Diario da Gaza 18

“Guardo le facce e vedo delle persone invecchiate”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI.. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

L'immagine mostra un cielo grigio-azzurro con numerosi paracadute che scendono lentamente verso un'area urbana sottostante. Sullo sfondo, è visibile una città con edifici di varie dimensioni e forme. L'atmosfera sembra tesa, suggerendo che si tratta di un'operazione militare o di emergenza. I paracadute, bianchi e leggeri, creano un contrasto visivo con l'ambiente circostante.
2 aprile 2024. Foto scattata dal confine sud di Israele con la Striscia di Gaza, che mostra un lancio di aiuti umanitari sul territorio palestinese sotto assedio..
AFP

Sabato 13 aprile 2024

Per molti, la guerra significa continui bombardamenti 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vuol dire morti, feriti, distruzione totale. In linea di massima è proprio così, ma la guerra ha anche altri aspetti, meno visibili ma altrettanto deleteri per noi. La fame, per esempio. Gli israeliani lo stanno usando per costringere la popolazione rimasta a lasciare Gaza City e il nord della Striscia. Alcuni sono morti di fame, soprattutto tanti bambini. L’avete vista la foto di Yazan, il bambino di 10 anni morto a causa della fame e della malnutrizione.

Con la guerra e l’assedio, tutto è diventato costosissimo. Gli aiuti umanitari e le importazioni dal settore privato non arrivano sempre in quantità sufficienti. Il prezzo di un chilo di zucchero è salito da 4 shekel (1 euro) a 70 shekel (17,50 euro). Ora si è stabilizzato a 20 shekel (5 euro).

La gente vede prodotti che non può permettersi

Dopo la morte dei 6 martiri dell’Ong World Central Kitchen (WCK) e la risoluzione Onu che chiedeva un cessate il fuoco fino alla fine del Ramadan, gli israeliani hanno promesso di aumentare il numero di camion che entrano attraverso il valico del nord della Striscia di Gaza. A quanto pare, le consegne sono effettivamente arrivate nel nord e a Gaza City, ma erano ancora troppo poche. I miei amici che sono ancora lì mi dicono di aver visto cibo e prodotti di cui avevano dimenticato l’esistenza, ad esempio verdure e carne. Ma tutto a prezzi proibitivi. Un chilo di pomodori costa 120 shekel (30 euro), un chilo di patate 100 shekel (25 euro). La gente li vede, ma non può comprarli.

Inoltre, non ci sono più contanti in banca in tutta la Striscia di Gaza, perché gli israeliani non li lasciano più circolare. Prima c’erano camion blindati che trasportavano denaro contante per rifornire le banche di shekel, dollari e dinari giordani. I dollari sono finiti in Egitto per pagare le enormi somme di denaro che permettono da uscire da Gaza – 35.000 dollari (circa 33.000 euro) per una famiglia media. I dollari servono anche a pagare le importazioni. E poi ci sono gli speculatori di guerra palestinesi che prelevano ingenti somme di denaro grazie ai loro contatti con le banche.

Non riesco a prelevare denaro dalla Bank of Palestine. Devo fare la fila per ore, se non giorni, per ritirare 1.500 o 2.000 shekel. A volte mancano del tutto i contanti, quindi sono costretto a farlo tramite l’app della banca. Trasferisco il denaro su un numero di conto fornito da uno degli uffici di cambio di Rafah. Loro prendono una commissione del 20%, a volte del 25%. Ad esempio, su 5.000 shekel (1.246 dollari) trasferiti dal mio conto, prendono 1.000 shekel di commissione, che è una somma enorme per Gaza, dove lo stipendio medio è di 1.500 shekel (375 dollari) e dove, a causa della guerra, gli impiegati dell’Autorità Palestinese ricevono solo il 60% del loro stipendio.

Ora i prezzi stanno iniziando a scendere, non perché ci sia più offerta, ma soprattutto perché la gente non ha più soldi per comprare nulla.

Pensiamo solo a come sopravvivere

L’altra guerra psicologica di Israele è rappresentata dalle minacce che continuano ad aleggiare su un possibile attacco a Rafah, che potrebbe mandare via il milione e mezzo di sfollati stipati lì. La gente ha paura di nuovi massacri e di un nuovo piano di sfollamento. Sono stremati dagli spostamenti da una città all’altra, da una tenda all’altra, per sfuggire a questa macchina da guerra che non distingue tra un essere umano, un edificio o un albero, e che sta distruggendo tutto.

Guardo le facce e vedo le persone invecchiate. Io stesso ho i capelli bianchi, mentre prima della guerra non ne avevo. Prima pensavamo all’educazione dei bambini, a quale scuola o università li avremmo iscritti... Ora siamo così esausti dai bisogni della vita quotidiana che non pensiamo al futuro, pensiamo solo a come sopravvivere. Con conseguenze psicologiche enormi che si vedranno solo dopo la guerra.

C’è poi la guerra contro il sistema sanitario. Gli israeliani l’hanno quasi completamente distrutto. L’ospedale Al-Shifa, il più grande della Striscia di Gaza, è ormai ridotto a un cumulo di macerie. L’ospedale Kamal Adwan, l’unico ancora in funzione a Gaza City, non ha più mezzi, né infrastrutture per accogliere i feriti. Anche a Rafah gli ospedali non hanno più risorse. Quando mio figlio Walid si è ammalato, ho dovuto curarlo io: gli ho dato delle medicine che mi avevano dato degli amici, perché qui non si trovano. Molte persone sono morte perché avevano bisogno di antibiotici che non si trovano più o per mancanza d’ossigeno. I bambini sono morti nelle incubatrici a causa dei blackout di energia elettrica.

A nuoto, per cercare di recuperare gli aiuti paracadutati

Infine, c’è la guerra dell’umiliazione, che voglio ancora una volta sottolineare, e che non fa che aggravare le cose. L’umiliazione di essere uccisi in casa mentre stai dormendo, di cercare i morti sotto le macerie, o di doverli abbandonare sotto le rovine, come è successo a Gaza City. La gente aspettava che l’esercito venisse rischierato per recuperare le vittime intrappolate e seppellirle con dignità. Si vedono morti a destra e a manca per le strade, mentre da noi i cadaveri vengono seppelliti prontamente e con dignità. C’è l’umiliazione di vivere nelle tende, e quella degli aiuti alimentari lanciati con il paracadute. La gente crede che ci stiano aiutando, ma lo fanno solo per la loro opinione pubblica, per dire che stanno aiutando la Palestina e gli abitanti di Gaza. E c’è l’umiliazione di vedere le persone accorrere per recuperare i pacchi.

Ho un amico a Gaza City che si chiama Mohamed Al-Khaldi. Suo figlio ha visto un pacco lanciato col paracadute cadere in mare. Con un amico ha cercato a nuoto di recuperare il pallet che pesava non so quanti chili, perché non avevano nulla da mangiare. Lui è riuscito a cavarsela, ma il suo amico è annegato. Gli ho chiesto perché suo figlio avesse fatto una cosa così pericolosa. Ha risposto: “Perché moriremo comunque, o di fame o cercando di recuperare gli aiuti alimentari”. Una risposta che mi ha spezzato il cuore. Poi ha continuato: “La morte è dappertutto, la morte sono le bombe, la ricerca di cibo, la fame”. Paesi come Francia, Stati Uniti e Giordania stanno spendendo molti soldi per inviare dei pallet con aerei militari, quando potrebbero farli arrivare con i camion. Ci sono 6 o 7 valichi tra Israele e la Striscia di Gaza, oltre al valico di Rafah. Dal momento che gli israeliani hanno concesso l’utilizzo del loro spazio aereo – perché considerano Gaza parte del loro spazio aereo – possono anche concedere il permesso di far transitare i camion.

Ma non vogliono farlo perché vogliono mantenere questa situazione di caos, dove le persone lottano tra loro perché non ci sono soldi. Si è tornati al baratto: io ti do un sacchetto di farina, e tu mi dai un pacco di zucchero.

Molti stanno pensando di andarsene. Sono convinto che, se gli egiziani abbassassero un po’ il costo per far uscire le persone – 5.000 dollari a testa – molti abitanti di Gaza se ne andrebbero. Alcuni hanno venduto tutto ciò che avevano, gioielli, auto, per raccogliere quella somma. Altri che non avevano nulla da vendere hanno creato delle raccolte fondi online.

È una guerra di non-vita. Se finisce, ne comincerà una nuova, perché non c’è più nulla di cui vivere. Energia elettrica, asili, scuole, università: non c’è più niente nella Striscia di Gaza. Soprattutto a Gaza City e nel nord. È questa la vera guerra. È essere costretti a far vivere la tua famiglia in un luogo vuoto, deserto, dove non c’è niente di niente. E poi ti viene detto che, se qualcuno vuole emigrare o partire, è libero di farlo. Ma forse la cosa che più mi addolora è che ci sono palestinesi che stanno approfittando di questa situazione, a scapito dei loro fratelli palestinesi.