Emirati Arabi Uniti – Egitto - Israele

Turchia. La nuova realpolitik del presidente Erdoğan

Il presidente Recep Tayyip Erdoğan non è più lo stesso. Il suo istrionismo aggressivo ha ceduto il posto a un’ostinata ricerca di alleanze in Medio Oriente, seppure al prezzo di amare rinunce ideologiche. È che il denaro, nerbo della sua diplomazia offensiva, gli viene terribilmente a mancare.

Ankara, 24 novembre 2021. In presenza di Mohammed bin Zayed e Recep Tayyip Erdoğan, cerimonia di firma degli accordi tra la Turchia e gli EAU con il ministro emiratino dell’energia e dell’industria Souhail al-Mazroui (in piedi a sinistra) e il governatore della Banca centrale turca Sahap Kavcioglu (in piedi a destra).
Adem Altan/AFP

Ma che cosa succede in Turchia? Ecco che il burrascoso presidente della repubblica cambia tono, rivede le sue linee guida e tende la mano a coloro che, poc’anzi, figuravano tra i suoi peggior nemici regionali. Sono tempi difficili, è vero. L’euforia dei primi anni 2000 è ormai acqua passata. Il boom economico, il cosiddetto ‘’miracolo turco’’ è solo un ricordo. E la realtà di una moneta nazionale in caduta libera impone scelte drastiche e dolorose. La crescita del 7,4% del primo trimestre 2021 potrebbe ingannare, ma con un’inflazione attestata ufficialmente al 21,31% su un anno al 3 dicembre 2021 – un numero che in molti considerano incompleto perché secondo loro stimato al ribasso – il regime di Erdoğan non se la passa affatto bene.

Inflazione rima con disaffezione

Le file dei sostenitori di Recep Tayyip Erdoğan continuano a sfoltirsi, come indicano le curve in discesa dei risultati elettorali da qualche anno a questa parte. Le elezioni presidenziali e le legislative previste a giugno 2023 si annunciano male. Secondo alcuni sondaggi, sia il sindaco di Istanbul che quello di Ankara batterebbero Erdoğan nella corsa per il prossimo mandato. La caduta della moneta nazionale – del 45% rispetto al dollaro americano dal 1° gennaio 2021, e addirittura del 30% dalla fine di ottobre – non è estranea a questa disaffezione. È infatti all’origine del suddetto aumento dei prezzi, alimentato dal rincaro delle importazioni, cosa che ha fatto storcere il naso nella stragrande maggioranza delle famiglie turche.

Eppure, il primo rimedio proposto o meglio imposto dal presidente non ha mancato di sorprendere e contrariare gli economisti. Difatti Erdoğan ha esercitato pressioni sulla Banca centrale, in teoria indipendente, per far scendere i tassi di interesse, e questo ben tre volte nell’arco di due mesi, mentre secondo le teorie economiche classiche occorre aumentare i tassi per contrastare e arginare l’inflazione. Attaccato, Erdoğan ha risposto così il 1° dicembre: ‘’Quello che facciamo è giusto. Abbiamo seguito e continuiamo a seguire un programma politicamente rischioso ma giusto (…). Sappiamo quello che facciamo (…). È il nostro mestiere’’. Chi si oppone si espone a rappresaglie dato che – come osservava la Reuters il 3 dicembre – ‘’dalla metà del 2019 ha già rimosso tre governatori della Banca centrale e a ottobre ha licenziato tre alti funzionari della Banca’’.

Ricucire i legami spezzati

Tuttavia, le decisioni più spettacolari prese in questo contesto dall’uomo forte della Turchia riguardano i suoi orientamenti di politica estera, che ha cominciato a rivedere cercando, in un difficile gioco di equilibrio, di non tradire quelli che erano i suoi schieramenti e le sue alleanze di vecchia data. E così, oggi Erdoğan si sforzerebbe di riallacciare i rapporti con potenze regionali che fino a poco tempo fa reputava ostili e trattava come tali, ovvero l’Egitto, Israele e gli Emirati Arabi Uniti.

Il ravvicinamento più concreto, il più visibile benché il meno scontato riguarda Abu Dhabi. I contatti sono ricominciati nella primavera del 2021, dopo una rottura risalente almeno al 2012. Il contenzioso aveva un che di consistente, come spiegava James M. Dorsey sul sito Modern Diplomacy il 26 novembre: ‘’Gli Emirati Arabi e la Turchia si sono ritrovati sui due fronti opposti delle guerre civili scoppiate in Libia e in Siria in seguito alle rivolte popolari, e in disaccordo nel Mediterraneo orientale. Gli EAU hanno cercato di sovvertire i risultati delle sommosse sostenute dalla Turchia che avevano portato al rovesciamento di un dirigente autocratico come quello egiziano (Hosni Mubarak). La Turchia aveva lasciato intendere che gli Emirati avevano finanziato nel 2016 un tentato colpo di Stato militare volto a estromettere Erdoğan’’.

Aggiungeremo inoltre che Ankara aveva preso le parti del Qatar durante la crisi diplomatica del Golfo, [da giugno 2017 fino a quest’anno>1911], schierandosi così contro tre capitali della regione, Riyad, Abu Dhabi e Manama, che all’epoca avevano deciso di accerchiare il piccolo emirato ritenuto colpevole, tra gli altri ‘’crimini’’, di appoggiare, come la Turchia, il movimento dei Fratelli musulmani in un’area scossa delle cosiddette ‘’primavere arabe’’.

Dieci miliardi di dollari e una ‘’nuova era’’

Queste tensioni sono scomparse come per magia? Nient’affatto. Ma i due più alti responsabili, Recep Tayyip Erdoğan ad Ankara e Mohammed bin Zayed (MBZ), il principe ereditario che detiene de facto il potere ad Abu Dhabi, hanno ritenuto che per apprezzare correttamente gli interessi dei rispettivi paesi fosse necessaria una riconciliazione. A ratificarla è stata la visita ufficiale del responsabile emiratino ad Ankara lo scorso 24 novembre. MBZ non è arrivato a mani vuote poiché ha parlato di investimenti nell’economia turca nei prossimi anni pari a 10 miliardi di dollari (8,86 miliardi di euro). Dal canto suo, un Erdoğan tutto sorridente ha elogiato la ‘’nuova era’’ inaugurata nei rapporti tra il suo paese e il ricchissimo emirato del Golfo.

Quale prezzo ha dovuto pagare il presidente turco in cambio di questo aiuto venuto da una potenza fino a poco tempo fa ostile? Si dice che abbia accettato di imporre un profilo basso ai Fratelli musulmani arabi rifugiati sul territorio turco e ai media istanbulioti a essi vicini.

Lo riferiva il sito Middle East Eye il 25 novembre: ‘’Nei mesi scorsi, le autorità turche hanno chiesto ad alcuni canali, molti dei quali appartenenti ai Fratelli musulmani, nemici degli Emirati Arabi Uniti, di annullare certi talk show politici. Sebbene questi canali non siano stati cacciati dal paese, con una simile misura Ankara dichiarava apertamente di voler prendere le distanze dai Fratelli musulmani e di essere pronta a rinsaldare i legami con paesi come gli Emirati Arabi e l’Egitto’’.

Più difficile risulta invece immaginare che Erdoğan volti le spalle al Qatar, il quale possiede in Turchia ancora più investimenti di MBZ, o che addirittura cambi schieramento in Libia dove Abu Dhabi sostiene il fronte di Khalifa Haftar, non riconosciuto dalla comunità internazionale ma appoggiato dai cantori della controrivoluzione in Medio Oriente.

Anche per gli Emirati, la faccenda può sembrare fruttuosa. ‘’L’opinione dominante ‒ scrive Al-Monitor ‒ è che gli EAU cerchino di instaurare rapporti con Ankara, in parte per compensare la concorrenza economica crescente dell’Arabia Saudita e più in generale perché (a Washington) l’amministrazione Biden mostra un minor impegno nella regione, lasciando che paesi come la Turchia e gli EAU se la sbrighino da soli’’.

Presto ambasciatori al Cairo e a Tel Aviv

Si va verso la distensione dei rapporti tra la Turchia e altri due paesi della regione con i quali non correva buon sangue: l’Egitto e Israele. ‘’Ora che abbiamo compiuto un grande passo con gli Emirati Arabi Uniti, prenderemo iniziative simili con gli altri, dichiarava il presidente turco il 29 novembre a proposito di questi due Stati. Quando avremo preso la nostra decisione, saremo senz’altro in grado di nominare degli ambasciatori secondo un determinato calendario’’, aveva aggiunto.

Con Il Cairo, la Turchia di Erdoğan si era seriamente arrabbiata nell’estate del 2013, dopo il colpo di Stato orchestrato dall’esercito egiziano guidato da Abdel Fattah al-Sisi, che aveva brutalmente messo fine all’esperienza democratica – con tutti i suoi difetti e le sue lacune ‒ iniziata due anni prima in seguito alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Il presidente turco non poteva perdonare al militare di aver rovesciato un governo a lui vicino e nel quale credeva, quello dei Fratelli musulmani e del presidente eletto, Mohammed Morsi. I due paesi avevano richiamato i rispettivi ambasciatori ed erano rimasti in freddo, e Erdoğan non si era astenuto dal colpire con critiche aspre e ripetute il suo alter ego egiziano…

A un livello infinitamente più mediocre si collocavano invece i rapporti tra la Turchia e lo Stato di Israele. Da quando Erdoğan ha assunto le funzioni di primo ministro nel 2003, il suo appoggio alla causa palestinese in generale e al movimento islamico Hamas in particolare era stato all’origine di un’escalation di tensione tra i due paesi. Ricordiamo che la Turchia è stata nel 1950 il primo Stato con popolazione musulmana a riconoscere Israele.

L’assalto dei commandos israeliani compiuto nel 2010 al largo di Gaza contro la nave turca Mavi Marmara a guida di una flottiglia umanitaria (10 morti) aveva ulteriormente inasprito i rapporti e gli ambasciatori furono richiamati in patria per un lasso di tempo durato cinque anni. Sempre a Gaza, nella primavera del 2018, quando migliaia di abitanti organizzarono le manifestazioni note come la ‘’Marcia del ritorno’’, la terribile repressione israeliana (decine di morti) aveva spinto Ankara a espellere l’ambasciatore. Per tutti questi anni, Erdoğan ha espresso una dopo l’altra le sue più vive rimostranze nei confronti di Israele, paragonando a volte il suo comportamento a quello dei nazisti.

Ebbene, questo periodo sembra già essere entrato nella storia. Infatti, il cambio di atteggiamento radicale verso Abu Dhabi e Il Cairo lascia presagire una tendenza simile nei confronti di Tel Aviv. A metà novembre, in maniera inedita dal 2013, il presidente turco si è dunque incontrato prima con il suo omologo israeliano, Isaac Herzog, poi con il primo ministro Naftali Bennett. A dimostrazione della buona volontà turca, i colloqui si sono svolti solo poche ore dopo la liberazione e il rimpatrio di una coppia di turisti israeliani detenuti in Turchia perché accusati di spionaggio. Il ritorno degli ambasciatori è quindi solo una questione di settimane, al massimo.

Come si dice realpolitik in turco?

Tutto suggerisce insomma che le flessioni per non dire le contorsioni politiche del presidente turco siano dovute al grave deterioramento della situazione economica del suo paese. Certo, non arriverà ad ammettere che tutte le scelte radicali privilegiate da quasi vent’anni in materia di politica estera si siano rivelate erronee. Ma il suo nuovo pragmatismo lo persuade che il suo interesse oggi consiste nel riallacciare i rapporti con Stati che ha finora offeso, a volte molto pesantemente, e nel dimenticare gli slanci anti-occidentali nonché i discorsi infervorati sulla difesa dei musulmani o degli interessi nazionalisti della Turchia.

Per ora, la sua svolta moderata e accomodante conviene a molti: alla NATO, dove serpeggerà un discreto sollievo; agli europei sicuramente, se si considera che Mario Draghi lo chiamava ancora ‘’dittatore’’ l’8 aprile 2021; e infine agli Stati interessati del Medio Oriente, costretti a rivedere le proprie alleanze a seguito del disimpegno americano.

Solo l’Arabia Saudita dello scontroso Mohammed bin Salman (MBS) non ha ancora mosso le sue pedine verso Ankara, per lo meno non in forma pubblica. Evidentemente, quest’ultimo non ha ancora digerito la gestione turca del caso Khashoggi ‒ dal nome del giornalista saudita assassinato il 2 ottobre 2018 nella sede del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Erdoğan aveva parlato di un omicidio ‘’selvaggio’’, ‘’politico’’ e ‘’pianificato’’, commissionato dalle ‘’più alte sfere del governo saudita’’ prima di emanare mandati d’arresto internazionali per diversi cittadini sauditi, due dei quali vicini a MBS

D’altra parte, la stessa Turchia di Recep Tayyip Erdoğan è nel mirino di organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International, che continuano a puntarle il dito contro per le numerose violazioni in materia di diritti umani. Scommettiamo che gli Stati in fase di riconciliazione con il potere di Ankara non lo useranno come pretesto per fare storie. Realpolitik è un termine tedesco conosciuto dai turchi ma, a quanto pare, si traduce anche in arabo e in ebraico.