Diario da Gaza 16

“Il racconto di un operaio di Gaza detenuto e torturato in Israele”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI.. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

3 novembre 2023. Uno dei lavoratori palestinesi rapiti e torturati in Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre viene assistito dopo essere crollato all’arrivo al valico di frontiera di Kerem Shalom, nel sud della Striscia di Gaza.
Said Khatib/AFP

Martedì 9 aprile 2024.

Martedì mattina, c’era una faccia nuova tra i vicini venuti da me per sapere se avevo notizie. Un giovane di una trentina d’anni, che era appena stato liberato dagli israeliani. Nel racconto lo chiameremo Mohamed, perché non vuole rivelare la sua identità. È uno dei 16.000 abitanti di Gaza a cui era permesso di lavorare in Israele prima degli eventi del 7 ottobre.

Mi ha raccontato la sua storia. Mentre mi parlava, a volte si fermava per qualche secondo con le lacrime agli occhi. Mentre osservavo le sue mani, ho visto che aveva delle ferite sanguinanti all’altezza dei polsi. Mi ha detto: “Stringevano le manette di plastica fino a fare uscire il sangue”. Aveva ferite anche alle caviglie.

Mohamed vuole che ascoltiamo la sua storia. Eccola, raccontata con le sue stesse parole.

A partire da settembre 2022, ho lavorato in Israele, ad Acri, in un’azienda che produce tralicci d’alta tensione. Per ottenere l’impiego, mi ero rivolto a un intermediario, un kablan come si dice in ebraico. Come spesso accade, era un palestinese israeliano. Il suo principale, anche lui israeliano, pagava lo stipendio al kablan che poi lo versava a me, trattenendo una commissione.

La mia paga era di 350 shekel (87 euro) al giorno. Sono rimasto in Israele per 6 mesi, la durata del mio permesso di lavoro. Poi sono tornato per passare qualche giorno a Gaza. Nel frattempo, prima di ripartire, ho anche rinnovato il mio permesso. Preferivo non fare avanti e indietro per risparmiare il più possibile, e anche perché c’era il rischio che gli israeliani non mi rinnovassero il permesso ogni volta che rientravo.

All’improvviso, abbiamo sentito parlare in ebraico

Sono tornato in Israele il 5 ottobre. Il giorno 7, il principale israeliano ha detto a me e ad altri miei colleghi originari di Gaza che non potevamo più lavorare. Ha chiamato l’intermediario che ci ha portati a Ramallah, in Cisgiordania. Una volta lì, l’uomo ci ha detto: “Ora siete in territorio palestinese, potete cavarvela da soli”. All’inizio abbiamo avuto un’ottima accoglienza, c’era solidarietà tra di noi. Siamo rimasti a Ramallah per circa tre settimane. Poi sono venuti a prenderci degli uomini del Servizio di sicurezza preventiva palestinese1. Non volevano che rimanessimo a Ramallah e quindi ci hanno detto che ci avrebbero portati a Gerico. Non volevamo andarci perché avevamo paura di essere rinchiusi in qualche caserma palestinese o catturati dall’esercito israeliano in uno dei loro tanti posti di blocco.

E così siamo fuggiti. Cosa avremmo dovuto fare? Rifugiarci in Giordania? Avremmo dovuto pagare 8.000 dollari ai trafficanti, ma io non avevo quella somma. Sapevamo che in quel momento gli israeliani stavano cercando tutti gli abitanti di Gaza presenti in Cisgiordania. La gente aveva paura di aiutarci. Alla fine, sono andato a casa di un amico di famiglia a Qalqiliya2. Sono rimasto lì per quasi 4 mesi. Mi sono nascosto insieme ad altri due operai di Gaza nel garage di un edificio. I miei amici chiudevano la porta dall’esterno, per far credere che non ci fosse nessuno all’interno. Ma siamo stati traditi, probabilmente da una soffiata di un collaborazionista palestinese che ha detto all’esercito che c’erano tre persone in quel garage. All’improvviso, abbiamo sentito molti rumori di auto e delle voci che parlavano in ebraico. Abbiamo capito subito che erano lì per noi.

“Ci hanno ordinato di spogliarci completamente nudi”

L’esercito israeliano ha sfondato la porta. Sono entrati, ma non ci hanno trovato. Non c’era luce nel garage e così abbiamo pensato di non muoverci. Quando i soldati erano sul punto di andar via, ho sentito qualcuno che diceva in arabo: “Tornate indietro, vi dico che sono qui”. È così che ci hanno trovato. Subito ci sono arrivati addosso calci, pugni e colpi con il calcio dei fucili M-16. Poi ci hanno ordinato di spogliarci completamente nudi.

Hanno ricominciato a picchiarci su tutto il corpo. Avevo paura per i miei due compagni che avevano più di 60 anni. Non parlo bene l’ebraico, ma dicevo in arabo: “Che cosa volete? Perché mi state picchiando?”. L’unica risposta è stata: “Sta’ zitto, zitto e non ti muovere”. Poi ci hanno bendati, legandoci mani e piedi con fascette di plastica.

Erano così strette che avevo l’impressione che le mie mani e i miei piedi stessero per staccarsi dal mio corpo. Poi ci hanno trascinato a terra come fossimo delle pecore, perché non potevamo camminare con i piedi legati. Ci hanno scaraventato su una camionetta, o forse una jeep, non so, perché avevamo gli occhi sempre bendati. E anche una volta entrati, hanno continuato a picchiarci. Non ce la facevo più, non riuscivo a respirare. Mi sentivo di morire.

“Voglio umiliarti, così te lo ricorderai per tutta la vita”

Non so dove ci abbiano portato. Avevamo addosso solo i boxer. Ci hanno messo in una specie di baracca, e poi ci hanno tolto le manette e la benda dagli occhi. Un uomo mi ha detto in arabo: “Spogliati!”. Eravamo quasi nudi, avevamo solo i boxer. E così mi ha ordinato di tirarli giù e di girarmi.

Mi ha filmato di spalle, completamente nudo. Ho cominciato a gridare: “Ma cosa diavolo vuoi? Perché lo stai facendo? Vuoi uccidermi? Allora, fallo e basta!”, Mi ha risposto: “No, no, non voglio ucciderti. Voglio umiliarti, così te lo ricorderai per tutta la vita. Non dimenticartelo”. Poi ci hanno rimesso le bende sugli occhi e le manette, strettissime come prima, che mi tagliavano i polsi.

Poco dopo, ci hanno salire su un furgone che si è fermato più volte e ad ogni sosta, ci facevano scendere per picchiarci. Tutto questo è andato avanti per un’intera giornata. Poi il furgone si è fermato in un luogo circondato da carri armati, quasi fosse una specie di prigione. Ci hanno costretto a metterci in ginocchio sulla ghiaia. E lì è cominciato l’interrogatorio: “Che lavoro facevi? Come hai ottenuto il permesso? Dove lavoravi?”. La ghiaia ci entrava nelle ginocchia e nei piedi come fosse un coltello. Sempre lì, sentivamo delle grida, per lo più di donne: “Fermatevi, non strappatemi le unghie! Basta, lasciate stare i miei capelli!”. Abbiamo sentito subire torture per tutto il giorno.

“Avanti, sparate pure! Voglio morire”

Ci hanno dato solo un pezzo di formaggio e una bottiglietta d’acqua per 5 persone. Dopo averci torturato, ci hanno lasciato dormire, sempre solo con i boxer, le mani legate dietro la schiena e le manette alle caviglie. Abbiamo dormito per terra, sulla ghiaia, e la sensazione era come sdraiarsi su un cactus. Se volevamo cambiare posizione, un soldato veniva a prenderci a calci, perché avevamo le mani dietro la schiena.

Dopodiché, mi hanno messo contro un muro, le mani in aria, per quasi 12 ore. Non potevamo mai abbassare le mani. I soldati ci insultavano. Non c’era più alcuna morale, alcun pudore. Hanno cominciato a toccarci e io ho detto: “Avanti, sparate pure e portate a termine il vostro lavoro. Voglio morire”.

Un soldato mi ha risposto: “Io non sono come te, sono giusto. Se in questo momento ti dessi una pistola, mi spareresti addosso perché sei tu che vuoi uccidermi. Ma io non ho nessuna intenzione di ucciderti. Voglio solo umiliarti, così non te lo dimenticherai mai”. È questo è ancora peggio che uccidere qualcuno.

Dopo c’è stato un altro interrogatorio. Una soldatessa e un soldato ci hanno chiesto: “Avete qualche malattia?”. Ho risposto: “No, a parte il fatto che non riesco a respirare, ho dolori dappertutto e le mani che sanguinano”. Mi hanno dato delle medicine ma io non le ho prese, perché non sapevo cosa fossero. Altri però le hanno prese. E, a quanto sembra, qualcuno ha perso la memoria o ha avuto delle allucinazioni.

“Mi sono detto ok, è la fine”

Mi hanno chiesto di firmare un foglio in ebraico, ma non potevo leggerlo perché avevo gli occhi bendati. E così mi sono rifiutato di firmare. Mi hanno detto: “Non hai scelta, devi firmare subito”. Hanno iniziato a pestarmi fino a quando non ho accettato, ma non so cosa ho firmato.

Per dei giorni o forse una settimana – non ricordo – ci hanno reclusi in un altro luogo, una villetta. Mi hanno tolto la benda ed era la prima volta che vedevo un po’ di luce e delle persone intorno a me. Quando mi hanno tolto anche le manette, ho visto i tagli che avevo all’altezza dei polsi e delle caviglie.

Più tardi, ci hanno rimesso le manette e le bende sugli occhi, facendoci salire di nuovo sul furgone. Eravamo forse una cinquantina. Ci hanno detto che ci avrebbero portati a Kerem Shalom, un valico di passaggio tra Israele e la Striscia di Gaza. In realtà, ho pensato che ci avrebbero giustiziati. Mi sono detto ok, è la fine. Dopo essere stati torturati, succede sempre così. Vogliono eliminare i testimoni.

E invece ci hanno portato davvero a Kerem Shalom. Quando siamo arrivati, abbiamo visto soldati e carri armati dappertutto. Lì ci hanno tolto le manette e le bende sugli occhi e ci hanno detto: “Non voltatevi, proseguite dritti. Non girate né a destra, né a sinistra, dovete andare sempre dritti”. Ho pensato che ci avrebbero sparato alle spalle, che si sarebbero divertiti a spararci addosso come alle anatre, come fanno di solito. Ho avuto davvero paura.

Una vendetta cieca contro ogni palestinese

Abbiamo camminato per un’ora e mezza, o forse due ore. Alla fine, abbiamo visto le tende delle Nazioni Unite vicino Kerem Shalom. Lì ho capito che eravamo salvi. Il personale delle Nazioni Unite ci ha detto di chiamare le nostre famiglie, ma gli israeliani ci avevano sequestrato i cellulari. Molti di quelli che erano con me avevano dimenticato i numeri di telefono delle loro famiglie, dove vivevano, a causa delle torture o delle pillole che erano stati costretti a ingerire. Gli israeliani ci avevano preso anche tutti i soldi. A me 13.000 shekel (3.250 dollari) che era tutto quello che avevo guadagnato lavorando in Israele.

Alla fine, sono riuscito a incontrare la mia famiglia, che vive a Rafah. Da allora non mi sento più un essere umano, ma un animale fuggito dal mattatoio. Non riesco più a dormire. Dei medici mi hanno dato sedativi e sonniferi. Ma ogni volta che provo a chiudere gli occhi, rivedo quelle immagini: l’arresto, le torture e soprattutto gli abusi commessi dei soldati quando ero nudo. Ho chiesto più volte di uccidermi. Vivere con quell’umiliazione mi sembrava insopportabile. Ho desiderato davvero che mi fucilassero, che mi uccidessero subito piuttosto che farmi vivere tutto questo. Quando siamo arrivati alle tende dell’Onu, ho parlato con le persone che erano con me. Ho sentito cose orribili, soprattutto da parte delle donne.

Ho capito che si trattava di una vendetta cieca contro ogni palestinese.

Sono sposato, ho 34 anni e due figli, una bambina di 10 anni e uno di 6. Ero felice di rivederli. Ma allo stesso tempo, ciò che sognavo per loro, ossia lavorare, mettere da parte dei soldi e costruire una casa perchè potessero avere una vita migliore, è ormai tutto finito. So che ora, dopo tutto quello che è successo, non tornerò più a lavorare in Israele. Quindi non avrò più un lavoro. A Gaza non so cosa fare. Mi sento un peso per i miei genitori, soprattutto per mio padre. Ora è lui che dà da mangiare a me e ai miei figli. Al momento, con la guerra, non si trova cibo e non ho risparmi da parte. Ho speso tutto e ora non so cosa fare.

Ho deciso di raccontare tutto questo perché voglio che la gente sappia quello che abbiamo subito. Noi non c’entriamo niente con tutto quello che è successo. Anzi, noi lavoravamo con gli israeliani, avevamo amici israeliani, mangiavamo insieme al principale. Abbiamo celebrato insieme le feste religiose ebraiche. E poi all’improvviso, quello stesso israeliano che mi considerava un amico mi ha trasformato in un animale da torturare e uccidere.

1Il servizio di sicurezza preventiva è l’apparato ufficiale di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. È stato istituito nel 1994 dal presidente Yasser Arafat in conformità con gli accordi di Oslo. [NdT].

2Città della Cisgiordania, a nord-ovest di Ramallah. [Ndr].