Diario da 52

“A Gaza, la guerra fa passare l’affetto in secondo piano”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, Rami e la sua famiglia sono stati costretti a un nuovo esilio interno, bloccati come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

L'immagine ritrae un ragazzo che pattina su una superficie dura, indossando un paio di pattini a rotelle. Sullo sfondo si possono vedere edifici danneggiati e fatiscenti, con finestre rotte e tende appese. L'area circostante è caratterizzata da detriti e spazzatura, che suggeriscono una situazione di degrado urbano. Nonostante l'ambiente difficile, il ragazzo sembra impegnato e concentrato mentre pattina.
Jabalia, 8 settembre 2024. Un ragazzo sfreccia sui pattini davanti a un edificio distrutto in un campo che ospita sfollati a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.
Omar AL-QATTAA / AFP

Lunedì 23 settembre 2024.

Oggi vorrei parlarvi di Jouri, la nipote di mia moglie Sabah, la figlia di sua sorella Amal, che tra poco compirà nove anni. Il suo nome, in arabo, significa “Rosa”. Come la maggior parte degli abitanti di Gaza, anche la piccola Jouri è stata sfollata molte volte, da Nuseirat, dove viveva con la sua famiglia, a Rafah, e poi di nuovo a Nuseirat, dove la sua famiglia ha trovato un piccolo appartamento. Il padre di Jouri, Ismail, faceva il tassista. Il 7 ottobre 2023, Ismail è salito sul suo taxi e non è più tornato. Secondo alcuni testimoni, si è trovato in mezzo ai bombardamenti lungo la strada Salah al-Din, con tutte le altre macchine che si trovavano su quell’arteria nella Striscia di Gaza. Dalla sua scomparsa, non abbiamo più avuto altre notizie.

Jouri è orfana, anche se ancora non lo sa. Due giorni fa siamo andati a Nuseirat per fare visita alla sua famiglia. Come sempre, Jouri mi si è gettata tra le braccia ed io l’ho riempita di baci. Jouri merita il nome che porta, perché è una bambina molto carina, sempre sorridente. In quest’ultimo anno, mi ha chiesto spesso: “Vuoi abbracciarmi come faceva papà? Non so quando tornerà. Credo che sia rinchiuso in un carcere israeliano, ma forse uscirà presto”. E io, ogni volta, le rispondo: “Sì, se Dio vuole, il tuo papà uscirà presto”.

Tra i 19.000 e i 20.000 orfani di guerra

Durante la guerra, Jouri ha avuto una sorellina perché sua madre Amal era incinta prima del 7 ottobre. La bambina si chiama Maram. Jouri è molto felice di avere una sorellina, ma mi ripete sempre: “Vorrei che papà potesse vedere la piccola Maram. Gli dicevo sempre: “Voglio una sorellina, voglio una sorellina! Ed ora che è nata Maram, lui sarebbe felicissimo!”.

Per la coppia è stato molto importante avere le due bambine. I genitori hanno dovuto aspettare dieci o undici anni prima di avere Jouri, che, alla fine, è nata con la fecondazione in vitro, stesso metodo che hanno usato anche per Maram. Il sogno di Ismail era che Jouri potesse giocare con un fratellino o una sorellina.

Jouri continua: “Ma io sono più bella di Maram!”. Così le rispondo: “Certo, tu sei la bambina più bella del mondo!”. Tutto questo mi spezza il cuore, perché so benissimo cosa significa essere orfano. E so benissimo cosa significa per Amal essere vedova, soprattutto esserlo in tempo di guerra. Jouri fa parte dei 19.000-20.000 orfani di guerra, secondo le stime delle Ong. Prima della guerra, ce ne erano forse già 33.000. Alcuni hanno perso il padre, altri la madre, altri ancora entrambi i genitori. Centinaia di bambini sono gli unici ad essere sopravvissuti nelle loro famiglie. Il problema è che i quattro orfanotrofi di Gaza possono accogliere solo 2.000-2.500 bambini. Inoltre, gli orfanotrofi sono stati trasformati in rifugi per gli sfollati.

Essere vedova o orfana è una vita molto dura. Amal sa bene cosa è successo a suo marito, ma non vuole ammetterlo. A forza di dire a sua figlia che il suo papà potrebbe essere ancora vivo e che un giorno tornerà a casa, ha finito per crederci un po’ anche lei. A Gaza viviamo in una società che si fonda sulla famiglia. Perdere un padre è come perdere il pilastro, il sostegno di tutta la famiglia. Ricordo molto bene il giorno in cui ho perso mio padre. Avevo 20 anni ed era come se la mia schiena si fosse spezzata a metà. La perdita del padre è difficile da superare... ma perdere una madre è come perdere l’affetto, è perdere buona parte dell’amore.

L’unica cosa è sopravvivere

La povera Jouri ha perso il suo sostegno, ma i bambini che hanno perso entrambi i genitori hanno perso il sostegno e l’affetto. Nessun altro può svolgere il ruolo di un padre o di una madre. È una sensazione che vivo con i figli di Sabah. Il loro papà è stato ucciso durante la guerra del 2014. È vero che ora mi considerano come un padre, ma non lo sarò mai veramente, perché per loro il padre era la persona più importante. Non provo neanche ad avere quel ruolo, quello che cerco di fare è stare il più possibile vicino a loro. Io li considero figli miei, come mio figlio Walid. Il ruolo di un padre è quello di sostenere e proteggere i propri figli a livello fisico ed affettivo.

Naturalmente, se il padre muore, spetta al nonno o agli zii assumerne il ruolo. Ma se la famiglia è povera, loro possono assicurare solo un minimo di sostegno economico. L’elevato numero di orfani pesa enormemente sull’intera società di Gaza. A causa della guerra, il tessuto sociale si era già quasi completamente lacerato, assottigliandosi come la tela di un ragno. Ma, dopo la guerra, ci saranno migliaia di problemi legati all’eredità, alla custodia dei figli e per sapere a chi compete da un punto di vista finanziario. Non si tratta solo di una questione burocratica, ma è anche una questione sociale. La nostra società si sta disgregando. A causa dell’occupazione e della guerra, sta andando tutto all’aria, il ruolo del padre e della madre, i bambini costretti a lavorare, il gran numero di orfani, la mancanza di cibo, la carestia, la distruzione di scuole, ospedali, servizi, infrastrutture...

Questo significa la totale distruzione della nostra società, non solo a livello materiale. Jouri mi ha confidato che adora stare tra le mie braccia perché le ricorda gli abbracci di suo padre. Questa guerra sta facendo passare in secondo piano anche l’affetto. È diventato raro, perché siamo sempre presi in questo vortice che gira, gira e ci distrae dagli affetti più profondi, costringendoci a pensare solo alla nostra sopravvivenza. I bambini non hanno più la sensazione di sentirsi protetti, perché i loro padri si sentono impotenti di fronte alla macchina da guerra che li schiaccia. Molti genitori hanno anche dimenticato l’affetto e la tenerezza. In questo genocidio, sopravvivere viene prima di tutto. È difficile dimostrare l’affetto quando si deve passare l’intera giornata a cercare una tenda, a trovare da mangiare, a prendere l’acqua, a portarla a casa... La tenerezza diventa l’ultima delle priorità quando tutti sono costretti a lavorare, padre, madre, figli. I bambini sono diventati dei piccoli venditori. Ognuno ha messo in piedi un piccolo commercio davanti alla propria tenda, uno stand chiamato basta, dove si vendono dei biscotti, delle piccole cosette...

Ridotti al nucleo familiare

Per noi la famiglia significa affetto, calore. Ma la famiglia allargata che riunisce genitori, nonni, zii, zie, cugini, e che ora non esiste più. Siamo ridotti al nucleo familiare, al padre, alla madre e ai figli. E anche all’interno del nucleo familiare, le relazioni non sono più le stesse. Non si condividono più le emozioni, a parte la paura dei genitori per la sorte dei loro figli. Ho notato che, a parte me, nessuno abbraccia Jouri. Eppure, tutti le vogliono bene, chiunque la vede non può non adorarla, ma non c’è più posto per la tenerezza, ormai sono tutti troppo esausti. Hanno solo la forza di darle da mangiare e da bere, perché per ora è la cosa fondamentale.

Gli orfani possono trovare qualcuno che dia loro cibo e acqua, ma non troveranno nessuno che dia loro amore. Nessuno può provare lo stesso amore di una madre per il proprio figlio. Nessuno può dare sicurezza al proprio figlio come il padre, soprattutto nella nostra società. Purtroppo, le condizioni di vita di queste migliaia di orfani sono molto pesanti a Gaza. Ci sono bambini feriti che sono stati evacuati all’estero, separati dalle loro famiglie rimaste qui. Conosco tanti casi di bambini che sono andati in Libano, in Qatar o in Egitto per farsi curare e che non possono rintracciare i loro genitori, o casi in cui i genitori sono morti durante i bombardamenti.

Sono bambini che hanno nessuno e, purtroppo, nella nostra società, non esiste l’adozione. Ma questa situazione, visto l’alto numero di orfani, potrebbe cambiare le cose, e questo sarebbe un grande cambiamento per la nostra cultura. Ma per ora, nessuno sa come usciremo da questo genocidio in corso. La mia speranza è che i bambini, e gli orfani, possano avere una vita e un futuro migliore.