Diario da Gaza 90

“Il mio modo di resistere è restare in Palestina”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con la moglie, Walid e il figlio appena nato, Ramzi. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre importanti riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Bambino felice che salta con un velo rosato, in un ambiente di tende.
Città di Gaza, 12 maggio 2025. Bambini palestinesi giocano accanto alle tende in un campo profughi improvvisato in mezzo alle macerie.
Omar AL-QATTAA / AFP

Martedì 13 maggio 2025.

Come molti di voi sapranno, di recente sono arrivati in Francia circa 70 abitanti di Gaza, trasferiti alla fine di aprile grazie al Consolato francese a Gerusalemme. Tra questi, c’erano gruppi di famiglie, studenti universitari con borse di studio, artisti e persone legate alla Francia che volevano andarsene da Gaza. Subito dopo, ho cominciato a ricevere diverse telefonate da amici francesi, non solo giornalisti. Tutti mi hanno fatto la stessa domanda: “Perché non sei partito?”. Alcuni mi hanno persino consigliato di chiamare il Consolato di Francia, convinti che si fossero dimenticati di inserirmi nella lista di quelli che avevano fatto domanda per partire. Ho risposto che è dal primo giorno di guerra che il Consolato mi propone di andar via da Gaza, insieme alla mia famiglia, per accogliermi in Francia. Ma io ho sempre detto di no.

Mi dicono:

Rami, perché ti ostini a restare? Non vedi che la situazione a Gaza peggiora sempre di più. L’unico modo per uscirne è la morte, sotto le bombe o per fame. Potresti dare una mano alla tua patria e alla causa palestinese anche dall’estero. Restare in vita è molto importante per la Palestina.

Capisco certe argomentazioni e le rispetto. Come so che la maggior parte delle persone mi chiede di partire perché mi vuole bene e ha paura di perdermi. Vogliono una vita migliore per me e la mia famiglia. In effetti, considero la Francia, dove ho vissuto tra il 1997 e il 1999, come il mio secondo Paese. È in Francia che ho compiuto diciotto anni. Un periodo bellissimo della mia vita, dove ho imparato tanto. Non parlo solo della lingua, ma anche tanti valori come la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. È stato in Francia che ho incontrato gente da tutto il mondo e questo mi ha arricchito. C’era un grande scambio culturale nel campus universitario, dove potevo socializzare con studenti provenienti da ogni parte del mondo. Ho imparato anche ad apprezzare il cioccolato e i formaggi. Dopotutto, il sentimento di appartenenza a un Paese non è necessariamente legato alle nostre origini, e ci si può sentire francesi quanto palestinesi.

Per molto tempo, ho sognato di poter tornare

Ero indeciso se scrivere queste parole, ma voglio spiegare ai miei amici il motivo della mia scelta. Non è un suicidio. Non voglio morire, e non voglio che la mia famiglia muoia. Sono contrario alla resistenza armata, anche se credo sia un nostro diritto, come lo è per tutti i popoli sotto occupazione, nonostante gli israeliani abbiano cambiato le regole, chiamando la resistenza terrorismo, e i termini del più forte siano stati adottati in tutto il mondo. Ma il mio modo di resistere è quello di restare in Palestina.

Sono nato in Libano. I miei genitori hanno vissuto la Nakba. I miei nonni materni sono andati in Libano, i miei nonni paterni in Giordania. La mia famiglia non ha più radici a Gaza. Non ho zii, zie o cugini. Per molto tempo però, quando vivevo nella diaspora, ho sognato il giorno in cui sarei tornato in Palestina. Fino a quando gli accordi di Oslo non mi hanno permesso di tornare. È questo il motivo per cui non voglio andarmene.

Qui è Rami che parla, un cittadino palestinese. Per il giornalista, la scelta è semplice: se decido di andarmene, non ci saranno più giornalisti di lingua francese a Gaza. È vero che non posso fare molto di fronte a questo genocidio e a questa guerra mediatica. So di essere solo una piccola voce in fondo all’abisso, una piccola penna di fronte a un enorme arsenale mediatico. Ma penso che sia mio dovere raccontare quello che sta succedendo a Gaza. Sono credente e quindi credo che non siamo noi a decidere la nostra vita e la nostra morte. Se dobbiamo morire, sarà in questo o quel momento, in questo o quel luogo, ma non sappiamo dove né quando. E non sappiamo nemmeno come.

Ho fatto la scelta giusta per me e la mia famiglia?

Durante questa guerra, degli amici hanno lasciato Gaza City per rifugiarsi a Khan Yunis, e sono stati uccisi. Altri sono partiti alla volta di Rafah, e anche loro sono stati uccisi. Altri ancora volevano andare in Egitto e lì sono morti. No, non siamo noi a decidere. È vero però che possiamo decidere di rimanere nella paura sotto i bombardamenti, rischiando di morire di fame. Ho fatto la scelta giusta per me e per la mia famiglia? Mi sono posto questa domanda due giorni fa, quando, per la prima volta, ho visto mia moglie Sabah con le lacrime agli occhi. È raro vederla piangere. Le lacrime le lasciavano delle piccole striature nere sulle sue guance, dovute al fumo del forno “improvvisato” dove bruciamo carbone, legna e qualsiasi cosa possa essere usata come combustibile. Quando ho visto quelle piccole perline rosa e nere sulle sue guance, ho pensato tra me e me che rispecchiassero esattamente quello che stiamo vivendo: la bellezza del suo viso roseo, il nero delle ceneri della nostra patria e la durezza della nostra vita. Così ho cominciato a recitare i versi di una poesia di Nizar Qabbani1: “E la pioggia nera scorre dai miei occhi come un ruscello…” e così sono riuscito a farla sorridere almeno un po’.

In realtà, la cosa mi ha spezzato il cuore. Non le ho chiesto: “Perché stai piangendo?”, ma le ho chiesto direttamente: “Vuoi partire, Sabbouha? (è il diminutivo di Sabah). E lei mi ha risposto: “No, è fuori discussione. Se decidi di partire, partiremo tutti insieme. Se decidi di restare, allora resteremo tutti insieme. Se riusciremo a sopravvivere, lo saremo tutti insieme. Se dobbiamo morire, moriremo tutti insieme”. Ho abbracciato Sabah, cercando di fermare la pioggia nera che scorreva lungo le guance. In quel momento, mi ha detto:

So che ci sono poche persone a Gaza che possono vivere come noi. So che fai tutto il possibile per garantirci il minimo indispensabile, e so bene che questo minimo è il massimo per molti altri. Ho tutto ciò di cui ho bisogno, anche se è una vita po’ dura. Vedo come vivono i miei amici, la mia famiglia, con quale angoscia. Non ne posso più di questa ingiustizia. Ed è per questo che piango.

Uccisi... per un sacchetto di farina

Tuttavia, mi sono chiesto: partire o restare? Dovrei risparmiare alla mia famiglia questa tristezza, questo dolore? È un dilemma che mi dilania dentro. Sono stanco di tutte le sofferenze a Gaza, dei massacri, della carneficina quotidiana, della carestia, dell’umiliazione che deve subire tutta questa gente costretta a vivere in tenda, per strada... Recentemente, anche Sabah è stata colpita a livello personale da questi massacri. Uno dei suoi zii è stato ucciso, insieme a due dei suoi figli... per un sacchetto di farina.

Viveva nel quartiere di Shujaiya2, una zona che gli israeliani avevano ordinato di evacuare. La famiglia era partita senza portare nulla con sé, per questo il cugino di Sabah e sua moglie stavano cercando di tornare a casa per recuperare un sacco di farina, visto che siamo a rischio di carestia. Un cecchino israeliano li ha colpiti. Mentre l’uomo giaceva a terra, sua moglie, malgrado le ferite, è riuscita ad allertare la sua famiglia. Il padre, lo zio e un altro figlio di Sabah si sono precipitati sul luogo, ma il cecchino ha sparato anche a loro. Sono stati lasciati lì in strada per tre o quattro ore a morire dissanguati. Nessuno osava andare a cercarli per paura dei cecchini e dei droni armati che si aggiravano lì intorno. Sono morti tutti e tre.

Sabah aveva già perso un altro zio, anche lui ucciso dall’esercito di occupazione. A uno dei suoi cugini è stata amputata una gamba. Come ho già raccontato, suo padre invece non è morto in un raid, ma di dolore perché non poteva più sopportare l’umiliazione di vivere in una tenda. C’è un enorme dolore nel cuore di Sabah, ma lei pensa che rimanere qui sia la decisione giusta. È il nostro modo di resistere a questa guerra. Mi ha detto: “Andremo avanti fino alla fine. E il giorno in cui tutto questo finirà, voglio che tu mantenga la tua promessa di andare all’estero, di cambiare un po’ aria, soprattutto per i bambini”.

Le sue parole mi hanno un po’ rassicurato. Capisco quanto Sabah sia stanca, visto che deve gestire un bambino piccolo e un neonato, oltre a dover cucinare con questo fuoco che continuiamo ad accendere bruciando tutto quello che possiamo, nonostante lei soffra d’asma. Per fortuna, abbiamo ancora delle medicine che ci aveva inviato la nostra cara amica, la giornalista Marine Vlahovic, che ora riposa in pace. Spero che ci basteranno per resistere fino alla fine.

Non biasimatemi se mettiamo a rischio la nostra vita

Ho molti amici qui che vogliono andarsene, che lavorano per le Ong francesi o che hanno figli in Francia. Mi hanno chiesto di vedere se il Consolato francese poteva farli partire. Ci sono degli amici che mi hanno riferito cosa hanno detto quelli che sono stati trasferiti in Francia: “Amo il mio Paese, ma non volevo perdere la mia famiglia”.

Anch’io non voglio perdere la mia famiglia, ma non voglio giudicare nessuno. Anch’io mi auguro che la mia famiglia possa vivere bene e che abbia una vita serena. Però questo è il mio modo di resistere. Se siamo sopravvissuti a questo genocidio, voglio che Walid, Ramzi e Sabah siano orgogliosi di me. Spero che Sabah sia d’accordo con la mia decisione, e che un giorno i bambini capiscano il motivo per cui il loro papà ha fatto questa scelta: perché una piccola penna da Gaza, una piccola voce da Gaza, potesse fare qualcosa per la Palestina.

Un giorno, quando tutto finirà, spero di poter portare la mia famiglia in Francia: Sabah, Ramzi, Walid e i figli di Sabah, che considero i miei figli. Spero di cambiare un po’ aria, di incontrare tutti i nostri amici che sperano di vederci sani e salvi, di ritrovare il mio secondo Paese, la Francia. Inoltre, spero che volteremo pagina di fronte a questo genocidio.

Non biasimatemi se mettiamo a rischio la nostra vita, se un giorno dovessimo finire tra le vittime di questo genocidio, se finiremo per riposare in pace. Non voglio che i miei amici, tutti molto cari, me ne facciano una colpa per aver deciso di rimanere a Gaza. È una decisione difficile, di vita o di morte. Ma, a volte, la dignità vale molto di più della vita. Spero che tutti possano capire la mia decisione, se sopravviveremo o meno. Spero che un giorno ci incontreremo di nuovo tutti, voltando questa pagina e aprendone una nuova. Una pagina di gioia, coraggio e soprattutto dignità.

1Poeta siriano (1923-1998), uno dei più famosi poeti contemporanei del mondo arabo, noto sia per la sua poesia impegnata che per le sue poesie d’amore. [Ndr].

2Quartiere nella parte orientale di Gaza City. [Ndr].