Diario da Gaza 30

“Gli operatori umanitari sono morti nello stesso silenzio che ci avvolge”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Rafah, 28 gennaio 2024. Un rifugiato palestinese riceve aiuto da un dipendente dell’Unrwa.
AFP

Lunedi 13 maggio.

Oggi vorrei rendere omaggio al dipendente delle Nazioni Unite ucciso dall’esercito israeliano e alla sua collega gravemente ferita.

L’auto con la sigla Onu su cui viaggiavano i due è stata colpita nel corso di una sparatoria. A colpirli sono stati gli stessi proiettili destinati ai palestinesi, e nello stesso silenzio generale. Naturalmente, le Nazioni Unite hanno rilasciato una dichiarazione in cui esprimono il loro cordoglio, condannando l’accaduto. La vittima apparteneva all’UNDSS, il Dipartimento delle Nazioni Unite della Sicurezza e Protezione. La sua auto si stava dirigendo verso l’Ospedale europeo di Rafah, lungo la strada Salah el-Din.

L’Onu non ha reso noto né i nomativi, né le nazionalità dei suoi due dipendenti. Lo stesso hanno fatto la maggior parte dei media, sia occidentali che arabi. Dalle mie fonti, ho saputo che la vittima era di origine indiana, un ex colonnello dell’esercito e padre di due bambini. La sua collega è di origine giordana. Tutti sanno però che a colpirli sono stati gli israeliani.

Come al solito, Israele è al di sopra della legge

Dall’inizio della guerra, sono morti oltre 250 operatori umanitari, membri delle Nazioni Unite, in particolare dell’Unrwa, o di Ong internazionali come Medical Assistance Program International (MAP) o Medici Senza Frontiere (MSF). La maggior parte di loro erano palestinesi, quindi la cosa passa sotto silenzio. Viene data la notizia, e finisce lì. Quando si è trattato di francesi o inglesi, come nel caso di World Central Kitchen (WCK), c’è stato uno shock che ha cambiato un po’ il corso della guerra, con ripercussioni a livello umanitario. Ma questa volta se n’è parlato poco. Forse per la nazionalità delle vittime? Quest’uomo era qui per una giusta causa, ed è morto da martire, come gli altri operatori umanitari uccisi a Gaza. Ma, come al solito, Israele è al di sopra della legge. Gli israeliani “apriranno un’indagine”, per giungere alla conclusione che i colpi provenivano dai miliziani di Hamas, e il caso sarà chiuso.

Vorrei però parlarvi di quest’uomo, di cui non conoscevo nemmeno il nome. Era venuto qui per aiutare la popolazione di Gaza. Sapeva benissimo che avrebbe corso dei rischi. Lavorava in un dipartimento di sicurezza, sapeva che si sarebbe trovato in una zona di guerra. Eppure, ha fatto questa scelta. Chi era? Finora si è detto molto poco su di lui.

I due operatori umanitari erano lì per un senso dell’onore, per umanità. Entrambi erano venuti qui rischiando la vita, solo per aiutare i palestinesi. Ma di fronte a Israele, nessuno osa dire che sono stati presi di mira. Ci si limita a dire: bisogna aprire un’indagine. Come tutti gli operatori umanitari, avevano comunicato le loro coordinate GPS all’esercito israeliano. Ogni volta che bombarda delle persone localizzate dal GPS, l’esercito sostiene che si tratti di un errore. Non c’è alcuna reazione pubblica, a meno che Israele non colpisca qualche cittadino di una delle cinque maggiori potenze mondiali. Allora, in quel caso, arriva qualche dichiarazione.

Toro e matador

I due dipendenti avevano lasciato i loro figli, le loro famiglie per venire qui a fermare la guerra, per assistere feriti e malati, fornire un sostegno alle infrastrutture, facendo tutto il possibile. Per me, quello che sta succedendo a Gaza è come una corrida. Israele è il matador, ben vestito, rispettabile, che pianta le sue banderillas, mentre la popolazione di Gaza è il toro. In Occidente, tutti guardano l’agonia della bestia e c’è chi si indigna anche per la furia del toro. E se qualcuno corre in aiuto del toro, il torero ferisce l’animale con le sue banderillas, uccidendolo poi con la spada. Perché lo scopo è quello di annientare il toro, in modo che il pubblico alla fine possa applaudire. Il matador vince sempre, è sempre rispettato, perché si stava “difendendo”.

Tutte le guerre sono giuste contro questo povero popolo palestinese: la guerra delle bombe, quella dei soldati; la guerra della carestia e quella psicologica, la guerra delle sigarette... E nessuno muove un dito. Quando le grandi potenze intervengono, lo fanno solo per interesse, perché ci sono delle elezioni, perché c’è una mobilitazione all’interno del paese, o secondo gli sviluppi dei loro interessi nella regione, o anche per quelli personali dei loro leader. Ma non si muovono per umanità, né di fronte ai massacri, né di fronte a ciò che tutti vedono: una carestia che sta strozzando il sud della Striscia di Gaza dopo la chiusura dei valichi di Rafah e Kerem Shalom.

Lunedì abbiamo saputo che dei camion che trasportavano aiuti umanitari sono entrati nel nord attraverso il valico di Zikim, ma erano destinati solo a Gaza City e al nord dell’enclave. Credo che al sud tra Rafah e il Corridoio Netzarim toccherà quello che il nord ha già vissuto in passato. Ma questa volta, la carestia colpirà molte più persone. Al nord si parla di 500.000-700.000 persone, mentre al sud ci sono 1,5 milioni di persone che stanno morendo, martoriate ogni notte dalle bombe. E ora, fame e sete, con i valichi ancora chiusi.

Stretta finanziaria

La cosa peggiore è che, mentre l’attenzione è concentrata su Rafah, nel nord i bombardamenti proseguono. L’esercito israeliano ha occupato Jabaliya, il quartiere di Zeitoun dove stanno avvenendo massacri senza pietà con nuovi sfollamenti della popolazione.

Il mondo sta vedendo quello che succede a Rafah, ma altrove è peggio. Si parla poco della situazione in Cisgiordania, perché lì non ci sono F-16 che bombardano. L’unico motivo è che la Cisgiordania è piena di insediamenti, e gli israeliani hanno paura di usare la loro forza aerea quando ci sono delle colonie. A Gaza lo hanno fatto solo dopo il ritiro dei coloni nel 2005, in particolare infrangendo la barriera del suono e mandando in frantumi tutti i vetri, compresi quelli delle auto.

Un altro metodo è quello della stretta finanziaria. Gli israeliani si rifiutano di trasferire all’Autorità Palestinese (AP) le imposte che riscuote per suo conto alle frontiere. Di conseguenza, l’AP può pagare ai suoi dipendenti solo la metà dello stipendio. Questo vale anche per gli impiegati dell’Autorità Palestinese a Gaza, che continuano a essere pagati anche se non lavorano più da quando Hamas ha preso il potere nel 2007. Intanto i prezzi sono aumentati di 10 o 20 volte.

Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha accettato di seguire un percorso politico, non militare. Ma, nonostante ciò, gli israeliani lo considerano un nemico e gli fanno la guerra, violando tutti gli accordi.

Mercoledì 15 maggio è stato il 76° anniversario della Nakba, la “Catastrofe”, la creazione di Israele che ha sancito l’espulsione della maggioranza dei palestinesi. All’epoca, i palestinesi si erano rifugiati a Gaza, in Cisgiordania o nei paesi limitrofi. Oggi fuggono da un luogo all’altro all’interno della Striscia di Gaza. È sempre la solita corrida con lo stesso matador e lo stesso toro.