gli Shamam, padre e figlio, tentano oggi di incarnare la voce mediatica “di mezzo”, con interviste politiche su tutti i fronti e servizi sulla vita quotidiana dei libici.

Linee rosse

Trasferendosi a Tunisi, i giornalisti libici acquistano sicuramente indipendenza e sicurezza. Ma come continuare a raccontare con esattezza la vita dei libici senza vivere al loro fianco? Questo dilemma perenne impone dei silenzi sull’attualità, ammette Tarek Al-Houny, fondatore dell’agenzia di stampa Libyan Cloud Agency. Nei suoi dispacci pubblicati sia in arabo che in inglese, la parola “milizia” è bandita per limitare le rappresaglie e mantenere la propria rete di corrispondenti – un centinaio – distribuiti in tutta la Libia. “Quando si verificano attacchi o scontri, copriamo solo le conseguenze che hanno sulla popolazione, senza mai citare i responsabili, e finora i nostri giornalisti non sono mai stati fermati per più di qualche ora”, confida questo ex direttore responsabile della radio e della televisione pubblica dal 2013 al 2014, arrestato a più riprese prima di essere infine costretto all’esilio per sfuggire a una milizia islamista.

Una situazione come tante nella Libia post-Gheddafi. Basti pensare che dal 2013 quattro giornalisti sono scomparsi e altri otto sono stati uccisi, secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ). Libya Platform, una coalizione di ONG libiche per la difesa dei diritti umani, riferisce che 247 giornalisti sono stati attaccati da gruppi armati o perseguiti da tribunali militari. L’ultima vittima è il reporter Ali Al-Rifaoui dell’emittente 218TV, finanziata dagli Emirati Arabi e considerata vicina ad Haftar. Eppure, è proprio una delle brigate del maresciallo a detenere dal 26 marzo 2022 questo giornalista, la cui colpa è stata quella di indagare sulla corruzione delle autorità di Sirte, riferisce il CPJ.

Tarek Al-Houny, fondatore dell’agenzia di stampa Libyan Cloud News Agency @Ariane Lavrilleux
© Ariane Lavrilleux

Nel suo salotto adibito a redazione, con una semplice lavagna bianca alle pareti, Tarek Al-Houny è sempre aggiornato sulle ultime notizie, che gli intasano il telefono, lo schermo del televisore e quello del computer accesi 24 ore su 24. La sua agenzia di stampa ‒ sostenuta al suo lancio nel 2015 dall’accademia dell’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle ‒ oggi vivacchia attraverso la vendita di reportage ad altre agenzie e canali libici. Anno dopo anno, ha visto i giovani rivoluzionari che ha formato come giornalisti finire a lavorare per i canali “partigiani” che offrono stipendi due volte più alti. Non potendo trattenerli, spera almeno che i suoi pupilli riescano un giorno a frenare i discorsi di odio che ancora dominano la copertura dei 15 media principali, come emerge da uno studio dell’organizzazione libica Falso.

Minacce

Benché le campagne di odio restino una delle armi predilette per mettere a tacere le voci dissidenti, a Tunisi si organizza e si consolida la controffensiva. Sono nate infatti diverse piattaforme di lotta contro la disinformazione, spesso con l’aiuto di fondazioni come BBC Media Action all’origine di Al Kul, o Deutsche Welle, principale sponsor del Truth Seekers Center.

Ghady Kafala, caporedattrice del sito El-Biro.
© Ariane Lavrilleux, 2022

Il media di investigazione El-Biro (“penna” in dialetto libico) è nato invece dall’incontro fortuito tra il giornalista Aboubaker Al-Bizanti e la scrittrice Ghady Kafala, entrambi costretti a vivere a Tunisi. Perseguitata dal governo di Tripoli nel 2017, l’ex blogger non voleva rinunciare a parlare di minoranze e diritti umani. Ha assunto così 17 freelance, di cui 7 donne, per contribuire ai podcast e alle lunghe inchieste di El-Biro su temi diversi come l’aborto, gli sfollati di Bengasi e le violenze domestiche che in Libia colpiscono tre quarti dei bambini.

Allontanarsi dalla capitale libica non basta però a mettere fine alle minacce. La giornalista ventinovenne ha finito per abituarsi alle intimidazioni a malapena velate ‒ “sappiamo dove abiti” ‒ ma ha dovuto rinunciare a pubblicare alcuni articoli per proteggere le autrici, anche se sotto anonimato. “Gli attacchi rivolti alle giornaliste sono particolarmente viziosi, denuncia Ghady Kafala, “vengono loro hackerati l’account Facebook e la posta elettronica e riempite di insulti degradanti, sessisti”. Né sono risparmiate dalla violenza. Una collaboratrice di El-Biro che voleva raccontare la quotidianità delle donne nelle carceri è stata picchiata prima ancora di potersi avvicinare a un centro di detenzione.

C’è poi chi ha scelto di sviluppare sui social network un giornalismo “positivo”, come il sito Hunna Libya, che promuove la ricchezza del patrimonio e la diversità paesaggistica del quarto paese africano più vasto. Pur non avendo ancora trovato un loro modello economico, tutti questi media libici insediati a Tunisi contribuiscono a far emergere un nuovo fronte giornalistico, 10 anni dopo il fallimento dei primi canali rivoluzionari nel 2011. Proprio in un momento in cui, paradossalmente, i loro colleghi tunisini subiscono in pieno il ritorno dell’autoritarismo presidenziale.