
Martedì 15 aprile 2025.
È da più di 45 giorni che siamo sotto blocco totale, inaccessibile. Non passa nulla, né importazioni del settore privato, né aiuti umanitari. Il 18 marzo, Benjamin Netanyahu ha violato l’accordo di cessate il fuoco riprendendo la guerra con violenze e massacri mai visti prima. Oggi vorrei parlarvi della mia vita quotidiana in questa grande gabbia dove continua questo genocidio.
Se prima la Striscia di Gaza era una prigione a cielo aperto, oggi è una gabbia a cielo aperto. Secondo le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano, Israele ha annesso circa il 30-35% della Striscia. Ogni giorno, l’esercito di occupazione annuncia nuove zone da evacuare.
Se lasciamo la strada di un solo metro...
In questa gabbia, non si muore più di fame, ma la malnutrizione è diventata realtà. Si possono ancora trovare delle verdure come cetrioli, pomodori, talvolta lattuga, cipolle, qualche zucchina. Le verdure scarseggiano e sono costose, soprattutto per la difficoltà del trasporto. Nel momento in cui scrivo, resta una sola via di collegamento tra sud e nord: la strada Al-Rachid, che costeggia il Mediterraneo. È vietata alle auto e alle moto, quindi si può percorrere solo a piedi o con un carro trainato da un asino. Non ci sono checkpoint, ma i militari israeliani sono sempre lì, nascosti a pochi metri dall’asse, e sappiamo benissimo che bisogna rimanere su quella strada. Se si lascia l’asse di un solo metro, gli israeliani sparano senza preavviso. Una volta arrivate le merci alla periferia di Gaza, alla rotonda di Nabulsi o alla rotonda di Sabaatach, vengono scaricate e recuperate dai grossisti che le rivendono nei mercati ancora esistenti.
Gran parte della popolazione non può permettersi generi alimenti ormai diventati prodotti di lusso. Non hanno più soldi e sono senza lavoro. C’è ancora qualche supermercato, ma lì si vendono solo biscotti e cioccolato, a cinquanta volte il prezzo di prima della guerra, e ovviamente, prodotti in scatola che provengono dalle loro scorte. A volte si trova anche del riso, ma è troppo caro, e del formaggio. Durante la prima fase del cessate il fuoco, prima che Netanyahu lo dichiarasse terminato, a Gaza sono entrate grandi quantità di latte e molti commercianti sono riusciti a produrre del formaggio, soprattutto bianco. Era da tempo che non se ne vedeva, e così lo hanno stoccato. Ma per conservarlo, serve l’energia elettrica, che oggi è fornita solo dai pannelli solari e da qualche generatore, se si ha del carburante. Di conseguenza, anche il prezzo del formaggio bianco è notevolmente aumentato.
L’IDF bombarda i punti dove vengono distribuiti gli aiuti alimentari
Abbiamo ridotto il nostro fabbisogno calorico a una colazione e un pasto al giorno. Molte persone non possono permettersi la colazione come noi. Una colazione fatta con pane tostato strofinato con zaatar (timo schiacciato mescolato con semi di sesamo) con un po’ di olio d’oliva se si riesce a trovarlo, ormai carissimo. Visto che tutti i panifici hanno chiuso i battenti, siamo costretti a fare il pane in casa, ma a peso d’oro, perché un sacco di farina è passato da 30 a 500, o addirittura 600 shekel (150 euro). Ma non abbiamo né gas, né combustibile, quindi dobbiamo cucinare e fare il pane sul fuoco a legna, nel nostro edificio, sul pianerottolo. Anche i nostri vicini lo fanno. La legna si compra a 15 shekel al kg (circa 4 euro) e ne servono tre kg per un pasto. Il secondo pasto lo consumiamo quando torno a casa dal lavoro, verso le 18 o le 19: delle lenticchie, frikeh (grano verde tostato) o del riso, a volte accompagnato da fagiolini o altre verdure in scatola, o scatolette di tonno.
Per il momento, riesco ancora sfamare la mia famiglia, perché mi guadagno da vivere grazie alle mie collaborazioni con i media, e all’aiuto di mio fratello che mi manda dei soldi dagli Stati Uniti. Ma la maggior parte degli abitanti di Gaza non può permettersi neanche del cibo in scatola o della legna. La gente manda i propri figli a frugare nelle case distrutte per trovare qualunque cosa possa essere utilizzato come combustibile, plastica o altro. Per chi, invece, non può accendere un fuoco in casa e che può permetterselo, c’è un nuovo business: c’è qualcuno che ha installato un grande forno di argilla in ogni quartiere. Loro forniscono la legna e le persone portano il cibo da preparare. Cuocere quattro focacce costa 1 shekel (25 centesimi), scaldare una pentola d’acqua 2 shekel (50 centesimi).
Per sfamarsi, si affidano anche alle tekiya, mense che distribuiscono pasti a chi è in difficoltà, e che danno anche dei piatti di riso, o verdure in scatola: lenticchie, fagioli verdi o bianchi, piselli o, a volte, della pasta. L’IDF ha bombardato quasi 28 di queste mense in strada, oltre a otto posti dove vengono distribuiti gli aiuti alimentari. Ci sono state anche numerose vittime. Le mense per i pasti in strada sono dei bersagli, come le scuole o gli ospedali, o qualsiasi luogo pubblico che fornisca un servizio alla popolazione. E gli israeliani trovano sempre un pretesto per giustificare gli attacchi. Ad esempio, un membro di Hamas stava facendo la fila alla mensa per i pasti. In realtà, è un modo per dissuadere chiunque ad allestire una tekiya.
Ce n’è anche una in fondo alla strada di casa mia, allestita durante la guerra. È stata finanziata da privati. Si dice che le tekiya siano in mano alle fazioni politiche, a volte è vero. Ma la maggior parte sono sovvenzionate da civili, in particolare dai palestinesi che vivono all’estero. Mense dei poveri che offrono ai nuovi sfollati del nord – da Jabalya o Beit Hanun – stipati nei campi di fortuna allestiti nel nostro quartiere, l’unica possibilità di sfamarsi.
È irrilevante vivere o morire
Ecco come a Gaza si cerca di sopravvivere. Come ho già detto in passato, alcuni palestinesi stanno purtroppo approfittando della situazione per aumentare i prezzi. Ma la carestia è orchestrata dall’IDF, per farci, se non morire di fame, sprofondare nella malnutrizione. Per fortuna, nostro figlio Ramzi di due mesi, può contare al 100% sul latte materno, perché il latte in polvere non è più disponibile a Gaza. Tutti i centri di assistenza sanitaria sono stati chiusi perché mancano le forniture. Non arriva più nulla, né per le Ong, né per le Agenzie delle Nazioni Unite – il Programma alimentare mondiale e l’UNRWA – né per l’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità.
Oggi a Gaza la popolazione è “senza”: senza casa, senza sicurezza, senza farmaci, senza assistenza sanitaria. Il livello di sfinimento è arrivato all’estremo. Non solo la popolazione non ha più paura dei bombardamenti, ma a volte si ha la sensazione che sia arrivata al punto in cui è irrilevante vivere o morire. Non hanno altra scelta che tra la morte e la non-vita, vale a dire vivere senza cibo, senza cure, senza istruzione, senza più nulla. In giro si sente dire: “Beh, invece di oscillare tra la morte e la vita, preferisco morire”. Preferiscono la morte all’incertezza del momento, al non sapere se sopravviveranno o meno sotto le bombe l’attimo dopo.
C’è un’altra sofferenza insopportabile, che sento intimamente come padre, ossia quella di non poter dare nulla a un figlio che ti chiede da mangiare. È la cosa peggiore per un padre. Ma io mi ritengo fortunato. Non riesco a soddisfare tutte le richieste di mio figlio Walid, ma almeno non soffre la fame. Sono migliaia i bambini della sua età, neonati come Ramzi, che non hanno cibo a sufficienza.
Questa volta, l’esercito di occupazione sta infliggendo condizioni inumane alla popolazione di Gaza: vivere in una gabbia, senza cibo né acqua a sufficienza, senza cure mediche, sotto le bombe 24 ore al giorno, con tutte le infrastrutture ormai distrutte. Per dare un nome a tutto questo, trovo una sola parola: genocidio. Ad un certo punto ci diranno: se volete andarvene siete liberi di farlo, noi non vi obblighiamo.
Siamo esausti, ma per ora non ci arrendiamo.
“Essere giornalista a Gaza significa documentare il crollo del mondo
Mercoledì 16 aprile 2025, un collettivo di associazioni di giornalisti professionisti ha organizzato a Parigi una manifestazione per ricordare gli oltre 200 giornalisti palestinesi di Gaza uccisi da Israele dal 7 ottobre 2023. Durante l’evento, è stato trasmesso un messaggio di Rami Abou Jamous. Lo riproduciamo qui.
Care colleghe e cari colleghi, amici della verità, della giustizia e della libertà,
È con profonda emozione che prendo la parola oggi. Da Gaza, per voi a Parigi, città che, meglio di ogni altra, incarna la luce contro le tenebre, la parola contro la censura, l’impegno contro l’indifferenza. Parigi non è solo una capitale, ma è un simbolo, quello del libero pensiero, delle lotte mondiali per la dignità, delle voci che si levano quando gli altri tacciono. Come non ricordare qui che nelle strade di Parigi, appena qualche decennio fa, giornalisti francesi, come Pierre Brossolette, Albert Camus, Georges Altman, mettevano a rischio la loro libertà – a volte la loro vita – perché ci fosse una stampa libera di fronte all’occupazione. Battevano in fretta le loro parole su vecchie macchine da scrivere, nelle cantine, nelle soffitte perché dire era una forma di resistenza. Perché scrivere voleva dire esistere. Perché il silenzio era l’alleato del terrore.
Oggi a Gaza, la storia sembra ripetersi. Essere un giornalista qui a Gaza non significa più solo informare, ma documentare il crollo del mondo. Raccogliere le lacrime. Contare i morti. Significa salvare i frammenti di memoria prima che vengano schiacciati dalle bombe. I nostri giornalisti hanno perso il sonno, ma anche il loro rifugio, la casa, la famiglia e talvolta anche la vita. Ma non hanno mai abbandonato la loro macchina fotografica. Non hanno mai chiuso i loro taccuini, né spento i loro microfoni. Su questa terra esiste qualcosa per cui vale la pena vivere, ha scritto Mahmud Darwish. È quello che i giornalisti fanno qui a Gaza: tenere giorno dopo giorno un filo teso tra la luce e la notte. La loro voce è un baluardo contro l’oblio. La loro presenza testimonia la verità contro la menzogna.
Voi siete qui oggi. Voi siete testimoni del loro coraggio grazie alla vostra manifestazione. Voi tendete una mano oltre i muri, le frontiere, le rovine, le bombe del blocco che vi è stato imposto per non testimoniare e raccontare i peggiori massacri subiti dal popolo palestinese, soprattutto a Gaza. Con la vostra presenza voi dite non dimenticheremo. Onoriamo la memoria dei nomi dei giornalisti assenti dalle nostre liste ufficiali, ma impressi nella nostra memoria. Rendete giustizia a chi che ha dato tutto per far sapere al mondo. Esule è chi attende il ritorno guardando l’assenza, ha detto Mahmud Darwish. A Gaza, i giornalisti vivono l’esilio sulla loro stessa terra. Ma oggi, grazie a voi, la loro voce va al di là di ogni barriera. Si unisce a voi. Vi tocca. Vi chiede di esserci.
Che questa cerimonia sia più di un omaggio. Che sia una promessa. La promessa di proteggere la libertà di stampa ovunque vacilli. La promessa di continuare a diffondere la parola degli oppressi quando vacilla. La promessa di far trionfare la luce sulle tenebre.
Concludo il mio intervento con questa frase di Albert Londres: “"Il nostro mestiere non è quello di piacere, né di fare del male, è quello di infilare la penna nella piaga”. A Gaza la ferita resta aperta, ma la penna è ancora lì e noi la porteremo insieme. A nome dei giornalisti palestinesi, ma soprattutto dei giornalisti di Gaza, delle loro famiglie e di tutti quelli che continueranno a scrivere nella polvere, testimoniando sotto le bombe, rivolgo a voi la mia più sincera e fraterna gratitudine. Voi siete la voce di chi non ha voce. Voi siete la memoria di fronte all’amnesia. E insieme, noi continueremo.
Un grande ringraziamento.
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