Diario da Gaza 32

“La gente ha perso la speranza di vivere su questa terra”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Ora condivide un appartamento con due camere da letto con un’altra famiglia. Nel suo diario, racconta la sua vita quotidiana e quella degli abitanti di Gaza a Rafah, bloccati in questa enclave miserabile e sovraffollata. Questo spazio è dedicato a lui.

Gaza, 18 maggio 2024. Un’immagine tratta da un video diffuso dall’esercito israeliano che mostra presumibilmente ciò che viene descritto come aiuto umanitario che entra nella Striscia di Gaza attraverso il ponte galleggiante temporaneo costruito dagli Stati Uniti.
AFP

Sabato 18 maggio 2024.

La gran parte degli sfollati ha lasciato Rafah e le zone circostanti per andare a Deir el-Balah, diventata la nuova “capitale economica” dove ora vivono circa un milione di persone. Da quando sono partiti, si trovano molte più merci a Rafah. Sulle confezioni le etichette non sono più scritte in arabo, e non si trovano più prodotti egiziani. Tutto è scritto in ebraico. Da una settimana gli israeliani hanno riaperto il valico di Kerem Shalom al confine con Israele. I trasportatori privati palestinesi possono quindi importare direttamente dalla Cisgiordania, passando attraverso il territorio israeliano. In Cisgiordania, la maggior parte dei prodotti sono israeliani, perchè i palestinesi non hanno alcun controllo sui loro confini o sulle importazioni.

È una situazione abbastanza paradossale. Gli israeliani ci bombardano ogni giorno, ma allo stesso tempo invadono il nostro mercato. Proprio come gli americani che riforniscono di armi Israele, e poi lanciano col paracadute qualche sacco di farina per “farci arrivare gli aiuti”. È un’occupazione che rende ottimi profitti. In qualsiasi altra parte del mondo dove ci sia un’occupazione, questa comporta un costo per l’occupante. Qui invece, sin dagli Accordi di Oslo sono previsti aspetti economici che concedono a Israele la possibilità di generare profitti.

La maggior parte della popolazione della Striscia di Gaza dipende al momento dagli aiuti umanitari. La gente non ha più potere d’acquisto. Chi era ricco è diventato povero, e chi era povero è diventato ancora più povero. La classe media è scomparsa. Chi aveva messo da parte dei risparmi ha speso tutto in questi 7 mesi. La colpa è anche degli speculatori di guerra palestinesi, che hanno fatto salire i prezzi alle stelle. Prima di questo periodo, c’era il monopolio degli egiziani, che tassavano pesantemente ogni camion che entrava a Rafah, compresi quelli degli aiuti umanitari.

Perché gli Stati Uniti stanno investendo così tanto per far arrivare 50 camion?

Gli israeliani hanno ucciso oltre 30.000 persone nella Striscia di Gaza e ora ci stanno dando da mangiare con la loro produzione. Ma c’è anche un’altra questione. Gli Stati Uniti sostengono di aver speso 330 milioni di dollari (quasi 303 milioni di euro) per costruire una piattaforma galleggiante, che ha fatto sbarcare 20 camion il primo giorno. In maniera simbolica, gli israeliani ne hanno fatti passare 10 per il Programma Alimentare Mondiale. Ora sarebbe lecito chiedersi: che senso ha un simile investimento? Solo per far passare qualche camion? E perché gli israeliani li hanno lasciati passare, quando vietano perfino l’ingresso degli aiuti umanitari a favore dei prodotti israeliani?

Con quei 330 milioni di dollari si potrebbero far entrare migliaia di camion ogni settimana. Perché gli israeliani hanno concesso agli americani il permesso di costruire una piattaforma galleggiante mentre bloccano l’entrata dei camion via terra? Dicono che è per motivi di sicurezza. Ma quando si tratta del settore privato e la maggior parte delle merci proviene da Israele, non c’è alcun problema di sicurezza. Nell’ultima settimana, quasi 50 camion del settore privato sono entrati ogni giorno direttamente dal valico di Kerem Shalom, senza alcun problema di sicurezza.

Bisogna sempre dubitare delle voci che girano. La maggior parte degli abitanti della Striscia di Gaza comincia a chiedersi: per quale motivo è stato costruito un porto galleggiante? Perché gli Stati Uniti investono così tanto per far arrivare 20 – o anche 50 – camion al giorno? Non credo che il motivo sia solo quello di aiutare la popolazione palestinese, dal momento che si tratta di cifre ridicole rispetto ai bisogni.

La popolazione potrebbe prendere in considerazione la possibilità di andare via

Un modo per capire cosa si vuole fare con questo porto galleggiante è guardare al passato. A volte si ha l’impressione che la storia si ripeta, e che oggi stiamo rivivendo lo stesso scenario del 1982 a Beirut. All’epoca, gli israeliani avevano circondato la città per cacciare Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Dopo 90 giorni di assedio e bombardamenti, Arafat e i suoi combattenti furono fatti evacuare via mare. Oggi a Gaza ci si chiede: gli israeliani si stanno preparando a far uscire i capi e i miliziani di Hamas attraverso il porto galleggiante? Visto che gli egiziani negano la possibilità agli abitanti di Gaza di rifugiarsi sul loro territorio, potrebbero dare il via libera a questo trasferimento marittimo come nel 1982.

A quel tempo, Arafat aveva creduto alle promesse degli Stati Uniti di riconoscere l’OLP come rappresentante del popolo palestinese. Ma poi il presidente Ronald Reagan non mantenne le promesse. Anche dopo gli Accordi di Oslo ci furono altre promesse, garanzie da parte del Quartetto (Russia, Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite) e neanche queste furono rispettate. Alla fine, gli israeliani hanno fatto ciò che volevano.

Credo che questa volta non saranno i miliziani di Hamas ad andarsene, ma l’intera popolazione di Gaza. La gente potrebbe prendere in considerazione quest’eventualità perchè ha perso la speranza di vivere su questa terra ed è comprensibile, perché gli israeliani hanno distrutto assolutamente tutto: le infrastrutture, le falde acquifere, i pozzi, gli impianti dell’energia elettrica, gli ospedali, le officine e le piccole fabbriche che esistevano, le università, le scuole, persino gli asili. A Gaza non c’è più niente.

Al momento, la popolazione sta cercando solo di sopravvivere grazie all’adrenalina, perché viene cacciata da una città all’altra, a volte da un quartiere all’altro. Tutta l’energia viene spesa per cercare di sopravvivere. Ma il giorno in cui questa guerra finirà, il giorno in cui ci sarà un cessate il fuoco, ci si renderà conto dell’entità della distruzione dell’intera Striscia di Gaza, che ormai è diventata invivibile.

Una generazione senza scuole, senza università

La ricostruzione è solo una carta nelle mani degli israeliani per ricattare gli abitanti di Gaza. Ci vorranno anni e anni, forse una generazione, per ricostruire Gaza. Ma è un periodo troppo lungo perché sia vissuto senza scuole, senza università. Senza istruzione, non c’è vita. Ecco perché molta gente, se spinta a farlo, sceglierà di uscire attraverso questo porto galleggiante, cosa plausibile. Dietro l’aspetto umanitario, c’è sempre la politica.

Chi aveva la possibilità è già andato via quando è stato riaperto il valico di Rafah, pagando 5.000 dollari a persona. Per riuscire a partire, chi poteva ha venduto la macchina, i gioielli, tutto ciò che aveva a metà prezzo. Chi aveva un po’ più di soldi è andato in Egitto o in altri paesi. Chi è rimasto in Egitto ora si chiede cosa fare: cercare di integrarsi o provare a emigrare in Europa? Ma una cosa è certa: non torneranno a Gaza. Chi ha venduto tutto, non l’ha fatto solo per andare via, ma per aver la speranza di rifarsi una vita all’estero.

Nel 1982, a Beirut, ci fu una guerra spietata. All’epoca, i combattenti dell’OLP fecero di tutto per impedire agli israeliani di entrare nella capitale libanese, ma poi furono costretti ad andarsene. E così ci fu il massacro di Sabra e Shatila. Malgrado tutti i sacrifici, non ci fu alcuna vittoria da ambo le parti, né militare né politica. A perdere furono tutti. Oggi temo che possa avvenire la stessa cosa. E se, dopo un negoziato internazionale, gli abitanti avranno la possibilità di andare via da questa terra martoriata senza speranza di fare ritorno, lo faranno.