
Giovedì 17 ottobre 2024.
È da giorni la città di Jabalya e il suo campo profughi sono sotto assedio. Purtroppo, visto quello che sta accadendo in Libano, se ne parla davvero poco. Situato al confine con Israele nel nord della Striscia di Gaza, il campo profughi di Jabalya è stato continuo teatro di operazioni militari fin dall’inizio della guerra. I suoi abitanti hanno dovuto lasciare più volte le loro case e i loro quartieri per cercare rifugio altrove. Ma questa volta è diverso.
Gli abitanti del campo profughi ora non possono più partire. Le informazioni che ci arrivano da lì sono pochissime. Ho provato più volte a chiamare un amico giornalista che scrive per il quotidiano Al-Ayyam, Issa Saadallah, che, insieme alla sua famiglia, si è rifiutato di lasciare Jabalya, disobbedendo all’ordine di evacuazione israeliano. È uno dei pochissimi giornalisti ad essere rimasto. La maggior parte di loro è fuggita a Gaza City o è finita nel mirino dell’esercito israeliano. Avete visto tutti come i cecchini hanno ucciso nella sua casa un giornalista, ferendone altri due, uno di questi era il cameraman di Al-Jazeera.
Finalmente, mercoledì 16 ottobre sono riuscito a contattare Issa. Senza rendersene conto, Issa parlava sttovoce al telefono, come se si stesse nascondendo. Ho vissuto la stessa esperienza quando eravamo sotto assedio. Anch’io, ho cominciato a parlare a bassa voce. È un fattore psicologico, come se parlare a bassa voce potesse proteggerci dai carri armati e dalle bombe.
“Sparano a chiunque cerchi di uscire dal campo”
Issa vive con sua moglie e cinque figli in una casa di famiglia. Vivono su quattro piani, con altri membri della sua famiglia, nell’edificio sono in tutto una cinquantina. Quando l’ho chiamato, mi ha detto che era da molto tempo che non riusciva a caricare il cellulare. Alla fine, è riuscito a caricarlo grazie alla poca energia elettrica fornita dai pannelli solari, quanto basta per far funzionare qualche lampadina e soprattutto per caricare i cellulari.
Ha cominciato a descrivermi la sua situazione:
La cosa è semplice: siamo sotto assedio totale dei carri armati israeliani a terra, e dei droni e quadrirotori1 dal cielo. Ce n’è praticamente uno in ogni strada. Sparano a chiunque cerchi di uscire dal campo.
La prima domanda che ho fatto a Issa è stata: “Perché non hai lasciato Jabalya? Almeno potevi andare a Gaza City...”. Mi ha risposto: “Sai bene cosa significa: quando hai lasciato Gaza City ti hanno sparato addosso e ti sei salvato per miracolo”. Poi ha aggiunto: “In ogni caso, per me, andare a Gaza City o nel sud, è lo stesso perché significa lasciare tutto. La mia casa è qui ed è qui che voglio restare”. Tutta la sua famiglia, fratelli, mogli e figli, hanno preso la stessa decisione. Oggi, la loro situazione è drammatica:
A parte la paura, abbiamo ben poco da mangiare. A Jabalya non si trova più nulla. Abbiamo solo qualche scorta di farina e qualche scatoletta. Ormai ci siamo abituati, è quasi un anno che non mangiamo altro. Abbiamo dimenticato il sapore della frutta, della verdura e di tutto il resto.
Poi ha aggiunto: “Per dirlo in parole povere: dal primo giorno di guerra non siamo mai andati a letto con la pancia piena”. È un’espressione che da noi significa andare a letto a stomaco vuoto.
Ma ciò che è più difficile è gestire la fame dei bambini. Quando mio figlio Mahmud, di sei anni, mi ha detto che voleva delle uova, una cosa semplice da procurarsi in tempi normali, ero angosciato. Non ho mai provato una sensazione così intollerabile.
Mentre ascoltavo il racconto di Issa, non sapevo cosa dire. So bene quello che sta passando, perché mi sono trovato nella stessa situazione. Non potrò mai dimenticare il giorno in cui Walid mi ha chiesto di mangiare “jaja”, come lui chiama il pollo, e non sono riuscito a comprarglielo. Oggi se ne può trovare a Deir al-Balah, il luogo dove viviamo in tenda. Ma certamente non si trova al nord.
Mi ha anche raccontato la reazione di sua nipote May, che ha tre anni e mezzo:
È successo tre o quattro settimane fa, prima dell’assedio, ma non c’era già molto da mangiare. Un amico di suo padre è arrivato dalla zona sud, probabilmente era uno di quei trasportatori che lavorano per le Ong e che possono passare attraverso i checkpoint. Il suo amico è arrivato con un bel regalo: sei mele. Ne ha data una a May, ma la bambina l’ha subito gettata via. Non ne aveva mai vista una, o forse aveva dimenticato cosa fosse. Il mio unico desiderio è che i miei figli escano da questo inferno. Tutto quello che voglio ora è che possano mangiare e bere normalmente, vedere la frutta e la verdura con i loro occhi. Non voglio che muoiano avendo dimenticato tutto. Ma a Gaza non c’è più nulla. La vita non esiste più a Gaza.
“Un bicchiere a testa al giorno”
Soprattutto, non possono andare a prendere dell’acqua. “È questa è la vera tragedia”, dice Issa. Si può sopravvivere con cibo in scatola e un po’ di pane, ma senz’acqua è impossibile. L’acqua potabile viene razionata: un bicchiere a testa al giorno”. Devono anche ridurre il più possibile il consumo di acqua non potabile, che, quasi sicuramente, saranno presto costretti a bere.
So bene cosa significa tutto questo. Quando eravamo sotto assedio, anche noi abbiamo ridotto al minimo il consumo d’acqua, facendo attenzione a tutto. Mi vergogno a parlarne, ma lo faccio affinché tutti possano rendersene conto. Ridurre l’uso d’acqua significa, ad esempio, tirare lo sciacquone solo dopo tre o quattro che si usa il water, perché per ogni scarico vengono impiegati 17 litri d’acqua, il contenuto di un’intera tanica.
Ma almeno noi potevamo uscire un po’ sotto casa per far prendere un po’ d’aria a Walid. Issa e la sua famiglia non possono nemmeno mettere il naso fuori casa. Sa quello che avviene fuori solo comunicando con gli altri abitanti. “Gli israeliani stanno radendo al suolo interi quartieri”, mi dice. Ha appena saputo della morte di una sua cugina, di suo marito e della loro figlia. “Ecco com’è la nostra vita a Jabalya. Gente che muore sotto le bombe nella propria casa. Non sappiamo quando arriverà il nostro turno. Siamo in mezzo alla zona assediata, in attesa...”.
Da giornalista, Issa ha commentato la situazione anche dal punto di vista politico:
Forse stiamo assistendo all’attuazione del “piano dei generali”: sfollare l’intera zona nord della Striscia di Gaza per annetterla. Questo spingerebbe tutti gli abitanti rimasti nel nord della Striscia di Gaza ad andare verso la metà sud, passando attraverso i checkpoint, in modo da verificare l’identità di ogni persona. I combattenti di Hamas non avrebbero altra scelta che arrendersi o morire di fame nella zona assediata.
A Jabalya, ci sono quasi 100.000 persone che non vogliono andarsene.
Viviamo massacri ogni giorno. Non li vediamo con i nostri occhi, ma li sentiamo, oltre ai racconti dei testimoni. Ogni ora, veniamo a sapere che un’intera famiglia è stata uccisa nel bombardamento della loro casa, o mentre cercava di andarsene. È un’agonia.
“Ma era ancora viva...”
Issa e la sua famiglia vivono sotto assedio. La morte aleggia su di loro, ma non sanno quando arriverà. E tra la vita e la morte, c’è la carestia. Non sanno se la loro casa sarà bombardata “sulle loro teste”, come si dice nel nostro paese, o se moriranno di fame.
Da poco girano delle immagini di Jabalya e dintorni. Forse avete visto i primi video che arrivano dal quartiere di Fallujah. I soccorritori sono accorsi per far uscire le persone che volevano fuggire. Hanno scoperto una famiglia in una pozza di sangue, sotto le macerie della loro casa bombardata. C’erano solo due sopravvissuti. Un adolescente di circa diciassette anni, con gli occhiali, visibilmente sotto shock, che ripeteva le stesse frasi, parlando della madre morta: “Ma era ancora viva, volevo salvarla, ma c’è stato un secondo bombardamento ed è morta davanti ai miei occhi!”.
Sempre a Fallujah, un raid ha ucciso la famiglia dei cugini di un amico. Per rispetto, non voglio dire il suo cognome, capirete bene il perché. Il padre di questo cugino ha un pozzo nel suo giardino e dei pannelli solari da cui riesce ad avere un po’ di energia elettrica per far salire l’acqua e riempire le cisterne. Quando può, riempie le cisterne dei suoi vicini. Il nonno stava collegando la pompa a un’autocisterna, assistito dal nipote. È stato in quel momento che un aereo israeliano ha sganciato una bomba direttamente su di loro.
Delle dieci persone che si trovavano lì, sette morte sul colpo e tre sono sopravvissute: il cugino del mio amico, sua madre e sua nipote. Quando sono arrivati i vicini e i soccorritori, hanno trovato i morti e i sopravvissuti, tranne il piccolo Imad, uno dei figli. L’hanno cercato per due giorni. A un certo punto, in una stradina lì vicino, hanno visto un branco di cani che si aggirava intorno a qualcosa: stavano mangiando il cadavere del piccolo Imad, scaraventato lì dalla bomba. Avevano già sbranato parte della testa e dell’addome.
Non capisco perché nessuno faccia nulla
Questo vuol dire essere umiliati. Nessuno può capire cosa significhi se non l’ha vissuto sulla propria pelle. L’umiliazione di morire a casa propria. L’umiliazione di morire perché stai dando dell’acqua ai tuoi vicini. L’umiliazione di non ritrovare i nostri corpi, fatti a pezzi e dispersi dalle bombe, di cui raccogliamo i pezzi per metterli in sacchi di plastica. L’umiliazione di trovare un bambino di sei anni, sbranato dai cani. È questa l’umiliazione. È quello che cercano di fare gli israeliani: tenerci nell’umiliazione. Farci morire nell’umiliazione.
Non capisco come sia possibile che nessuno faccia nulla. Tutto accade sotto gli occhi del mondo intero, su tutti gli schermi. Non siamo dei numeri. Non ci sono solo 42.000 morti e 100.000 feriti. Ogni vittima ha una propria storia. Ogni vittima ha qualcosa da dire. Ogni vittima aveva delle speranze, delle ambizioni, dei sogni e voleva semplicemente vivere come gli altri. Non capisco perché questo mondo cieco si rifiuti di vedere tutta questa sofferenza. Perché nessuno denuncia la totale impunità dell’occupante? Basta! Com’è possibile che abbiano perso ogni senso d’umanità? O questi occupanti sono davvero i padroni del mondo, oppure il mondo ci vede come degli animali, come ha dichiarato Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano. Se siamo animali selvatici, non importa se veniamo sbranati dai cani. È quello che può benissimo accadere tra animali.
Quando finirà tutto questo? Quando ci sarà un po’ di umanità? Quando si comincerà a fare qualcosa? Non abbiamo gli occhi azzurri o i capelli biondi, ma siamo esseri umani. Meritiamo di vivere come esseri umani. Il nostro peccato è quello di essere occupati dagli israeliani. È tutto quello che abbiamo “fatto” nella nostra vita. Siamo nati su questa terra, occupata dagli israeliani, e per questo meritiamo tutto quello che ci stanno facendo. E poiché sanno bene che teniamo molto alla nostra dignità, vogliono umiliarci fino alla fine. Fanno tutto questo perché vogliono farci prendere la decisione di lasciare questa terra, ormai una terra di umiliazione.
1Piccoli droni armati