
Martedì 3 giugno 2025
La settimana scorsa dovevo portare Ramzi, mio figlio di tre mesi, a fare il vaccino. Ho iniziato a dare un’occhiata in giro, ma mi hanno detto che non c’erano più vaccini in quello che resta del settore pubblico. Poi qualcuno mi ha detto: “Forse ne hanno all’UNRWA? C’è un centro di vaccinazione in una delle loro scuole”. Ci ho pensato molto prima di andarci perché, come tutti gli abitanti di Gaza, so che le scuole, trasformate in centri di accoglienza per sfollati, sono bersagli dell’esercito di occupazione. Vengono bombardate quotidianamente. Certo, quasi verrebbe da dire: “Ma quella scuola è una clinica dove si vaccinano i bambini, non la bombarderanno mica”. Ma non bisogna farsi troppe illusioni.
Ma ho comunque deciso di correre il rischio. Ho detto a Sabah: “Facciamo il più in fretta possibile. Se c’è molta gente, torniamo indietro, non dobbiamo restare lì a lungo, è troppo pericoloso”. Arrivati sul posto, abbiamo scoperto che si trattava effettivamente di una vecchia scuola trasformata in rifugio per sfollati, come le altre strutture dell’UNRWA. C’erano centinaia, forse migliaia di persone, erano ovunque, avevano persino montato delle tende nel cortile. Il piano terra e il primo piano erano affollati di uomini, donne e bambini, ammassati gli uni sugli altri. Ovunque c’era biancheria stesa ad asciugare. Vestiti non lavati perché non c’è acqua a sufficienza, né detersivo. La gente li appende all’aria aperta per asciugarli un po’. È tutto quello che possono fare.
Molti neonati non hanno alcuna vaccinazione
Ho chiesto dove fosse la clinica. Mi hanno detto: “Deve salire al secondo piano”. Lì, c’era un’aula trasformata in studio medico. Un foglio attaccato alla porta recitava “medici generici”. La parola “farmacia” era scritta sulla porta di una seconda aula, davanti alla quale molte persone facevano la fila. Ma per i vaccini? “Sono sul tetto”, mi hanno detto quelli che erano lì. Siamo quindi saliti sul tetto, dove c’erano ancora tende e teloni, ma per ospitare i luoghi di vaccinazione. E in un angolo, ancora una fila. Questa volta era la fila per i vaccini.
Volevo sapere se valeva la pena aspettare. Un uomo che organizzava la fila mi ha chiesto che tipo di vaccino stavo cercando. Ho risposto “il vaccino per tre mesi”. La risposta è arrivata subito: “Non ce ne sono più”. Ho chiesto comunque all’infermiera. Le ho mostrato il libretto delle vaccinazioni di Ramzi e lei mi ha detto: “Mi dispiace, ma non ce ne sono più, e non vale la pena cercare da altre parti, non ne troverà in tutta la Striscia di Gaza”.
Ero sgomento, ma, al tempo stesso, ho tirato anche un sospiro di sollievo. Ero sollevato perché non dovevo aspettare rischiando di essere ucciso da un raid, e allo stesso tempo sconvolto perché non riuscivo a trovare il vaccino per mio figlio. Ramzi ha comunque avuto la fortuna di essere vaccinato due volte, dopo una settimana dalla nascita e quando ha compiuto un mese. Molti neonati non hanno alcuna vaccinazione.
Gli aiuti umanitari non sono solo cibo e acqua
Mio figlio è solo un esempio tra centinaia di migliaia di altri casi: persone che soffrono di malattie croniche, soprattutto tumori e malattie cardiache, e tutte le malattie croniche che richiedono controlli approfonditi e attrezzature specializzate. I pazienti che hanno bisogno di dialisi regolari muoiono lentamente e in silenzio, per mancanza di cure. L’unica struttura che disponeva di un reparto di oncologia, l’ospedale turco, si trovava nei pressi del Corridoio di Netzarim. È stato preso di mira dall’esercito di occupazione. L’ospedale europeo poteva fornire alcune terapie, ma è stato bombardato un mese fa ed ora è fuori servizio.
Lo stesso vale per i farmaci. Non se ne trovano praticamente più, né nelle farmacie private né nel settore pubblico. I feriti non possono più ricevere cure. Non ci sono quasi più ospedali nel nord. Uno degli ultimi ancora funzionanti, l’ospedale Al-Awda, gestito da un’associazione senza scopo di lucro, è stato evacuato l’altro ieri. A Gaza City, l’ospedale Al-Shifa è fuori servizio. Accanto alle sue macerie è stato allestito un piccolo ospedale da campo, ma è in grado di curare solo il 10% circa dei pazienti che prima venivano curati da quella grande struttura. L’altro importante centro ospedaliero, Al Ali, detto anche l’Ospedale Battista, funziona al 20% delle sue capacità in tempi normali. Anche gli ospedali da campo allestiti dalle Ong internazionali soffrono di questa carenza di attrezzature e medicinali.
La carenza di medicinali ha colpito anche noi. Mia moglie Sabah è asmatica. Ha bisogno di un inalatore chiamato Foster, che è introvabile, e il fumo del forno di argilla su cui cucina non migliora le cose, soprattutto perché in questo periodo sta allattando Ramzi. La nostra cara amica Marine Vlahovic riusciva a procurarci il Foster grazie ai suoi contatti. Ma non è più tra noi, che riposi in pace, ed io non smetto mai di renderle omaggio. Per me, Marine è un raggio di sole che non si spegnerà mai.
In questo momento si parla molto di aiuti umanitari per Gaza; nel sud stanno aprendo centri di distribuzione di cibo gestiti da una società americana, il che però non impedisce all’esercito israeliano di sparare occasionalmente sui gazawi che cercano di avvicinarsi. Ma gli aiuti umanitari non sono solo cibo e acqua.
Se l’Europa e la Francia vogliono davvero agire, possono farlo
Ma detto questo, la situazione a Gaza non si riduce a un problema umanitario. È un problema politico. Da due o tre settimane, comincio però a sentire un cambio di rotta da parte dei leader dei paesi europei. Non so se si siano finalmente svegliati, o se ora si rendano conto di ciò che sta accadendo a Gaza e in Palestina in generale. In ogni caso, le posizioni stanno cambiando, e anche il vocabolario; non si parla ancora di genocidio, ma si sente anche l’uso di nuovi termini, come “inaccettabile”.
Ci sono voluti venti mesi di guerra perché si svegliassero? Mi fanno tornare in mente Madame Bovary, che ho studiato al liceo. Ho ricordi lontani, ma mi aveva colpito la storia di questa borghese di provincia che viveva in un mondo immaginario e finiva per scontrarsi con la realtà, sulla quale non aveva alcun controllo. L’Unione Europea è Madame Bovary. Ma, in fin dei conti, non è mai troppo tardi per denunciare un genocidio.
Vedo anche un cambiamento nei media europei. Si parla sempre più spesso di Gaza. Mi chiedo se i media abbiano aspettato il via libera dei governi, o se sia vero il contrario, ovvero che siano stati i media a influenzare i governi. In ogni caso, la tendenza oggi è quella di parlare di Gaza, ed è questo diverso atteggiamento che mi interessa. Certo, non basta.
Se l’Europa e la Francia vogliono davvero agire, possono farlo. Anche Madame Bovary può agire, se accetta di sporcarsi i suoi bei vestiti confrontandosi con la realtà. Non è facile. Per adottare sanzioni, la Commissione europea deve riunirsi, e questo richiede tempo. È necessaria una posizione europea unitaria. È necessario, è necessario, è necessario. E guarda caso, quando in gioco è la Palestina, ci vuole... molto tempo. Mentre per l’Ucraina non ci sono voluti nemmeno tre o quattro giorni. Ma si possono fare molte cose senza passare dalla Commissione europea, a livello bilaterale. Si può, ad esempio, richiamare il proprio ambasciatore, si possono espellere gli ambasciatori israeliani. Del resto, alcuni paesi europei hanno già annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese, mentre la Spagna ha annullato un contratto sottoscritto con un’azienda israeliana per l’acquisto di armi.
Si può accusare Israele di affamarci, ma non di commettere un genocidio
Ma lo ripeto, non si tratta solo di una crisi umanitaria. Non siamo dei piccioni in gabbia a cui basta dar da mangiare per risolvere il problema. Si stanno mobilitando contro la fame, ma la tortura, i massacri, le stragi, le “israelerie” è come se fossero normali. Si può accusare Israele di affamarci, ma non di commettere un genocidio. Non so perché i politici siano allergici a questa parola. Ci sono già stati diversi genocidi nella Storia, e il termine non appartiene a un solo popolo.
Siamo massacrati e sotto occupazione dal 1948, che continua tuttora a Gaza. E in Cisgiordania è anche peggio. A poco a poco verrà annessa da Israele. Quando si accusa i palestinesi di voler cancellare Israele, di non voler convivere con gli israeliani, è come accusare i gatti di voler uccidere tutti i leoni nei paraggi. Nessuno vuole vedere che sono i leoni, che non solo uccidono i gatti, ma vogliono anche cacciare tutti dal loro piccolo pezzo di terra.
E non solo. Non sognano solo di espandere il loro territorio fino al fiume Giordano, ma fino all’Eufrate. Non hanno più nessun problema a dirlo. Lo scrivono sui loghi, sulle mappe... E nessuno dice che è un modo di fare terrorismo, e che è inaccettabile. Mentre noi, quando vogliamo vivere in pace e liberare il nostro territorio occupato, siamo terroristi.
È vero che stiamo morendo di fame, ma stiamo anche morendo sotto le bombe e i proiettili. Fermate questa occupazione, liberate la Palestina, accettate due Stati. Quando c’è stato l’accordo di spartizione della Palestina, tutti il mondo ha riconosciuto Israele, ma nessuno ha riconosciuto la Palestina. E il mondo ha riconosciuto uno Stato senza confini. Chi può dire dove sono i confini di Israele? Il diritto internazionale? Le Nazioni Unite? L’Unione Europea? Possono saperlo gli stessi israeliani? Voi parlate, parlate, ma solo delle cose che vi convengono, mentre nessuno parla di correttezza e giustizia.